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Roberto Finzi – «Sazia assai ma dà poco fiato». Il mais nell’economia e nella vita rurale italiane – 2009

Roberto Finzi
Bologna, Clueb, 153 pp., euro 20,00

Anno di pubblicazione: 2009

Il volume ripercorre con raffinatezza la storia della diffusione del mais in Italia, alternando fonti di vario tipo, da quelle proprie della storia economica a quelle iconografiche e della storia sociale, nel periodo che va dal XVI al XX secolo. «La lunga marcia del mais» – è il titolo della prima parte – inizia dalla scoperta dell’America, definita come il contributo di Colombo «a una vera e propria unificazione biologica del mondo» (p. 10) e all’incontro di due sistemi agricoli (europeo e americano), prima reciprocamente ignoti, tra cui cominciò un’incessante migrazione di colture, di allevamenti e di abitudini alimentari. L’affermazione in Europa di nuove abitudini alimentari legate a piante estranee al suo habitat fu anche causa, come nota l’a., dell’ampliamento del dominio coloniale europeo. Seguendo dunque gli spostamenti del mais, è possibile ricostruire e conoscere da un peculiare angolo visuale la storia di relazioni commerciali, politiche, sociali. A questo Finzi aggiunge un’attenzione specifica per l’aspetto tecnico-scientifico delle coltivazioni: nella ricostruzione storica, con un occhio all’alimentazione e all’ambiente, rientrano dunque non solo l’aspetto mercantile della diffusione del mais, ma anche i «viaggi», poco visibili, del germoplasma maidicolo, con le diverse manipolazioni varietali da esso subite, dagli ibridi del ’500 a quelli realizzati negli Stati Uniti alla metà degli anni ’20 del ’900, per arrivare agli Ogm.Portato dalla Spagna in Italia, il mais sembra coltivato per la prima volta nella penisola nel 1539. Facendo riferimento a riflessioni di storici come Fernand Braudel o a pensatori come Adam Smith, l’a. rifiuta lo schema interpretativo secondo cui la diffusione delle nuove colture americane (oltre al mais, la patata) abbia avuto un effetto determinante nel sostenere la crescita demografica europea tra gli inizi del ’500 e il ’700, e ritiene invece che questa sia stata possibile grazie soprattutto all’ampliamento delle terre coltivate e ad un miglioramento delle tecniche produttive. In Italia, d’altronde, l’impatto del mais sui rapporti di produzione non ebbe una funzione «rivoluzionaria» paragonabile a quella del riso (p. 67).Il fenomeno della pellagra, legato alla diffusione del mais e al sottosviluppo – è la tesi principale della seconda parte – appare già nel tardo secolo XVII. I segni caratteristici della malattia sono le «tre D»: dermatite, diarrea, demenza (p. 94). Malattia sostanzialmente rurale, essa colpì soprattutto le fasce più povere e gli anziani, ma sulla sua natura sociale ed esatta eziologia, l’a. dichiara l’esistenza di punti ancora irrisolti, non riuscendo la carenza di acido nicotinico a spiegare interamente il fenomeno della sua diffusione. Inoltre si riscontra una curiosa aporia cronologica, tra la sostanziale sconfitta della malattia, verificatasi in Italia a cavallo tra ’800 e ’900, e l’individuazione scientifica del fattore antipellagroso, avvenuta successivamente. Un ulteriore stimolo a indagare e a comprendere le connessioni tra alimentazione, malattie e tecniche di coltivazione, così nella storia d’Italia come nel nostro presente.

Emanuele Bernardi