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Roberto Vivarelli – Fascismo e storia d’Italia, – 2008

Roberto Vivarelli
Bologna, il Mulino, 296 pp., euro 22,00

Anno di pubblicazione: 2008

Con questo titolo Vivarelli ripropone una varietà di testi, ai quali si aggiungono due inediti, composti nell’arco di oltre un quindicennio. Il filo conduttore è costituito dalla «preoccupazione» di «capire che cosa il fascismo sia stato e quale posto esso occupi nella nostra storia» (p. 7). Nella prima parte l’a., sulla scorta dei suoi fondamentali studi sulle origini del fascismo e sulla crisi del liberalismo, ribadisce l’idea che non sia possibile comprendere la natura del fascismo senza allargare lo sguardo al contesto internazionale e, soprattutto, all’intera vicenda della storia postunitaria. Perciò, egli individua nel «vario nazionalismo italiano» della fine dell’800 le «radici culturali» del consenso al fascismo.Nella seconda parte, che costituisce il vero centro tematico del volume, l’intento è quello di reagire alla cosiddetta «monumentalizzazione» del biennio 1943-45, per ricollocare anche la fase della guerra civile all’interno della storia d’Italia. La posizione dell’a. è chiara: egli nega che si possa attribuire una superiore moralità dei combattenti della Resistenza per il fatto che essi si collocarono dalla parte giusta della storia. Il terreno della moralità individuale è considerato scivoloso, in quanto, una volta che si riconosca come anche il male si sia annidato dalla parte del bene, si rischia di aprire la strada a una pericolosa revisione del giudizio storico, pericolo che egli ravvisa anche in una storia vista con lo sguardo delle vittime. Se i combattenti della Rsi non furono privi di una loro «moralità», tuttavia, nel clima del dopoguerra, essi assolsero il ruolo di capri espiatori. La demonizzazione dell’esperienza della Rsi permise di separare il fascismo dalla storia d’Italia, impedendo che si compisse un approfondito esame di coscienza collettivo che avrebbe consentito un reale rinnovamento morale. Per Vivarelli le convinzioni che animarono i combattenti repubblicani furono le stesse che erano state condivise fino al luglio 1943 dalla generalità degli italiani, convinzioni che affondavano le radici in un senso comune diffuso che precedeva il fascismo e si riassumeva in un esasperato sentimento patriottico.Indubbiamente le osservazioni di Vivarelli sull’importanza dell’analisi di lungo periodo anche nello studio dei fatti culturali, sulla necessità di una memoria critica, sul carattere artificioso della dicotomia fascismo/antifascismo sono utili per evitare di adagiarsi in schemi di comodo. Tuttavia, sottovalutando il ruolo dell’ideologia fascista, ridotta a pura propaganda, l’a. si preclude la possibilità di cogliere la capacità di seduzione esercitata dai suoi miti, ricadendo in un’interpretazione del fascismo come «rivelazione» (p. 27). Ora, se è giusto tentare di comprendere l’esperienza della Rsi scandagliando, come in parte è stato fatto, le motivazioni dei combattenti (non sempre, soprattutto tra i giovani, riconducibili solo a motivi patriottici), non sembra possibile che a un simile risultato si possa pervenire estendendo al biennio ’43-45 quel processo di deideologizzazione del fascismo che, come nota Vivarelli, ha costituito il principale ostacolo a una piena comprensione del fenomeno come parte della storia nazionale.

Luca LaRovere