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Roberto Vivarelli – La fine di una stagione. Memoria 1943-1945 – 2000

Roberto Vivarelli
il Mulino, Bologna

Anno di pubblicazione: 2000

A fronte dell’ormai copiosa memorialistica di parte salotina, questa Memoria colpisce per immediatezza di sfogo autobiografico e assenza di una rielaborazione (personale, prima ancora che storica) del passato. Ne sono spia le frequenti e flagranti contraddizioni del testo. Si guardi, ad esempio, alla figura del padre, anello determinante nella trasmissione ereditaria di un’ideologia militarista: criticata duramente per l’egoismo che lo spinge ad arruolarsi volontario nel 1935 e nel 1940 “senza tenere in alcun conto né gli affetti familiari, che pure gli erano cari, né le conseguenze materiali che questa decisione avrebbe avuto sul suo e sul nostro futuro” (p. 15) e alla pagina seguente dipinta come l’esatto contrario (“si preoccupava poco di sé e molto degli altri”). Il quadro di valori “ottocentesco” ad egli attribuito predispone, nello stesso tempo, al consenso (p. 16) e all’opposizione (pp. 103-4) nei confronti del regime. Oppure si guardi ancora al tema cruciale della guerra civile: se ne individua con precisione la data d’inizio nell’assassinio di Ettore Muti a fine agosto 1943 (p. 19), ma poi si afferma ripetutamente (pp. 26 e 71) che quella con i partigiani era “una lotta imposta, non voluta e tanto meno desiderata”. Queste oscillazioni di giudizio emergono da una lunga rimozione del proprio vissuto che l’autore ammette esplicitamente (p. 95) e che sembra all’origine di una costante confusione tra storia e memoria. Da una parte, infatti, si giunge a una drastica soppressione del mestiere di storico: “la Repubblica di Salò è stata un coacervo difficile da capire per chi non l’abbia vissuta” (p. 26). Dall’altra, la riabilitazione individuale sulla base di una categoria storiografica assai dubbia come quella della “buona fede” (a chi la si può negare?) consente all’autore di pervenire a un’indistinta visione giustificatoria della realtà, che non solo cancella differenze di valori e di schieramento ma finisce per scagionare da ogni responsabilità individuale: “la guerra civile imponeva all’una come all’altra parte la rinuncia ad ogni pietà” (p. 62). La rivisitazione dei tradizionali motivi del fascismo repubblicano (la fedeltà all’alleanza con la Germania, il senso dell’onore militare, il culto superomistico dell’eroismo) viene ricondotta a un non mai precisato “quadro di valori ottocentesco”, che presiede a una rivendicazione indifferenziata e ingenuamente romantica della propria identità personale: “avevamo torto? Ancora oggi, malgrado il senno del poi, io non ne sono affatto certo” (p. 25). I due motivi che Vivarelli adduce (pp. 104-6) a sostegno di questa affermazione (la lotta alla “impostura” che qualifica gli alleati “liberatori” anche se stranieri e la superiorità nei confronti della zona grigia rimasta “alla finestra”) vengono dal cuore dei valori del fascismo (nazionalismo, eroismo) e la sua conclusione (“io feci semplicemente quello che ritenevo il mio dovere, e credo che basti”) risulta identica a quella di un Erich Priebke qualsiasi: il che, per chi conosce l’autore, è veramente sorprendente.

Giovanni Gozzini