Cerca

Ruth Ben-Ghiat – La cultura fascista – 2000

Ruth Ben-Ghiat
il Mulino, Bologna

Anno di pubblicazione: 2000

Storica di formazione e docente di storia e cultura italiana presso la New York University, l’autrice ha tentato, con un volume apparso quasi contemporaneamente in Italia e negli Stati Uniti (presso California University Press), di fornire una sintesi ed insieme una sua propria interpretazione di quale sia stata la politica culturale del fascismo. Ne risulta un lavoro impegnativo e serio che amplia quanto già l’autrice aveva pubblicato in precedenza sull’argomento. La stessa Introduzione al volume appare un autonomo saggio interpretativo che presenta con convinzione gli interessi e le idee forza dell’autrice: “La tesi che sostengo è che il fascismo attrasse molti intellettuali italiani quale nuovo modello di modernità che avrebbe risolto la crisi europea contemporanea e gli antichi problemi di integrazione nazionale” (p. 11). In sostanza, senza mai apertamente usare il concetto, adottato soprattutto dagli storici italiani di ultima generazione, di “modernizzazione conservatrice”, Ben-Ghiat mostra la forza d’attrazione esercitata sugli intellettuali da un “ambizioso progetto totalitario di rigenerazione dell’Italia e degli italiani al servizio di una visione utopica di egemonia internazionale” che facesse uscire la cultura italiana da uno stato di dipendenza da altre culture europee, ma espone anche i suoi limiti di espressione e di impatto su una società ancora ampiamente diversificata per classi e per costumi di vita e con un’industria culturale sacrificata da limiti economici, di consumo, di alfabetizzazione, di urbanizzazione. Nell’esaminare la letteratura, il teatro, l’editoria e soprattutto la cinematografia, l’autrice insiste in particolare: sull’azione di “bonifica”, di italianizzazione rigeneratrice della cultura fascista con forti ambizioni di egemonia anche culturale all’estero; sull’influenza che la Grande Guerra ebbe sulla crescita di una violenza diffusa non solo dell’atto ma anche della parola; sull’importanza di iscrivere la politica culturale nel progetto tecnocratico di pianificazione sociale elaborato dalla destra italiana di inizio secolo. Di grande interesse è inoltre la proposta di una lettura generazionale degli intellettuali italiani, con un’attenzione ai giovani che sino ad ora è stata data quasi esclusivamente ai quadri di partito o per esteso alla storia dei Guf.
Il libro ha avuto accoglienze contrastanti sulla stampa italiana, che non ha risparmiato critiche anche feroci. Ciò che io invece apprezzo e condivido è la ricerca di un equilibrio storiografico ed anche concettuale tra la scuola americana di Cultural History (che ha già prodotto diversi lavori monografici sull’argomento fascismo ad opera di M. Stone, B. Spackman, S. Falasca-Zamboni) e gli studi italiani sulla cultura nati da altra prospettiva e da altre preoccupazioni. Avrei invece voluto che Ben-Ghiat accentuasse le contraddizioni e in definitiva il fallimento della politica totalitaria culturale del fascismo, che ella d’altronde evidenzia nei profili di intellettuali aderenti per convinzione, ma anche per opportunismo, al regime.

Patrizia Dogliani