Cerca

Simona Trombetta – Punizione e carità. Carceri femminili nell’Italia dell’Ottocento – 2004

Simona Trombetta
Bologna, il Mulino, pp. 297, euro 23,00

Anno di pubblicazione: 2004

Come e quanto le rappresentazioni stereotipate della natura e dei delitti delle donne hanno influito nell’Italia dell’800 sulle dinamiche del loro internamento? Quando le carceri diventano il perno del sistema punitivo e si cominciano a organizzare prigioni femminili, queste non differiscono molto dai luoghi d’internamento d’età moderna, quali conservatori, rifugi per penitenti, case di correzione e di emenda. A causa della persistente identificazione del reato femminile con il peccato, di pertinenza più della morale che del diritto, il confine tra detenzione e internamento rimase a lungo ambiguo e il carattere rieducativo fece aggio su quello repressivo. In Italia il controllo delle detenute venne affidato alle suore delle numerose congregazioni, una delle nuove forme assunte dalla religiosità femminile, ad accentuare l’ambiguità tra pena e rieducazione di ?anime perdute?. Pionieristica l’esperienza torinese (la sua ricchezza fa rimpiangere che il libro non sia lo studio di quel caso), per impulso di Giulia Colbert, marchesa di Barolo che, nei primi decenni del XIX secolo, realizza la riforma delle carceri femminili separando gli uomini dalle donne, affidandone la custodia alle suore, educando le recluse attraverso il lavoro, l’istruzione, la preghiera. Sull’opportunità della separazione in base al genere e soprattutto sul tipo di regime carcerario (secondo i modelli di Auburn o di Philadelphia) disputavano in Europa giuristi e criminologi e, mentre essi si dividevano tra sostenitori dell’uguaglianza giuridica e della minore imputabilità femminile, si concepivano per le donne pene più brevi e più dolci e interventi più correttivi che punitivi. La maggioranza delle internate nelle carceri toscane, veneziane, napoletane, romane aveva commesso reati contro la proprietà: piccole ruberie di contadine, domestiche, filatrici, lontane dalla fanciulla perduta che l’immaginario penale intendeva redimere. Nessuno studioso si soffermava però sulla povertà come causa del crimine, semmai sulla disgregazione familiare e sulla perdita di moralità, entrambi effetti della miseria, facendo emergere ancora il vizio di fondo del sistema, d’intralcio a una vera innovazione e riforma. La descrizione della vita quotidiana nelle carceri sin dal momento dell’ammissione (identificazione, perquisizione, visita medica e isolamento per studiarne il carattere), il lavoro (filatura, tessitura, cucito, ricamo), la preghiera frequente, la scuola, il freddo, il vitto, la malinconia per la lontananza dei figli (causa di sovramortalità tra le detenute), i colloqui (ogni 2-3 mesi), la corrispondenza (osteggiata), gli affetti, le risse violente, dipingono una scena affollata dove paradossalmente più sfocate restano le suore, alla cui cruciale presenza l’autrice pur attribuisce una più facile applicazione delle linee di riforma del sistema carcerario. La cultura religiosa aveva a lungo concepito la malattia come manifestazione esteriore del peccato e condizionato diagnostica, terapie e organizzazione di ospedali, manicomi, sifilocomi, oltre che di carceri, lasciando pesanti eredità alla cultura medica e giuridica nella concezione della ?natura? femminile e nel ruolo che la famiglia ottocentesca assegnava alle donne.

Giovanna Fiume