Gli studi sul sindacalismo fascista, pur avendo raggiunto una maturità analitica e
interpretativa e una dimensione soddisfacente sul piano teorico, presentano larghe aree
inesplorate. Questi studi possono essere ricondotti, da un lato a un settore di storia del
lavoro e delle sue trasformazioni in rapporto con l’ordinamento corporativo, dall’altro
a una serie di ricerche su scala locale, che hanno privilegiato il Centro-nord del paese.
Nella ricostruzione di questo rapporto tra «centro» e «periferia» il Mezzogiorno è rimasto
assente.
Ora disponiamo dello studio di un giovane ricercatore che, colmando una lacuna,
ha analizzato, con acribia documentaria, le linee portanti dei sindacati fascisti dell’agricoltura
nell’area interregionale pugliese-lucana in un periodo che va dalla «Grande crisi»
fino all’economia di guerra, caratterizzato dalla crisi del blocco agrario e dalle migrazioni
interprovinciali di manodopera stagionale inasprite dalla chiusura degli sbocchi migratori.
La tesi dell’a. è che «fallisce l’obiettivo del regime di fare del sindacato un presidio
di stabilizzazione delle campagne» (p. 21) e che perduri un profondo scollamento tra
organizzati e strutture sindacali: all’aumento delle iscrizioni alle organizzazioni sindacali
non corrisponde una adeguata tutela degli iscritti. Davanti alla novità di un sindacato che
perseguiva un presunto interesse generale, il fronte proprietario si sarebbe distinto, infatti,
per la sistematica azione di sabotaggio portata alle nuove strutture del collocamento
pubblico, in questo favorito dai rapporti di forza vigenti in provincia, dove molto spesso,
le cariche di podestà e di segretari politici del Partito fascista sono detenute dai datori
di lavoro. L’a., in questo modo, sottolinea l’inconciliabilità tra il liberismo antistatalista
della proprietà e i tentativi delle strutture sindacali d’imbrigliare amministrativamente
la questione cruciale del mercato del lavoro, punto dolente dell’organizzazione sindacale
sin dall’età giolittiana. Sono presenti sullo sfondo dello studio la «sbracciantizzazione»,
la colonizzazione interna e il mito del ruralismo che evidenziano la debole penetrazione
della «modernizzazione autoritaria» nelle province rurali del Sud.
Il governo di queste contraddizioni – scrive Luigi Masella nell’Introduzione – «obbligherà
il regime a intervenire con strumenti di politiche sociali» (p. 10). Il volume ricostruisce,
così, meritoriamente nella parte finale come il sindacalismo fascista, di fronte alla
emergenza bellica, sposti il suo orizzonte strategico dai rapporti di lavoro a un intervento
esteso in materia di politiche sociali e legislazione del lavoro, prefigurando una dimensione
destinata a durare dopo la fine del fascismo anche nell’Italia repubblicana.