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Storia dell’Italia mafiosa. Perché le mafie hanno avuto successo

Isaia Sales
Soveria Mannelli, Rubbettino, 444 pp., € 19,50

Anno di pubblicazione: 2015

Il volume, così come ormai avviene non di rado negli studi più recenti, ha il merito
di proporre una storia unitaria delle tre maggiori organizzazioni criminali sviluppatesi nel
Mezzogiorno d’Italia (mafia, ndrangheta e camorra) a partire da un determinato periodo
storico (la prima metà dell’800) e poi diffusesi su scala internazionale. L’a., con apprezzabile
precisione e chiarezza, spiega al lettore sin dalle prime pagine il proprio punto di
vista, escludendo qualunque interpretazione dello sviluppo storico delle mafie centrata
sull’arretratezza economica dei contesti territoriali entro cui hanno avuto origine, sulla
mentalità delle popolazioni meridionali (e in particolare sull’abitudine di queste a utilizzare
comportamenti di tipo omertoso), o sul loro scarso senso civico (la tesi del «familismo
amorale»).
La «modernità» delle mafie, egli sostiene opportunamente, si fonda su alcuni caratteri
originari che si strutturano nel corso degli anni in funzione del debole processo
di consolidamento del nuovo apparato istituzionale dello Stato unitario italiano e dello
sviluppo del suo ceto politico. L’intento più generale dell’a., che è quello di sottrarre
l’interpretazione delle mafie al paradigma «culturalista», è ben sorretto dal vaglio dei numerosi
studi e dei materiali documentari a cui rinvia il volume, sebbene gli scritti che ne
vengono individuati a fondamento (Pitrè, Banfield), avrebbero avuto bisogno di essere
spiegati al lettore attraverso un inquadramento più preciso nei rispettivi contesti culturali
di riferimento, cioè negli anni in cui hanno avuto origine. Utile sarebbe pure risultata
una descrizione più ampia e approfondita dell’uso, molte volte improprio, che di tali
scritti successivamente ha fatto una parte della letteratura scientifica e, soprattutto, di
tipo divulgativo.
Molto efficaci sono le pagine dedicate ai rapporti tra mafie ed economia, dove l’a.
descrive quella mafiosa come un’economia parassitaria che serve a «far circolare ricchezza
(e dunque crea consenso) ma appartiene sino in fondo all’economia speculativa» (p. 323),
così come le pagine dedicate alla descrizione di alcuni dei settori più o meno tradizionali
dell’economia mafiosa (il traffico degli stupefacenti, il contrabbando delle sigarette, ma
anche il mercato dei rifiuti tossici).
Se, dunque, in definitiva, l’uso della violenza nelle relazioni tra privati, le collusioni
con i pubblici poteri (funzionari e burocrazia) e i rapporti con una parte del ceto politico,
rappresentano i tratti distintivi delle mafie e le distinguono dalla criminalità comune, la
loro storia, come conclude l’a., va colta all’interno di quella italiana in quanto parte «degli
eventi e delle scelte di politica nazionale» (p. 408). Vi è però in tale procedimento sempre
il rischio da evitare, e che di certo l’a. evita, di indulgere troppo nelle tesi «giustificazioniste
», che finiscono cioè con il rappresentare il Mezzogiorno come «vittima» del lungo
processo di integrazione nello Stato nazionale.

 Luigi Chiara