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Un confine nel Mediterraneo. L’Adriatico orientale tra Italia e Slavia (1300-1900)

Egidio Ivetic
Roma, Viella, 328 pp., € 29,00

Anno di pubblicazione: 2014

Da tempo l’a. si occupa dell’area dove si sono intrecciate, sovrapposte, separate e
combattute culture romanze, slave e albanesi. Nell’epoca della globalizzazione che tende
ad annullare le differenze e a sottolineare lo scambio, ma che è altresì accompagnata dalle
contrapposizioni di gruppi fondati sul concetto di nazione, Ivetic ricorda l’esistenza di
faglie di distinzione tra le comunità umane che hanno origini più lontane nel tempo e
che si sono create su base linguistica, religiosa, amministrativa, militare, culturale. Lo fa
in sintonia con l’interesse crescente della storiografia internazionale al tema del confine ripercorrendo
la storia dal Medioevo al XX secolo della regione adriatica orientale, distinta
tra Istria e Dalmazia: quella si poneva il limes estremo dello spazio linguistico e culturale
italiano a oriente (p. 227), e proprio per questo là era anche la zona dove si sviluppò una
«Slavia adriatica», frutto di una simbiosi culturale slavo-italiana e non semplice appendice
della comunità croata (p. 84).
L’a. ha ben presente come «a misurare le situazioni locali nell’Adriatico orientale…
emerge la costante del confine tra contesti linguistici diversi» (p. 85), ma non è solo il confine
linguistico a contare poiché in Istria «è chiaro che l’imposizione delle varie frontiere
politiche attraverso i secoli fu esiziale… per la definizione e autodefinizione dell’ethnos…
in virtù del confronto con il confine/frontiera altro» (p. 92); e nella Dalmazia veneta, fatta
di piccole patrie comunali, determinate è stato il confronto con il Turco, sicché per lungo
tempo il bilinguismo urbano imperante «non era un problema, era un fatto scontato. Il
problema centrale della vita in ogni città della Dalmazia, della stessa Dalmazia veneta era
il limes, era l’essere frontiera» (pp. 140-143).
La diversità di lingue, quella tra ambiente urbano e rurale, tra appartenenze religiose
o tra antiche e più recenti immigrazioni di popoli slavi o slavizzati (i morlacchi)
sono rielaborate o passano in secondo piano con la fine dell’ançien régime e l’avvento
del nazionalismo. Dopo il 1848 a un Risorgimento italiano urbano e borghese si andò
contrapponendo in Istria un Risorgimento sloveno e croato aperto alla dimensione rurale
e in Dalmazia «l’esclusivismo in chiave nazionale impose una scelta di schieramento, una
scelta di identificazione per ciascuna famiglia dei ceti dirigenti dalmati» (p. 230), ponendo
così fine dopo il 1860 a una realtà slava e italiana allo stesso tempo.
L’a. ritiene che l’essere l’Adriatico ormai un’area comune dovrebbe spingere sia la
storiografia croata che quella italiana a non rimanere prigioniere di un’interpretazione in
chiave nazionalista, ma a riconoscere come nel passato essa fosse «inclusiva dei rispettivi e
reciproci limites» (p. 264). Aggiungerei che l’area fu anche il limes della cultura germanica
e ben prima dello sviluppo di Trieste, se consideriamo i tentativi di penetrazione della
Riforma protestante in Istria, la collaborazione tra Pietro Paolo Vergerio e lo sloveno
Trubar nella stampa di opere religiose in lingua «slava», l’arrivo in Germania da Albona
di Flacio Illirico.

Armando Pitassio