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Una colonia italiana. Incontri, memorie e rappresentazioni tra Italia e Libia

Barbara Spadaro
Firenze, Le Monnier, 190 pp., € 16,00

Anno di pubblicazione: 2013

Dall’inizio degli anni ’80 i subaltern studies hanno rivolto l’attenzione ai gruppi subalterni e marginali inseguendo tracce sparse per ricostruirne vissuti, strategie e agency. In questo quadro storiografico lo studio delle élite potrebbe apparire démodé. È invece con un approccio tutt’altro che vecchio stampo, anzi in proficuo dialogo con i recenti sviluppi degli studi postcoloniali, culturali e di genere, che l’a. indaga l’esperienza delle élite italiane in Libia.
Alla ricerca di prestigio, borghesia e ceti medi urbani della colonia elaborarono autorappresentazioni edificanti, delineando modelli di «bianchezza» ispirati agli standard europei e al mito di Roma imperiale. Dal diario di Emilia Rosmini de Sanctis, partecipe di una missione archeologica in Cirenaica nel 1910, alla stampa coloniale dei tardi anni ’30, l’a. osserva, attraverso un ampio repertorio di scritti e immagini, il «farsi» della civiltà italiana tra Quarta sponda e metropoli dagli esordi dell’impresa coloniale in età liberale all’apogeo del fascismo. L’avventura d’oltremare permise di sperimentare la superiorità italiana mostrando spazi da addomesticare e popoli da civilizzare. Agli occhi degli italiani la dominazione ottomana non aveva intaccato l’inerzia e lo stato adamitico dei nativi. Nei ritratti della popolazione locale appariva la varietà del panorama antropico, ma non quegli sguardi sconvolgenti e rivelatori di una situazione storica descritti da Jacques Berque. La violenza coloniale era espunta dal quadro, e la raffigurazione risultava dunque rassicurante. L’obiettivo della macchina fotografica si rivolgeva a uomini e donne dell’élite intenti ad assolvere compiti pedagogici o testimoniare le loro qualità, ma in questa serie di «autoritratti» i libici scomparivano quasi dalla scena.
La levatura dell’élite si misurava anche nel confronto con il proletariato italiano, più esposto alle contaminazioni, e con i funzionari fascisti, che introdussero varianti valoriali e comportamentali concorrenti. L’ordine sociale delineato incorporava dunque le gerarchie di classe, così come quelle di genere, ribadendo la complementarietà dei ruoli. Il prestigio italiano era messo in scena non soltanto esaltando i traguardi dell’industria turistica ma anche attraverso la materialità dei corpi, soprattutto femminili, e le pratiche quotidiane: aspetti apparentemente secondari – l’alimentazione e l’igiene, i costumi matrimoniali e sessuali, lo stile impeccabile delle signore italiane, l’arditezza delle pioniere o l’attivismo delle benefattrici – veicolavano contenuti essenziali del discorso nazionalista e razzista.
Album di famiglia e interviste, proposti nell’ultimo capitolo, consentono di scorgere continuità o «resistenze» culturali. I modelli di genere, i topoi del turismo, l’esaltazione dei corpi, il desiderio di «bianchezza», i coloni italiani «brava gente», sono ancora eredità ingombranti o prisons de longue durée per riprendere la suggestiva espressione di Fernand Braudel.
Non corredato da una conclusione, il libro è presentato come un insieme di cantieri di ricerca in corso che si prestano, in prosieguo, a sviluppare questi e altri spunti emersi.

Daniela Melfa