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Victor Sebestyen – Budapest 1956. La prima rivolta contro l’impero sovietico – 2006

Victor Sebestyen
Milano, Rizzoli, 364 pp., euro 22,00 (ed. or. London, 2006)

Anno di pubblicazione: 2006

L’autore non è uno storico di professione ma un affermato giornalista britannico «cresciuto con la storia della rivoluzione» (p. 13) fin da quando, bambino, aveva lasciato con la famiglia l’Ungheria dopo la rivoluzione del 1956. Il libro è quindi anche un modo di fare i conti con una storia familiare, ma ciò non toglie che sia uno dei contributi più importanti apparsi a livello internazionale per il 50° del 1956, costruito su una ricca e aggiornata documentazione sia per gli avvenimenti ungheresi che per il loro contesto mondiale. Dopo un ampio «preludio» sull’Ungheria dalla fine della seconda guerra mondiale all’ottobre 1956, i «dodici giorni» del più significativo titolo originale (Twelve Days: Revolution 1956. How the Hungarians Tried to Topple Their Soviet Masters) sono raccontati attraverso un efficace montaggio di scene in contemporanea a Budapest, Mosca, Washington, New York: è un’indicazione di come l’analisi degli sviluppi ungheresi non possa prescindere dal contesto internazionale e dal ruolo delle due grandi potenze mondiali, anche se dalla ricostruzione esce confermata una differenza sostanziale tra il forte coinvolgimento della leadership sovietica, riunita quasi quotidianamente sulla questione, e l’interesse più indiretto di quella americana, concentrata negli stessi giorni prima di tutto sulla crisi di Suez. Le fonti utilizzate vanno dalla letteratura storiografica e memorialistica alle interviste conservate in diversi archivi o condotte dall’autore, ai documenti degli archivi dei paesi interessati, resi accessibili dagli anni ’90 del ‘900 e parzialmente pubblicati in riviste e raccolte documentarie. Le testimonianze raccolte da Sebestyen contribuiscono a schizzare quello che un altro autore (G. Dalos, Ungheria, 1956, Roma, Donzelli, 2006) ha indicato come un «ritratto collettivo» dei protagonisti: un obiettivo importante e difficile, tenendo presenti i caratteri spontanei, improvvisati, imprevedibili dei comportamenti di massa di quei giorni, la loro «totale confusione», il lungo silenzio che avrebbe avvolto i partecipanti rimasti in patria. La denuncia delle ambiguità della politica americana sull’Ungheria, e dell’isolamento in cui sarebbe stato lasciato il paese dopo gli incitamenti alla rivolta diffusi soprattutto dalle trasmissioni di Radio Free Europe, sembrano più l’effetto di una identificazione dell’autore con gli stati d’animo di molti ungheresi che di un’analisi delle alternative esistenti, un’analisi oggi pienamente praticabile ma già allora anticipata da uno studioso del livello di Raymond Aron: la priorità della questione di Suez nella politica estera americana e il principio ormai acquisito di una coesistenza «obbligata», che rendeva solo propagandistico l’obiettivo della «liberazione » dell’Europa dell’Est, implicavano la passività dell’Occidente nella fase decisiva della crisi. Un esito che comunque non toglie nulla alla quantità di questioni aperte e alla varietà di possibili risposte che il 1956 ancora rivelava in tutto il cosiddetto campo socialista.

Andrea Panaccione