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La Francia in Italia: una lunga storia

Appunti per una discussione su come l’Italia ha visto la Francia in età contemporanea.Il Mondo visto dall’Italia
[versione provvisoria, da non citare senza autorizzazione]
Paolo Viola
Convegno della Sissco

Milano, Università cattolica, 19-21 settembre 2002

Propongo di distinguere tre epoche, divise da due date significative: il culminare del Risorgimento, nel 1859, con l’intervento francese a fianco del Piemonte nella seconda guerra d’Indipendenza, seguito dal ritiro dell’armistizio di Villafranca; e l’ingresso italiano nella Prima guerra mondiale a fianco dell’Intesa, nel 1915: il risorgimento, l’Italia liberale, l’Italia fascista/antifascista.
Questa proposta mette l’accento su due grandi temi: la rivoluzione e la nazionalità. Un terzo tema è connesso: la libertà. L’Italia deve fare la sua rivoluzione per costruirsi e consolidarsi come comunità nazionale libera. Anche dunque per la propria libertà, oltre che per la sua identità di nazione. Qui si apre però un’ambiguità fra la libertà del sistema politico, cioè la libertà garantita ad ogni cittadino, e la libertà di iniziativa del suo governo nel consesso internazionale. La Francia indica un (il) modello da seguire, che forse però contrasta o perfino combatte le esigenze del popolo italiano, la libertà del popolo italiano e del suo governo.
Naturalmente potrebbero essere scelti parecchi altri punti di vista per presentare il modo con cui l’Italia guarda alla Francia: il giacobinismo cospirativo, il tradizionalismo cattolico, lo statalismo unitario e antifederale, il sansimonismo tecnocratico, il bonapartismo, il sindacalismo rivoluzionario, forse perfino il fascismo (Sternhell). Quello che propongo mi sembra però un approccio più generalista e più sostanzialista, che va più a fondo di aspetti molto intimi e insieme costanti dell’identità italiana, dal Triennio giacobino al fascismo e all’antifascismo: aspetti che toccano un punto estremamente delicato, quello della “rivoluzione nazionale”, in cui il rapporto con la Francia mi sembra centrale. La Francia è il partner a cui gli italiani guardano con più attenzione: con speranza, con rancore, con paura; quando devono imboccare o consolidare la via rivoluzionaria per la costruzione della nazione, possibilmente nella libertà (ma quale libertà?). Quando pensano di dover accelerare i tempi per ripristinare la propria identità. Con speranza, perché la Francia è il modello. Con rancore o perfino paura perché il nazionalismo italiano viene frustrato o addirittura schiacciato.
Prima fase: dal Triennio al Risorgimento, o dell’amore-odio.
Questa fase nasce da un’enorme speranza e da un’altrettanto grande e precoce frustrazione, fra il 1796 e il ’97: dall’invasione liberatoria all’abbandono di Campoformio. Il copione si ripete quasi identico sessant’anni dopo, nel 1859, con l’alleanza fra Cavour e Napoleone III e l’abbandono di Villafranca. Nel 1796, i francesi portano la libertà: dopo tre secoli finalmente la libertà! Fanno sognare l’unità della Patria. Poi tradiscono, accordandosi con gli austriaci e vendendo Venezia. E in questa altalena di promessa e tradimento vanno avanti per un ventennio, fino alla fucilazione di Murat a Pizzo Calabro. E anche oltre, col mancato intervento a sostegno dei moti del 1831, con la difesa del Papa nel 1849. Non diversamente dagli altri popoli europei, gli italiani sono stati indotti a sperare che il messaggio francese di libertà uguaglianza e fraternità portasse liberazione e rivoluzione, e unità della patria, ma sono stati anche sempre immediatamente costretti a constatare che invece la dominazione francese portava oppressione e gerarchia. Al massimo efficienza amministrativa e razionalità legislativa: eventualmente riforme, in linea con la monarchia amministrativa, non rivoluzione.
Questa profonda ambivalenza esplode prestissimo, ad esempio nella dichiarazione di odio antifrancese del Misogallo, terminato poco dopo Campoformio: un odio invocato come risorsa identitaria per la definizione della Patria italiana, “parte anzi preziosissima del paterno retaggio”, perché i popoli si riconoscono e si definiscono in quanto odiano. “O Italia, l’odio contro i francesi (…) diviene la base fondamentale ed unica della tua, qual ch’ella sia, politica esistenza”. L’odio di Alfieri non è motivato dall’offesa arrecata dalla rivoluzione all’ordine divino, come per la stragrande maggioranza dei pubblicisti controrivoluzionari, di parte clericale e tradizionalista, ma per la falsità della loro libertà, da “istrioni (…) misti allo schiavo e al carnefice”: “il regno de’cenci”. “Schiavi in Gallia, e tiranni, altro non veggio”. Un tale odio viscerale, che fa seguito all’attenzione prestata alla Parigi “sbastigliata”, si manifesta in un paradossale miscuglio di paura e disprezzo. “mostruoso e incredibile accozzamento: paura e dispregio; eppur vero, e da tutti i presenti Italiani palpabile” (Misogallo, in Opere a cura di F. Maggini, Rizzoli, Milano, 1940, I., 723, 24, 25, 31, 40). Naturalmente Alfieri ha posizioni radicalmente diverse da quelle di Foscolo o dei giacobini di una generazione più giovani di lui. La sua delusione non è direttamente indotta da Campoformio, perché già da tempo ha rotto con la rivoluzione francese, da posizioni complessivamente reazionarie. L’odio di Alfieri per la Francia è dunque certamente “di destra”. Ma mi interessa notare che il suo è un rancore forse reazionario, ma che non parte certo da posizioni cattoliche tradizionaliste, bensì dall’amore per la libertà, e che solo il tradimento della speranza di libertà può giustificare la visceralità dell’odio.
Se l’episodio fondatore dell’ambivalenza è Campoformio, l’esperienza più intensamente drammatica è naturalmente quella della repubblica partenopea, dove l’aspetto più interessante è che cominciano a confondersi destra e sinistra e che inizia una critica antifrancese “di sinistra”. Da allora in poi ci saranno simpatie o antipatie per la Francia a destra e a sinistra. A Napoli la Francia è non solo il modello, ma la potenza amica/ostile occupante, che rende possibile una presunta rivoluzione democratica, reprimendo però quella popolare. Per la prima volta, non è più chiaro che da destra si parli male della Francia e da sinistra bene, per la buona ragione che non è strutturalmente chiaro da che parte, se della rivoluzione o della controrivoluzione, stia la plebe dei lazzari. Infatti a Napoli, al contrario che a Parigi, la maggioranza dei nobili sta coi giacobini (e i francesi), la maggioranza dei popolani sta invece contro, ma non col re, né con la corte, che hanno tradito e sono fuggiti: una rivoluzione da una parte, ma anche una diversa rivoluzione dalla parte opposta.
Il testo fondamentale di questa ambivalenza è ovviamente quello di Cuoco (di cui ora l’edizione curata da De Francesco, Lacaita, 1998). In Cuoco la critica alla rivoluzione non è da destra: nessuna nostalgia per l’antico regime, nessuna difesa del tradizionalismo, neppure, come in Alfieri, una denigrazione complessiva del modello rivoluzionario francese. Il centro della riflessione è invece nell’incompatibilità fra rivoluzione e conquista militare con imposizione del modello straniero. La “rivoluzione passiva” del Cuoco è una contraddizione in termini: una rivoluzione nazionale che non parte dalla nazione. E’ significativo lo spostamento di significato che la rivoluzione passiva ha avuto da Cuoco a Gramsci, come rivoluzione sociale incompiuta: è frutto di un complessivo spostamento di senso della parola “rivoluzione” dall’Ottocento al Novecento, che da nazionale e liberale diventa internazionalista e sociale. Per tutto il Risorgimento, la “rivoluzione” è stata invece nazionale, costitutiva della libertà di un popolo in rapporto agli altri popoli; ed è fallita, incompiuta, passiva, se non parte dalla comunità nazionale e se non produce la libertà e l’indipendenza della nazione.
Ovviamente Mazzini è al centro di questa critica della rivoluzione francese dei cittadini, a cui chiede di sostituire la rivoluzione nazionale dei popoli. Nei primi anni Trenta, Mazzini presenta il suo pensiero sull’argomento in forma matura, presumibilmente contro Sismondi. Un testo di Mazzini sulla rivoluzione napoletana del 1799 è stato trovato e presentato di recente (Lauro Rossi, Mazzini e la rivoluzione napoletana del 1799, Lacaita, 1995). Il pensiero di Cuoco è portato alle sue ultime conseguenze: i lazzari napoletani hanno espresso una genuina rivoluzione nazionale, che i giacobini napoletani non hanno saputo dirigere, per paura e timidezza: lo stesso errore che avevano fatto i girondini in Francia. Il cardinale Ruffo invece ha preso in mano la genuina rivoluzione nazionale e l’ha trascinata nel campo della controrivoluzione. “I patrioti non hanno finora mai compreso la potenza del popolo. Questa è la chiave delle nostre disgrazie. Essi hanno cercato il punto d’appoggio per la rivoluzione. Lo cercavano nei francesi (…) Cospiravano mentre il popolo voleva agire. E’ questo ciò che il popolo vuole tutte le volte che la parola rivoluzione gli ha sussurrato che la sua ora è venuta. L’azione è il Dio del popolo in rivoluzione” (Lauro Rossi, p. 155). Le parole di Mazzini anticipano il ’49, e più ancora il ’59. I moderati cospirano coi francesi, mentre il popolo vuole agire. Ma i francesi tradiscono. Schiacciano il popolo romano nel ’49, abbandonano l’Italia nel ’59. Ripetono sotto altre forme quello che hanno fatto nel 1797 a Campoformio, e nel 1799 a Napoli: schiacciano la nazione italiana e l’abbandonano.
Seconda fase. Dal risorgimento alla guerra mondiale. L’odio
Per significativa avventura, l’unificazione dell’Italia si compie dopo l’abbandono e addirittura il presunto tradimento francese, contro il volere di Napoleone III, che riesce almeno ad impedire la conquista di Roma, e invece con la benevolenza inglese. Poco più tardi con l’alleanza prussiana. In particolare la Francia è contraria all’avventura garibaldina, cioè a quella parte del processo unitario che tutti chiamano “la rivoluzione”. Il movimento garibaldino non è ancora complessivamente antifrancese, ma certamente riconosce nel governo imperiale il suo massimo avversario. L’Aspromonte e Mentana daranno un impulso decisivo al distacco fra la sinistra italiana e i cugini d’oltralpe.
Alla fine di tutta l’avventura risorgimentale, se una rivoluzione si è fatta in Italia, la si è fatta contro i francesi, il che entra come nel patrimonio genetico della sinistra garibaldina. L’unità d’Italia è stata condotta a termine in alleanza coi prussiani e grazie alla debolezza, poi alla sconfitta della Francia. Inoltre la caduta di Napoleone III non cambia la sostanza delle cose, a dimostrazione che non è questo o quel regime francese ad opporsi alla nazionalità e alla libertà dell’Italia, ma il suo intero sistema politico: anche quello della Terza repubblica, che rivendica l’eredità rivoluzionaria. La pessima accoglienza fatta dal comando francese a Garibaldi nel 1870, che pure offre la sua spada come ringraziamento per il 1859, malgrado l’armistizio di Villafranca e tutto quanto è seguito, fino a Mentana; l’accoglienza altrettanto cattiva fatta dal parlamento di Bordeaux al Garibaldi deputato eletto da quattro dipartimenti francesi, perché straniero, in barba ai deputati stranieri che avevano onorato la Convenzione, costituisce una rottura simbolica di grande rilevanza. “Tutti sanno com’io fui ricevuto dalla maggioranza dei deputati all’assemblea, e certo di nulla più potere per lo sventurato paese ch’ero venuto a servire nella sciagura, mi decisi di recarmi a Marsiglia, e di là a Caprera. L’esercito dei Vosges, composto di elementi troppo repubblicani, dovea naturalmente godere dell’antipatia del governo di Thiers e fu sciolto” (Garibaldi, Memorie, Rizzoli 1998, p.363). L’icona della rivoluzione italiana è stata cacciata via dalla Francia liberata dal bonapartismo e tornata all’egemonia liberale erede della rivoluzione francese.
Tutta la sinistra degli anni Settanta e Ottanta è antifrancese: una sinistra nazionalista, che si colloca naturalmente in prosecuzione con la rivoluzione nazionale. L’ostilità aumenta con lo “schiaffo di Tunisi”, come se non solo la Francia si opponesse all’espansione dello spazio vitale degli italiani, ma se, collocata a due passi dalle coste siciliane, soffiasse sul fuoco dei conflitti sociali per dividere di nuovo l’Italia, farle perdere il sacro risultato dell’unità della patria. L’occupazione francese della Tunisia è del 1881. Dieci anni dopo la costruzione del socialismo italiano subisce una fortissima accelerazione. E intanto presidente del consiglio è il massimo esponente della rivoluzione nazionalista garibaldina. In Sicilia e altrove sembra che i tempi della rivoluzione sociale si accelerino. O meglio: la rivoluzione sta cambiando di senso, da nazionale sta diventando sociale, da incompiuta e passiva perché importata, sta diventando eventualmente incompiuta e passiva se non saprà essere radicale e capace di coinvolgere i ceti subalterni. O piuttosto ancora: ai rivoluzionari “vecchi”, garibaldini nazionalisti si contrappongono i rivoluzionari “giovani” socialisti e anarchici internazionalisti. Nessuno esprime meglio questo salto generazionale, insieme alla visceralità antifrancese della rivoluzione nazionalista di Pirandello: “Che pretendono? Dobbiamo tutti ubbidire, dal primo all’ultimo, tutti, e ognuno stare al suo posto, e guardare alla comunità! Perché questi pezzi di galera, figli di cane ingrati e sconoscenti, debbono guastare a noi vecchi la soddisfazione di vedere questa comunità, l’Italia, divenuta per opera nostra quella che è? Che ne sanno, di che cos’era prima l’Italia? Hanno trovato la tavola apparecchiata, la pappa scodellata, e ora ci sputano sopra, capite? Intanto guardate: Tunisi è là! (…) E ci sono i francesi là, che ce l’hanno presa a tradimento! E domani possiamo averli qua, in casa nostra, capite? Vi giuro che non ci dormo, certe notti, e mi mordo le mani dalla rabbia! E invece di impensierirsi di questo, quei mascalzoni là pensano a fare scioperi, ad azzuffarsi fra loro! Tutta opera dei preti, sapete? (…) Soffiano nel fuoco, sotto sotto, per smembrare di nuovo l’Italia, i Sanfedisti” (I vecchi e i giovani, Oscar Mondatori, 1992, p. 140-41)
Terza fase. Il fascismo e l’antifascismo. Più amore che odio.
L’ingresso in guerra dell’Italia a fianco delle forze dell’Intesa costituisce una svolta culturale e psicologica, oltre che politica, di grande rilievo. Da questo momento, malgrado la vittoria mutilata e i presunti soprusi del 1919, la cui responsabilità sarà comunque piuttosto addossata, dalla maggioranza delle forze politiche, all’Inghilterra, i francesi godono complessivamente di opinione favorevole.
Da parte antifascista si tratta di un vero e proprio grande amore, che chiude gli occhi sul cesarismo, sul clericalismo, sul massacro della Comune, su quell’inimicizia per il risorgimento italiano, che invece aveva formato la generazione garibaldina e crispina, sull’antisemitismo, sulla crisi politica del ‘34. I fuoriusciti italiani si sentono accolti dal paese che difende la democrazia, dopo averla inventata con l’Illuminismo, insegnata al mondo con la Rivoluzione, esportata con l’esercito napoleonico; nel paese del fronte popolare che si schiera (?) con la democrazia spagnola. Si forma fra le due guerre, alla scuola del giovanissimo Franco Venturi, il modulo interpretativo canonico con cui l’Italia antifascista ha interpretato i propri rapporti con la Francia: l’Europa è debitrice alla Francia dell’Illuminismo, che ha rifondato il rapporto fra “filosofia e politica” (per riprendere il titolo del libro di Diaz). La rivoluzione francese è figlia dell’Illuminismo e creatrice dunque, nella pratica di governo, della libertà e della democrazia, che al riformismo settecentesco era mancato il tempo o la capacità di fondare. Lo stesso giacobinismo è parte della storia della democrazia, se non della libertà. A sua volta la libertà è stata portata in Italia dall’esercito di Bonaparte, il cui frutto è il Triennio, matrice del Risorgimento.
Più interessante è l’attenzione di parte fascista per la Francia: Sorel, il sindacalismo rivoluzionario, le radici francesi dell’ideologia fascista, che Sternhell ha studiato, e che non è mia intenzione qui di ripercorrere.
Vorrei invece segnalare qui l’interesse, il giudizio positivo di uno studioso fascista (allora), Giuseppe Maranini, per rivoluzione francese, e addirittura per il robespierrismo. Merito di Robespierre è di avere fondato il “nuovo regime”, dopo il crollo del “vecchio regime” e la rivoluzione. Se i girondini avessero prevalso nel 1793, col loro liberalismo debole e che scontentava i ceti popolari, la rivoluzione sarebbe stata spazzata via, mentre il robespierrismo ha consolidato la rivoluzione in maniera così radicale, che la sua caduta non ha più consentito il ritorno puro e semplice all’antico regime. Si notino le consonanze col pensiero di Mathiez, ampiamente citato in bibliografia, come anche Aulard e Lefebvre. Nella prefazione all’edizione del 1952, sul merito di aver fondato un regime si sfuma ovviamente il giudizio, ma la colpa, invece, del regime, con quanto di insopportabile comporta, viene fatta comunque ricadere sul fallimento del sistema politico precedente. Un regime è “organizzazione di un sistema stabile di interessi” (Maranini, Classe e stato nella rivoluzione francese, ed. 1935, p. 341). Nella prefazione del ’52 si introduce il termine “dittatura”: una soluzione a cui si ricorre per forza maggiore, per evitare la dissoluzione del sistema politico, cioè la morte: “la responsabilità delle dittature (…) va ricercata in coloro che hanno imprudentemente distrutti i tessuti giuridici” (ed. 1952, p. vii).
C’è dunque un interesse fascista per il modello francese di prevalenza del governo sul potere legislativo: un interesse che riprende la tradizione bonapartista di analisi degli avvenimenti rivoluzionari, e che ricorda il contemporaneo approccio neogiacobino del comunismo francese, diverso da quello sovietico più marxista ortodosso. La Francia potrebbe avere insegnato, non tanto i valori rivoluzionari (come per i democratici antifascisti), quanto le tecniche di governo per metterli in salvo, per riorganizzare dopo il collasso “un sistema stabile di interessi”. Nel pensiero (fascista?) di Maranini la libertà inglese, a cui l’Italia non può guardare più di tanto, per diversità di tradizione politica, è nel sistema di contrappesi, mentre il modello francese è quello del regime, il “sistema stabile di interessi”, che nei casi più drammatici diventa dittatura, da imputare a chi ha provocato il fallimento del precedente sistema politico, e che evita almeno la disgregazione e la morte.
I fascisti e gli antifascisti potrebbero dunque aver guardato alla Francia, nel Novecento, vedendo due paesi diversi, e vedendo gli uni e gli altri un modello positivo, benché diverso, il modello di quello che gli uni e gli altri speravano per il proprio paese: la libertà e la tolleranza gli uni, l’energia del governo gli altri, una Francia più inglese i primi, una più prussiana i secondi. E forse così sono maturate e si sono risolte le ambivalenze del modello francese per la storia dell’Italia contemporanea, e si è sciolto il difficile nodo che l’amore-odio provocato dal trauma di Campoformio e di Napoli aveva aggrovigliato nella coscienza degli italiani.