Cerca

A che serve la valutazione degli scritti di storia?

di Massimo Mastrogregori

Vorrei limitarmi ad offrirvi alcune osservazioni di carattere generale ed alcuni dati su questo problema cruciale della valutazione, che sarebbe un errore affrontare come un problema tecnico, ignorandone l’altissima posta in gioco di natura politica. La valutazione di cui parliamo, che sia in atto o solo progettata, può avere conseguenze determinanti: si tratta di finanziamenti, posti, e quindi di pressioni, di condizionamenti, di peso del passato, di strutture di potere esistenti.
Cercherò quindi, per quel che posso, di non offrire un contributo “in assenza di gravità”. La questione ha aspetti tecnici, ma come si vedrà la dimensione politica è sempre presupposta.
Per cominciare, alcuni principi volutamente elementari e forse anche troppo ovvi: l’opera di storia pensata che si tratterebbe di valutare deriva dallo studio di tradizioni, si tratti di tradizioni di ricordi, oppure di tradizioni di interpretazioni, giudizi, o delle due cose insieme. Nella pratica c’è quindi il momento dello studio e il momento dell’esposizione dei risultati, l’apòdexis historìes di Erodoto padre della storia.
Ora, tale esposizione può anche non essere scritta, e concretizzarsi in lezioni, conferenze, conversazioni, seminari, convegni; oppure in immagini, esposizioni, mostre, oppure in saggi elettronici come quello famoso di Robert Darnton sul sito dell’”American Historical Review”.
In un altro caso, la “esposizione” può essere scritta, ma non “leggibile” in forma di racconto o di saggio, ma in quella di catalogo, di gruppi di schede, o di archivio personale.
La valutazione di queste altre forme, non narrative o saggistiche, di esposizione “scritta” del risultato della ricerca pone problemi immensi. Alcune forme non scritte sono performances non facilmente riproducibili e in effetti non riprodotte: pensate ad una serie di lezioni particolarmente riuscita (come quelle, mai pubblicate, di Antonio Labriola sulla Rivoluzione francese).
Qui però ci occupiamo degli scritti di storia: e quindi distingueremo almeno tra quelli in cui sono provvisoriamente anticipati risultati (forme occasionali di intervento: le note, le discussioni, le prefazioni e le introduzioni, che contengono talora osservazioni di carattere assai generale) e quelli che presentano effettivamente i risultati dello scavo della tradizione, siano essi articoli di rivista, libri, saggi di volumi collettivi.
Ora, c’è un rapporto decisivo tra lo studio delle tradizioni, i materiali scritti intermedi in cui le osservazioni dello studio sono “fermate”, la forma dell’esposizione dei risultati: la ricerca tende, in un certo senso, a divenire esposizione. I materiali scritti di appoggio, le schede, gli appunti, le bozze di esposizione sono normalmente solo un mezzo in vista di un fine, che si persegue: raccontare la storia, farla vedere, farla comprendere.
Questo “rapporto tra momenti distinti” implica però anche un’altra cosa: che può esserci studio di tradizioni ma non esposizione, o che l’esposizione può essere pubblicata con grande ritardo rispetto al periodo in cui avviene la ricerca: l’esempio celebre è quello del Mediterraneo di Braudel, preparato per vent’anni fino all’estate 1939 in cui inizia la stesura, proseguita senza note di appoggio in campo di concentramento durante la guerra, infine pubblicato nel 1949.
In questo caso, come in mille altri, sarebbe stato possibile che il “laboratorio”, il frutto materiale della ventennale ricerca restasse tale, senza farsi mai testo, scritto pubblicato: l’opera sarebbe rimasta nella mente dell’autore (ma, per inciso, non avrebbe fatto un errore chi avesse negato a Braudel un posto accademico perché “non aveva pubblicato niente”?).
Di questa implicazione, del fatto che può esserci studio senza realizzazione immediata in una esposizione, si tiene ovviamente conto quando si tratta di definire la quantità di esposizioni scritte che chi studia la storia dovrebbe produrre (lasciamo sempre da parte la questione delle esposizioni non scritte).
Di questa difficoltà si tiene conto talmente bene, che è difficile che qualcuno si arrischi a definirla, tale quantità; i più coraggiosi e pragmatici sono gli inglesi che l’hanno fissata in almeno quattro titoli in cinque anni, si tratti di articoli o libri: non importa. Chi al momento della verifica non può vantare almeno quattro titoli si deve giustificare (sono ammessi motivi di salute, di famiglia, e la partecipazione a impegni scientifici di lunga lena e lunga durata). è questa la “quantità ritenuta normale di lavoro” nel periodo del Research Assessment Exercise (Rae); tra le deroghe previste, particolarmente “illuminata” mi sembra quella di concedere per i primi tre anni di posto accademico una esenzione.
Ora, il bello dell’aver fissato una quantità minima e nello stesso tempo massima di scritti da valutare (in barba a tutti i discorsi per cui se si produce poco si è scansafatiche, se si produce molto si è grafomani) è che, così facendo, ci si può concentrare esclusivamente e dichiaratamente sull’unica cosa che conti, che è la qualità: e si dice testualmente che libri e articoli sono sullo stesso piano, e non è scontato che un libro sia stimato di per sé superiore, come qualità, ad un articolo.
Ma che cos’è la qualità di uno scritto di storia? Provo ad elencare alcuni ingredienti: narrazione vivace e attraente, qualità dello stile e della lingua: il primo dovere dello storico, diceva Voltaire, è quello di non annoiare; ricerca e scoperta di fonti nuove, o nuova lettura di fonti già note; comprensione ed elaborazione originale della tradizione dei giudizi su di un certo svolgimento storico, quindi conoscenza e assimilazione “produttiva” della letteratura critica; visione originale e “invenzione” dei problemi storici e loro soluzione (aggiungerei: e ampiezza di tali problemi).
Se questi sono gli ingredienti di qualità di uno scritto di storia, una prima conseguenza è riconoscere che le prefazioni, gli scritti di occasione, così come l’attività di cura di volumi collettivi o altrui sono senza qualità dal punto di vista della ricerca – come fanno del resto proprio gli inglesi, ammettendo solo pochi casi particolari.
Su questo piano, dunque, gli scritti di storia di buona qualità dal punto di vista della ricerca presentano, nello stesso tempo, analisi delle tradizioni e informazioni su di esse (note, descrizioni e bibliografia); riassumono e narrano quel che si è trovato, in forma convincente, quindi artistica e adottando una retorica (ad esempio quella delle mappe, delle curve e dei grafici, o quella del romanzo ottocentesco o poliziesco).
Queste esposizioni del risultato si prestano solo a valutazioni complesse, fatte dai competenti: gli informati delle tradizioni, i consapevoli delle strategie di racconto. Gli unici a rimanere in campo sarebbero dunque gli esperti.
Ma se l’unica cosa che deve contare, nella valutazione degli scritti di storia, è la qualità della ricerca che essi esprimono, verificata da esperti, perché si insiste tanto sugli strumenti oggettivi, sulle misurazioni, e in fin dei conti su aspetti quantitativi? Perché nei nostri dipartimenti di storia (potrei citare casi precisi) per “risultati della ricerca” si intendono spesso solo dei numeri da riportare su un modulo?
Propongo tre spiegazioni in ordine crescente di importanza: perché con questo approccio si vorrebbe sfuggire all’arbitrio e alla soggettività: si tratta di denaro pubblico, di posti di insegnamento, di interessi nazionali; perché quello che si valuta non sono propriamente scritti di storia, ma letteratura professionale, a dirne bene, e titolografia, a dirne male, e ad essi è difficile applicare criteri di qualità; perché il fenomeno della produzione di storia, quale che sia la natura, ha assunto dimensioni impressionanti.
Le forme in cui si espongono oggi i risultati delle ricerche, non solo sono varie come tipo e complesse per loro natura, ma sono anche quantitativamente enormi, straripanti, innumerevoli: per darne un’idea, citerei le circa 5.000 riviste di storia nel mondo, spogliate dagli “Historical abstracts”.
Si aggiunga che questo ha la conseguenza, aggravata dalla mancanza di dibattito e di interessi generali, che si creano per lo più solo competenze specialistiche ristrette, microdisciplinari: si conoscono solo certe tradizioni di ricordi, solo certe tradizioni di giudizi, solo certe strategie di racconto o di esposizione (normalmente chi preferisce i grafici è meno a suo agio con la retorica dei romanzi o dei gialli).
è vero, quindi, che solo i competenti possono e devono valutare gli scritti di storia, ma la loro competenza ha talora caratteristiche tali, che la valutazione non può avvenire su vaste aree della produzione, che restano in ombra. A volte, i competenti sono nello stesso tempo incompetenti.
Si verifica, quindi, una situazione paradossale da cui dobbiamo provare ad uscire. Forse l’osservazione di un caso concreto può dare qualche utile indicazione. Ho pensato di sottoporre a una specie di “monitoraggio” il comportamento di un campione reale e rappresentativo, per quel che riguarda la pubblicazione di scritti di storia. Con l’aiuto dei redattori della International Bibliography of Historical Sciences (Ibhs), abbiamo raccolto i dati sulla produzione dei professori ordinari del gruppo di Storia contemporanea (alla data di marzo 1997), e li abbiamo raggruppati. Mi è sembrato che questo campione potesse servire a osservare delle tendenze della componente per definizione più matura della ricerca italiana: il periodo di riferimento sono i cinque anni dal 1993 al 1997; le fonti da cui sono stati estratti i dati sono essenzialmente la Bibliografia storica nazionale, “lista ufficiale” che si basa per i libri sulla Bibliografia nazionale italiana – da usare tuttavia lo stesso con grande prudenza – e per le riviste su uno spoglio diretto; e l’indice del Servizio Bibliotecario nazionale. Entrambe le fonti, per quanto ricche, presentano lacune, e certamente non abbiamo raccolto tutto quel che è stato pubblicato; ma lo scopo non era quello di contare, quanto quello di osservare delle tendenze. I dati in percentuale che andrebbero rivisti riguardano in particolare i saggi comparsi in volumi collettivi e in atti di convegni, e anche le edizioni di fonti sono state penalizzate. Dove è stato possibile, l’elenco è stato arricchito con informazioni provenienti da altri cataloghi.
Vediamo qualche risultato. Gli autori sono 87, 7 donne e 80 uomini; il corpus delle pubblicazioni è formato da 543 titoli; di essi il 54,1% (294) sono esposizioni di ricerca originale nel senso del Rae, cioè libri, articoli di rivista, saggi di volumi collettivi; il 43,7% (237) sono prefazioni, discussioni, scritti d’occasione e cure di volumi: ciò che per gli inglesi non è ricerca originale; le edizioni di fonti sono il 2,2% (12); già questo è un primo risultato interessante, da ritoccare probabilmente, ma significativo: l’edizione di fonti sembra non rientrare nelle priorità abituali dello storico italiano.
Rare le opere di ricerca in collaborazione: tra i libri, ad esempio solo il 6,9%; direi che l’ordinario italiano è tendenzialmente individualista; tra gli 87 autori, il 60% ha pubblicato almeno un libro nel periodo in esame; per il 7% degli autori, nelle fonti disponibili, non risulta alcuna pubblicazione, e adottando il criterio inglese, quattro titoli “di ricerca” in cinque anni, i promossi sarebbero il 44%.
Queste sono cifre e percentuali che possono incuriosire. Ma non danno indicazioni utili per il problema di come valutare gli scritti di storia. Interessante è invece osservare le sedi di pubblicazione dei libri e degli articoli. In entrambi i casi si osserva una notevole dispersione, con alcune sedi in evidenza rispetto alle altre, ma moltissime altre a rappresentare quote quasi equivalenti di pubblicazioni, più o meno sullo stesso piano.
Per le riviste una sola, “Storia Contemporanea” ha un numero di articoli nettamente superiore alle altre (19); segue la “Rassegna Storica Del Risorgimento” (11); le altre, hanno quasi tutte tra i 3 e i 6 articoli, e riviste celebrate e cariche di gloria come “Rivista Storica Italiana”, “Archivio Storico Italiano” sono sullo stesso piano, come sede di pubblicazione, di “Storia in Lombardia”, “Verbanus”, “Rassegna Storica Toscana” e sempre sullo stesso piano, grosso modo, trovi “Studi Storici”, “Quaderni Storici” o “Passato e Presente”, “Italia Contemporanea”.
A parte “Storia Contemporanea”, quindi, non c’è una gerarchia visibile, che possa giustificare una diversa classificazione o ranking delle testate, dando per scontato che la rivista preferita e che stampa più articoli debba anche essere la migliore. è giusto osservare che una sede diciamo peregrina può benissimo contenere un articolo di valore.
Lo stesso discorso vale per gli editori: certo Laterza (18) e il Mulino (12) sono in posizione preminente, ma molte altre case rappresentano quote del 4% e del 5%, sullo stesso piano: Mondadori, Giunti, Angeli, Esi, Einaudi, Donzelli, Lacaita, Sei, Marsilio – si noterà che grandi e piccoli hanno lo stesso spazio, mentre ci sono grandi come Feltrinelli e Bollati Boringhieri che hanno solo un 1%: anche qui l’osservazione non mostra comportamenti uniformemente tendenti a pochi soggetti forti; ci sono soggetti più forti, ma molti altri sullo stesso piano e spazio equivalente. Anche qui per dire che l’ordinario italiano di storia contemporanea si rivolge spesso e senza sfiducia al piccolo editore.
L’indicazione che arriva dall’osservazione di riviste ed editori è dunque che una classificazione rigida delle riviste e delle collane, anche qualora derivasse da uno spoglio delle citazioni, e da cui far discendere un punteggio, sarebbe poco aderente alla realtà dei comportamenti.
Il fenomeno che mi ha colpito di più, però, nell’osservare come si distribuiscono gli scritti dei nostri studiosi, è la percentuale delle opere dedicate alla storia italiana, locale e nazionale: tra il 96% e il 98%. I professori ordinari di storia contemporanea, in servizio alla data di marzo 1997, pubblicano quasi soltanto sulla storia italiana. Il fatto che esistano altri raggruppamenti disciplinari destinati alla ricerca sulle relazioni internazionali, sull’Europa orientale etc. non diminuisce il peso di questa preferenza quasi esclusiva.
Osserviamo la ripartizione delle pubblicazioni sulla storia italiana per arco cronologico di interesse: il risultato non cambia molto se consideriamo tutta la produzione (volumi collettivi e prefazioni comprese) o solo i libri. Riporto entrambe le serie.
Tutta la produzione: scritti di carattere generale: 19,9%; storia d’Italia in rapporto ad altri paesi: 3,8%; storia d’Italia nel periodo che inizia prima del 1914: 39% ; storia d’Italia nel periodo che inizia dopo il 1914 ma entro il 1948: 33,9%; storia dnel periodo che inizia dopo il 1948: 3,3%.
Libri: scritti di carattere generale: 11,7%; storia d’Italia in rapporto ad altri paesi: 1,2%; storia d’Italia nel periodo che inizia prima del 1914: 45,9%; storia d’Italia nel periodo che inizia dopo il 1914 ma entro il 1948: 40%; storia d’Italia nel periodo che inizia dopo il 1948: 1,2%.
Si tratta quindi della storia d’Italia del Risorgimento, del fascismo, delle guerre mondiali, della Repubblica in quanto connessa con guerra e fascismo. Sono rare le opere sul resto del mondo o la cui periodizzazione assuma come momento di inizio un evento successivo al 1948 e comunque più recente e non direttamente collegato con le conseguenze della guerra.
Torniamo dunque al punto di partenza. Questo “monopolio” dell’attenzione che la storia italiana esercita sui nostri professori ordinari mi permette di concludere sullo stesso tasto che avevo toccato all’inizio. è un errore considerare tecnico un problema essenzialmente politico: il ruolo della ricerca pubblica sulla storia, quale vada premiata, favorita, con quali strumenti e in quali sedi. Per “valutare bene” ci vuole un’idea di ciò che è opportuno promuovere in base all’interesse pubblico.
Non abbiamo bisogno di due valutazioni, di cui la prima sia “pura” e scientifica, opera di competenti e mirante alla qualità e inevitabilmente soggettiva, e la seconda “applicata”, pratica e politica, che misura e pesa, oggettiva, spersonalizzata.
Ci serve una sola valutazione, che sia scientifica sapendo di essere politica, e che si basi su quattro elementi: 1. sulla competenza dell’esperto; 2. su strumenti bibliometrici di analisi della letteratura (disciplinari, non onnicomprensivi; elastici, mirati, costruiti su particolari esigenze); 3. sull’uso elastico di strumenti rigidi come le analisi bibliometriche onnicomprensive come l’IF; 4. sulla circolazione dei risultati delle ricerche e dei giudizi critici, per mezzo di recensioni, rassegne, discussioni.
Ci sono riviste, tra quelle che abbiamo citato, che non pubblicano proprio recensioni; la stessa “Rivista storica italiana”, per fare un esempio quasi ufficiale, come ho mostrato su “Storiografia”, 1 (Archivio della recensione), ha diminuito vistosamente il numero di libri recensiti, da 206 per annata (1884-1922) a circa 30 nelle serie dal 1930 in poi, mentre cresceva enormemente il numero dei libri pubblicati.
Senza una valutazione “diffusa”, senza una cultura del giudizio critico, senza la circolazione e il dibattito culturale il “giudizio del competente” e l’uso di strumenti di misurazione girano a vuoto.
Intensificare l’attività di critica storiografica è dunque il primo passo necessario. Ed è quello, mi pare, che la Sissco sta cercando di fare con la parte critica dell’Annale.
International Bibliography of Historical Sciences, Roma