Cerca

Alle origini dello stato sociale nell’Italia repubblicana. La ricezione del Piano Beveridge e il dibattito nella Costituente

Loreto Di Nucci
La Collana degli Archivi di Stato
Cittadinanza.
Individui, diritti sociali, collettività nella storia contemporanea

a cura di C. Sorba

Alla fine della seconda guerra mondiale incomincia a delinearsi in Italia, come molti altri paesi dell’Europa occidentale, una nuova forma di Stato. In aperto ripudio degli stati autoritari e totalitari, lo Stato sociale, che è chiamato anche, indifferentemente, Stato del benessere oppure Stato assistenziale, appare collegato per mille tramiti allo Stato liberal-democratico ma di quest’ultimo costituisce anche un netto superamento. Infatti, oltre che riconoscere e tutelare, al pari dello Stato liberal-democratico, i tradizionali diritti civili e politici del cittadino, il Welfare State ha il suo principio di legittimazione nel fatto di garantire taluni diritti sociali fondamentali, come ad esempio il diritto al sostentamento e il diritto al lavoro.
Benché venga impiegato massicciamente dopo il 1945, il concetto di Stato sociale non nasce allora ma vede la luce nella Germania bismarckiana, allorché inizia a essere utilizzata la parola Wohlfahrtsstaat, “Stato del benessere”, per definire i nuovi compiti sociali dello Stato. Adoperato in un’accezione negativa all’interno dei circoli rivoluzionari di destra durante la Repubblica di Weimar, che contrapponevano allo “Stato del benessere” la “Comunità di popolo”, il concetto fu importato in Gran Bretagna agli inizi degli anni Trenta e fu tradotto con Welfare State.
Il primo a impiegarlo fu Alfred Zimmern, uno studioso che lo utilizzò in un’accezione positiva per differenziare le moderne democrazie liberali dal Warfare State della teoria politica hobbesiana. Il concetto fu quindi ripreso, agli inizi degli anni Quaranta, dall’arcivescovo William Temple, che lo adoperò per descrivere le riforme richieste dal movimento dei “cristiano-socialisti”. Ma non divenne popolare e non entrò nel linguaggio comune fino a quando non iniziò a essere collegato al piano di riordino del sistema britannico di sicurezza sociale concepito da William Beveridge e completato nel novembre 1942 [1].
A partire da quel momento, l’espressione Welfare State divenne una sorta di sinonimo di piano Beveridge [2], ma venne anche impiegato per delineare il futuro assetto che avrebbero dovuto avere gli Stati democratici e per distinguere questi ultimi dagli Stati totalitari come quello nazionalsocialista e sovietico.
Da allora, e in maniera ancor più massiccia dopo il varo della legislazione sociale laburista del periodo 1945-1951, il modello dello Stato sociale è divenuto sempre più popolare, è stato adottato in molti paesi dell’Occidente, e ha iniziato la sua “marcia trionfale” nel mondo. Una “tappa” di tale marcia è stata l’Italia, ma prima di ricostruire il cammino di avvicinamento del piano Beveridge al nostro paese, vediamo brevemente in che cosa consisteva, visto che di esso si parla da noi per lo più per sentito dire [3]. E cerchiamo di capire, contestualmente, per quale ragione è considerato il testo base del Welfare contemporaneo.

1. Il testo base dello Stato sociale contemporaneo
Elaborato da una commissione presieduta da William Beveridge, direttore della London School of Economics e autore del rapporto finale, il piano Beveridge fu presentato al parlamento britannico alla fine del 1942 ed è considerato il testo base del moderno Welfare [4]. Il piano era concepito come uno strumento attraverso cui promuovere i primi interventi di una più generale politica di progresso sociale. E cioè una politica che doveva prevedere, dopo l’attacco alla “Miseria”, alcune altre significative misure contro “i giganti sul cammino della ricostruzione”, i tipici mali della società contemporanea, vale a dire la “Malattia”, l’”Ignoranza”, lo “Squallore” e l’”Ozio” [5].
Il piano si prefiggeva di abolire il bisogno attraverso la “protezione sociale”, e questo doveva significare innanzitutto la garanzia di un reddito sicuro. Si basava su tre premesse ideali e combinava insieme tre distinti metodi di protezione. La prima di tali premesse consisteva nell’affermazione della irrinunciabile esigenza di assicurare sussidi infantili fino a 15 anni; la seconda, nell’estensione dei servizi sanitari per la prevenzione e la cura delle malattie e la riabilitazione al lavoro per tutti i facenti parte della comunità; la terza, nella conservazione degli impieghi, ossia nella prevenzione della disoccupazione di massa [6].
Stabiliti questi ideali di riferimento, il piano faceva concretamente affidamento su tre diversi istituti: sulle assicurazioni sociali per i bisogni primordiali della vita; sull’assistenza nazionale per taluni casi speciali; sull’assicurazione volontaria, per accrescere le prov-videnze di base [7].
L’assicurazione sociale era la principale forma di protezione e consisteva nel garantire benefici di sussistenza in cambio di contributi obbligatori. La scelta del sistema contributivo veniva spiegata con la storica abitudine del popolo britannico a preferire un beneficio in reciprocità di un contributo versato anziché un sussidio gratuito dallo Stato. Siffatta preferenza era chiaramente dimostrata dalla popolarità delle assicurazioni obbligatorie e dal notevole incremento di quelle volontarie per malattia, cure ospedaliere e morte; nonché, insieme, dalle opposizioni fatte a qualsiasi forma di accertamento delle risorse. Queste opposizioni sorgevano non tanto dal desiderio di “ottenere molto sborsando poco”, quanto da un vero e proprio risentimento verso una misura che veniva percepita quasi come una multa rispetto a quello che era ritenuto il piacere e il dovere del risparmio. Una libera amministrazione del proprio reddito, in altre parole, veniva considerata un elemento essenziale della libertà dell’individuo.
Ma c’era un’altra ragione, altrettanto fondante, che stava alla base del metodo contributivo, e consisteva nell’affermazione del principio che il denaro necessario per i benefici di assicurazione dovesse provenire da un fondo alla costituzione del quale i beneficiari avessero contribuito e potessero essere chiamati a contribuire ancora più largamente in futuro nel caso in cui fosse risultato insufficiente allo scopo. Gli assicurati, insomma, non dovevano avere l’impressione che i sussidi erogati dallo Stato per un periodo di non lavoro provenissero da una borsa senza fondo.
Stabilito questo punto, si precisava anche, però, che lo Stato non poteva esimersi dal garantire assistenza diretta ai bisognosi, e cioè a coloro che erano nell’impossibilità di contribuire al sistema di assicurazione. E dunque, per questa ragione, l’assistenza nazionale diveniva il complemento indispensabile delle assicurazioni sociali.
Accanto a queste due forme di assistenza, si riservava poi un posto alla “assicurazione volontaria”, e ciò in considerazione del fatto che i redditi reali e le spese differivano fra le varie classi della popolazione, quindi il poter provvedere a una ulteriore forma di assicurazione era qualcosa che rientrava nell’ambito della libertà dell’individuo.
Indiscutibilmente, però, le assicurazioni sociali costituivano la parte più importante del “Piano di Protezione Sociale” e incorporavano sei principi fondamentali. Il primo di tali principi era rappresentato dalla provvidenza di una quota fissa di beneficio di assicu-razione, indipendentemente dall’ammontare degli stipendi interrotti da disoccupazione o invalidità o cessati del tutto in seguito all’andata a riposo.
Il secondo principio fondamentale era costituito invece dalla richiesta di un contributo obbligatorio, che era, sia per gli assicurati, sia per i loro datori di lavoro, a “quota fissa”. In altre parole, tutti gli assicurati, ricchi o poveri, avrebbero pagato un uguale contributo per un’uguale protezione. Tale sistema sembrava avvantaggiare, a prima vista, le classi sociali più agiate, ma si trattava, in realtà, di un vantaggio apparente. I più ricchi, infatti, a causa delle maggiori tasse a loro carico, avrebbero pagato di più all’erario, dunque, in via indiretta, alla quota dello Stato per il Fondo di Assicurazioni Sociali.
I rimanenti quattro principi erano di tipo organizzativo ed erano i seguenti: unificazione della responsabilità amministrativa; adeguamento dei benefici alle mutate condizioni di vita in ordine al loro ammontare e alla loro durata; estensione dell’assicurazione sociale a sempre nuovi bisogni e a un sempre maggior numero di categorie di persone; classifica di queste ultime.
In relazione a quest’ultimo punto si precisava, a scanso di equivoci, che tale “classifica” nasceva dal bisogno di tener conto del diverso modo di vita delle varie componenti della comunità. E dunque le classi di assicurazione non dovevano intendersi come classi economiche o sociali poiché il progetto di assicurazione sociale era in realtà unico per tutti i cittadini, indipendentemente dalle loro risorse. Stabilendo una quota fissa di contributo obbligatorio e una quota fissa di beneficio di assicurazione, il piano aveva un impianto universalistico, e tale carattere veniva rafforzato dal fatto che il bisogno di assistenza medica, spese funerarie e sepoltura era riconosciuto comune a tutte le cate-gorie.
Benché fosse stato originariamente concepito come uno strumento per avviare il riordino amministrativo nel campo della sicurezza sociale, il piano Beveridge ebbe tuttavia una portata rivoluzionaria e avviò una delle più grandi trasformazioni nella storia europea del ‘900. Ciò avvenne perché la “liberazione dal bisogno” che esso intendeva perseguire appariva collegata per mille fili, misteriosi ma profondi, alla liberazione dal nazional-socialismo e dal fascismo; e più in generale, alla vittoria della democrazia sui totalitarismi, di qualunque genere essi fossero.
Pubblicato il primo dicembre del 1942, con il titolo Social Insurance and Allied Services – Report by Sir William Beveridge, il rapporto ebbe un successo straordinario: se ne vendettero, nello spazio di soli trenta giorni, più di centomila copie [8]. Nel volgere di pochi mesi, inoltre, e senza considerare l’edizione speciale riservata all’esercito, esso divenne il più venduto fra i rapporti ufficiali inglesi. Secondo un dato fornito dallo stesso Beveridge nel 1943, il suo rapporto aveva venduto 250.000 copie dell’edizione integrale, 350.000 del compendio ufficiale e 42.000 dell’edizione americana [9].
Alle origini di questo vero e proprio trionfo editoriale vi sono moltissimi fattori, ma alcuni appaiono più rilevanti di altri. Esso ha certamente a che fare, cioè, con i sentimenti di paura, di spaesamento, di sacrificio e di incertezza del domani determinati dalla guerra. E, oltre a ciò, con l’instaurarsi di un clima politico più solidale fra tutte le classi sociali indistintamente. Ma le ragioni del successo vanno ricercate soprattutto nel legame che si instaurò fra il piano e la guerra. Beveridge e i membri della Commissione da lui presieduta iniziarono il loro lavoro proprio mentre Churchill e Roosevelt redigevano la Carta Atlantica, nell’agosto del 1941. Questa coincidenza aveva creato l’impressione, autenticamente di massa, che la battaglia delle democrazie contro la Germania, l’Italia e il Giappone fosse collegata per taluni tramiti sotterranei e difficilmente definibili alla battaglia per la libertà dal bisogno e per la promozione della sicurezza sociale [10].
Del resto, nella parte conclusiva del suo rapporto Beveridge aveva citato la quinta clausola della Carta Atlantica, che affermava il desiderio delle nazioni britanniche e americane di raggiungere nel dopoguerra “una piena collaborazione tra tutte le nazioni nel campo economico, allo scopo di assicurare il più alto livello nelle condizioni del lavoro, del progresso economico e dell’economia sociale”. Dopo averla richiamata, Beveridge scriveva, dunque, che le proposte contenute nella sua relazione costituivano un contributo alla traduzione in pratica delle indicazioni fornite in quella clausola [11].
Tale impressione popolare venne enormemente rafforzata – e veniamo così a un secondo elemento – da un’altra concomitanza. E cioè dal fatto che il piano Beveridge fu pubblicato alcuni giorni dopo la battaglia di El Alamein (23 ottobre – 4 novembre 1942), che ai più apparve come un vero e proprio momento di svolta nel corso della guerra [12].
In forza di ciò, il piano Beveridge iniziò a esercitare un’influenza negli stati dell’Europa occidentale già durante il secondo conflitto mondiale. Copie del piano circolarono infatti fra i movimenti di resistenza attivi nei paesi occupati dai nazisti e, nel settembre del 1945, furono perfino rinvenute nel bunker di Hitler. In Germania il piano Beveridge aveva suscitato infatti un’enorme impressione. E benché la propaganda nazionalsocialista lo rappresentasse come una “frode plutocratica al popolo inglese” e, in pari tempo, come una prova lampante del fatto che i “nemici [stavano] facendo proprie le idee nazionalsocialiste”, il fatto che Hitler stesso desiderasse capire che cosa fosse sta a indicare che i nazisti avevano perfettamente colto la sua portata rivoluzionaria [13].
A partire dalla sua pubblicazione, insomma, il piano Beveridge segnò l’avvio di un processo irreversibile e influenzò i vari modelli di Stato sociale che presero forma nel Vecchio continente all’indomani della conclusione del conflitto. Su questo punto vi è, da parte degli studiosi che si sono occupati della questione, da Gerhard Ritter a Josè Harris, da Geoffrey Barraclough a Luciano Cafagna, una generale concordanza di giudizio [14]. Dunque, se è così, non parrà strano che per risalire alle origini dello Stato sociale italiano si incominci con il capire se il piano Beveridge abbia esercitato una qualche influenza in Italia. E cioè con il verificare se abbia avuto un qualche peso sugli orientamenti delle varie forze politiche, se, e in quale misura, sia stato recepito dalla cultura economica e sociale italiana, e se abbia infine condizionato il dibattito all’Assemblea Costituente.
2. Il piano Beveridge in Italia
Esattamente come accadde in molti altri paesi europei, anche in Italia la pubblicazione del piano Beveridge suscitò una notevole eco pubblica. Le ragioni di questo interesse sono molteplici, ma due appaiono di gran lunga più importanti delle altre.
La prima è da ravvisarsi nell’esistenza, nel nostro Paese, di una tradizione nazionale di tutto rispetto nel campo della legislazione sociale [15]. La seconda ragione risiede invece nel fatto che anche in Italia il piano Beveridge venne considerato uno strumento della guerra psicologica. In virtù del suo essere una “dichiarazione di politica sociale fatta in tempo di guerra”, esso stava a indicare infatti a quali scopi doveva servire la vittoria sulle potenze dell’Asse. Dunque, in forza di ciò, venne osteggiato dal fascismo e, al contrario, venne accolto e fatto proprio da coloro che si opponevano al fascismo.
Da una parte, vi furono così le reazioni della stampa fascista, che parlò del piano come di un qualcosa che “doveva considerarsi quasi superato dal complesso di prov-videnze poste in atto dal regime fascista” [16]; dall’altra, quelle dei movimenti di opposizione al fascismo, che furono di segno completamente opposto. Infatti, come si legge in un documentato rapporto del “Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro”, il “piano Beveridge assunse, (…) da noi, il valore di un mito”.
Accadde, cioè, che “tecnici, sindacalisti, giornalisti, isolati o in gruppi di studio, si impossessarono di queste idee semplici e chiare, le approfondirono sin dal periodo clandestino, sotto l’occupazione tedesca a Roma e nelle provincie del nord, e subito le divulgarono non appena intervenuta la liberazione”. Il piano, secondo il rapporto in questione, “commosse e convinse per tante piccole e grandi ragioni”, sia di natura amministrativa sia di natura simbolica.
Indiscutibilmente, comunque, anche in Italia il successo del piano Beveridge fu dovuto alla sua potentissima carica di “rivoluzione concreta”. E cioè una rivoluzione sociale che era insieme possibile, pacifica e veramente a portata di mano. Innanzitutto, infatti, essa appariva ed era tecnicamente realizzabile; in secondo luogo, non contemplava in alcun modo il ricorso alla violenza; e non rimandava, infine, la “liberazione dal bisogno” alla preventiva costituzione di un regno dell’utopia ma prometteva alla gente comune la sua attuazione subito. O comunque, se non proprio all’indomani della conclusione della guerra, nel volgere di pochissimo tempo.
Veicolando un messaggio di tal genere, che aveva una straordinaria forza d’impatto, il piano Beveridge finiva per trasformarsi in un formidabile strumento di guerra ideologica. E fu per questa ragione che esso “fu largamente usato come arma psicologica, propagandato dalla radio e dalle pubblicazioni clandestine al pari dei bollettini di guerra alleati e delle altre informazioni politiche e militari”. Nell’accurata ricostruzione del CNEL si legge, così, che il piano Beveridge interessò, nel nostro Paese, “non soltanto le riviste tecniche, ma tutta la stampa quotidiana e periodica” [17]. E, in generale, tutti chiedevano nuove forme di protezione sociale [18].
I primi passi concreti in questa direzione vengono mossi dal governo Badoglio già nel marzo del 1944. Con l’Italia “tagliata in due”, e mentre al nord il regime fascista repubblicano provvede a un riordino del complesso di leggi e norme in tema di assistenza e previdenza, a Salerno, dove Badoglio si è trasferito con una parte del governo, viene varato un importante provvedimento in materia. Il 15 marzo del 1944 viene infatti promulgato il regio decreto n.120 che istituisce una “Commissione reale per la riforma della previdenza sociale”. La Commissione doveva prendere in esame le forme di previdenza e assicurazioni sociali in vigore in Italia, e ciò “ai fini di una riforma della legislazione vigente” che fosse “ispirata alle esigenze di un ordinamento più semplice, più uniforme” e che estendesse i “limiti dell’assistenza dello Stato in favore delle classi lavoratrici” [19]. Entro un anno dalla sua istituzione, la Commissione avrebbe dovuto pre-sentare le sue proposte di riforma, ma nel marzo del 1945 non era ancora entrata in funzione. Riformata nella composizione con il decreto luogotenenziale n.330 del 1944 [20], essa fu costituita, infatti, soltanto il 12 maggio del 1945, con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri [21]. Superata dagli eventi bellici, la Commissione per la riforma della previdenza sociale non iniziò mai i suoi lavori. Nondimeno, la sua istituzione riveste una certa importanza.
A prima vista, in verità, il fatto che un governo come quello Badoglio, provvisorio e con pochi poteri, avesse deciso di istituire, fra i suoi primissimi atti, una Commissione per la riforma della previdenza sociale ha in sé dello strabiliante. Infatti, considerando le mille emergenze che esso era chiamato a fronteggiare in quel terribile frangente, non si può certo dire che la previdenza sociale potesse essere in cima alla scala delle priorità delle cose da fare. E tuttavia, se si guarda più in profondità, si scopre come l’istituzione della Commissione in questione rispondesse a una precisa logica politica e dimostrasse come anche in Italia avesse avuto effetto l’impiego del piano Beveridge come “arma psicologica”.
Istituendo un organismo che, al pari della commissione britannica istituita da Greenwood nel 1941, preparasse una riforma che estendesse i “limiti dell’assistenza dello Stato in favore delle classi lavoratrici”, il governo Badoglio si prefiggeva tre obiettivi. Mirava innanzitutto a offrire, al pari del piano Beveridge, qualcosa di concreto per cui valesse la pena combattere, non soltanto a coloro che si erano già convertiti all’an-tifascismo, ma anche agli incerti e perfino a coloro che nelle file della RSI combattevano, come dicevano, “per l’onore dell’Italia”. Puntava, in secondo luogo, ad apprestare misure sociali che facilitassero la transizione dalla guerra alla pace. Voleva indicare, infine, quale sarebbe stata, in campo economico-sociale, la direzione di marcia del nuovo Stato che sarebbe stato edificato una volta cessate le ostilità.
L’istituzione della “Commissione reale per la riforma della previdenza sociale” fornì l’occasione per una inchiesta sulle posizioni dei partiti politici in materia che fu promossa dalla “Rivista degli infortuni e delle malattie professionali”. Riprendendo le pubblicazioni dopo la liberazione di Roma, la rivista, ora diretta da Vezio Crisafulli, spiegava che la sua iniziativa scaturiva dal convincimento che la guerra in corso avesse presupposti e carattere “squisitamente sociali”, e cioè affermasse l’esigenza di un “nuovo ordine sociale fondato sui diritti del lavoro”. E dunque, ricordando come altri stati, che erano più ricchi del nostro e meno provati dalle distruzioni belliche, avessero predisposto “superbi” piani di sicurezza sociale che erano concepiti come “supremo fastigio della vittoria”, la rivista pubblicava una “guida breve” al piano Beveridge e si chiedeva in che modo sarebbe stato possibile perve-nire anche nel nostro Paese a una “liberazione dal bisogno”. Quindi riferiva come rispon-devano alla domanda in questione tutti i principali partiti politici, con la sola eccezione del Partito d’Azione che non aveva ancora avviato alcuna riflessione in proposito [22].
Il Partito Liberale aveva precisato la sua posizione in un documento elaborato da una “Commissione interna di studio per i problemi economici”, che è importante ai fini del nostro discorso, poiché testimonia che anche in Italia i liberali si stavano sempre più orientando verso una forma di “liberalismo sociale”. Questo nuovo indirizzo, che riconosceva la necessità dell’intervento dello Stato nel campo della sicurezza sociale, si rivela nella parte del memoriale in cui si legge che taluni compiti tradizionalmente affidati alla carità cristiana dei singoli e alle istituzioni benefiche, come il sostentamento degli anziani, degli orfani e degli invalidi, nonché la cura degli infermi e l’assistenza ai senza lavoro, non potevano non trovar posto nella società moderna in quell’azione che la collettività svolgeva a “tutela” e a “beneficio” dei propri membri.
Tuttavia, pur riconoscendo che esistevano nuovi doveri della collettività per far trionfare il principio della solidarietà fra gli uomini, i liberali precisavano altresì che rimanevano inalterati i doveri che l’individuo aveva verso se stesso. Dunque i rapporti fra i cittadini e lo Stato dovevano continuare a essere dominati dai principi di libertà da una parte, e di responsabilità dall’altra. Ciò comportava che l’aiuto della collettività potesse legittimamente invocarsi soltanto per quegli eventi che avevano un carattere di straordinaria eccezionalità e generalità, come la morte, la vecchiaia, l’invalidità, la malattia e la disoccupazione. Dovevano essere invece esclusi quelli al cui verificarsi non era indifferente la volontà del singolo, come ad esempio il matrimonio e la nascita dei figli.
Al pari del PLI, anche la Democrazia Cristiana aveva istituito una “Commissione di studio per i problemi della previdenza sociale” e questa, al termine dei propri lavori, aveva prodotto uno studio, intitolato Contributi alla riforma della previdenza sociale, pubblicato dalla Società Editrice Libraria Italiana. Comunque, quale fosse l’orientamento ideologico della Democrazia Cristiana lo si capisce immediatamente allorché si consideri quale dovesse essere, secondo il documento della DC, la funzione delle assicurazioni sociali. Queste ultime dovevano rappresentare un “sistema di ridistribuzione del reddito nazionale”, che senza sopprimere il principio del rispetto della personalità e della libertà di ciascun cittadino consentisse tuttavia di migliorare le “condizioni medie” di tutte le classi sociali e in special modo di quelle più umili.
Nel contesto di una dichiarazione di principi così vincolante, la DC intendeva estendere la tutela assicurativa a tutti i lavoratori indipendenti e ai “produttori in genere”, e quindi agli artigiani, ai coloni, ai mezzadri, ai coltivatori diretti, ai piccoli imprenditori, ai professionisti e agli artisti. E riservava inoltre una particolare attenzione alla famiglia, che doveva essere destinataria di una politica sociale non più caratterizzata dai fini “imperialistici” e “materialistici” propri della propaganda demografica fascista ma ispirata ai principi del cristianesimo.
La riforma prospettata dal PSI si basava invece sul principio-guida che le assicurazioni sociali dovessero rispondere ai “bisogni” e agli “interessi” della classe operaia. Nel contesto di una tale filosofia sociale di riferimento, si comprende benissimo la ragione per cui i socialisti non approvassero l’istituzione della Commissione governativa per la riforma della previdenza sociale. Essi erano convinti, infatti, che la progettazione di una tale riforma fosse un compito della Confederazione Generale Italiana del Lavoro, cioè all’organismo massimamente rappresentativo dei “bisogni” e delle “aspirazioni” della classe operaia.
Se dal PSI si passa ad analizzare la posizione dell’altro partito storico della sinistra, vale a dire il PCI, si vede come essa si precisi nel quadro di due direttive programmatiche generali. La prima è da ravvisarsi nella dichiarazione che il prerequisito essenziale del nuovo ordine democratico dovesse essere la “liberazione dal bisogno”. La seconda, invece, nell’affermazione che la riorganizzazione della previdenza dovesse costituire un aspetto fondamentale della ricostruzione nazionale. Il livello della sicurezza sociale avrebbe dovuto cioè rappresentare l’”indice” del nuovo ordine democratico. Da tali principi di riferimento discendevano alcune precise indicazioni pratiche, che riguardavano due questioni di enorme importanza, cioè l’estensione delle assicurazioni sociali da una parte e il loro controllo dall’altra. Dunque il PCI riteneva che la tutela previdenziale dovesse essere estesa a tutta la “popolazione lavoratrice”, cioè operai, contadini, coloni, mezzadri, impiegati, artigiani, professionisti, artisti. E credeva altresì che la direzione e il controllo delle organizzazioni sindacali e dei lavoratori sulla gestione della previdenza costituisse una sorta di presupposto per un “risanamento morale” di questa dopo l’esperienza del fascismo.
Anche il Partito Democratico del Lavoro aveva istituito, al pari degli altri, una “Commissione di studio per i problemi delle assicurazioni sociali”, ma questa non aveva ancora ultimato i lavori. Sicché, non avendo una posizione ben definita sulla questione, questo partito si limitava a esprimere l’auspicio che in un futuro non troppo lontano i lavoratori, godendo di un superiore tenore di vita assicurato da compensi adeguati, potessero provvedere autonomamente, per mezzo delle assicurazioni personali, ai bisogni propri e a quelli delle loro famiglie.
L’orientamento del Partito Repubblicano Italiano in materia di assicurazioni sociali si caratterizzava invece per la sua originalità, nel senso che esso escludeva in partenza ogni possibile ingerenza da parte dello Stato. Il PRI, in sostanza, si ricollegava alla sua vecchia tradizione, al movimento mazziniano delle mutue operaie ed era contrario a un sistema di previdenza sociale fondato sui principi del “socialismo di Stato”. Esso non disconosceva, naturalmente, che la vita sociale italiana dovesse basarsi, come in tutte le altre nazioni del mondo, su “nuovi criteri” di giustizia sociale, ma questo non voleva dire che il piano Beveridge e altri piani consimili rispondessero alle “esigenze” e alle “possibilità” del Paese.
Autenticamente singolare è, infine, la posizione del Partito Democratico Italiano. Al pari di altri partiti, anche questo raggruppamento era convinto del fatto che il sistema delle assicurazioni sociali rappresentasse il mezzo più diretto per attuare quella generale “libertà dal bisogno” che costituiva una delle mete fondamentali della “nuova democrazia”. Ma era curioso il modo in cui si proponeva di raggiungerla. Il PDI riteneva infatti che, poiché il diritto alla sicurezza sociale era stato riconosciuto e consacrato con solenni impegni da parte dei capi delle Nazioni Unite, occorreva che l’Italia lo facesse diventare il “fulcro” su cui far leva per ottenere dalle maggiori potenze quegli aiuti finanziari che erano indispensabili alla sua ricostruzione economica.
Nel complesso, tutti i partiti erano convinti della necessità di un ampio riordinamento della legislazione previdenziale e concordavano altresì sul fatto che bisognasse varare un piano organico e unitario di sicurezza sociale. Quanto alla scelta fra un sistema di “assicurazione sociale” limitata ai lavoratori o di “assicurazione nazionale” estesa a tutti i cittadini, l’orientamento più diffuso era verso una progressiva estensione della tutela assicurativa a sempre più numerose categorie di lavoratori indipendenti. Nessuno, insomma, commentava Emanuele Cabibbo, autore dell’inchiesta, cercava di “copiare” il piano Beveridge, e ciò avveniva a causa del “carattere squisitamente conservatore e liberista” che questo aveva, dal momento che “fissa[va] tanto per il baronetto quanto per il suo cameriere la stessa misura di contributo e di benefici” [23].
Sulla base della ricostruzione fin qui svolta, si può affermare dunque che all’indomani della caduta del fascismo i principali partiti politici italiani pensavano a forme di organizzazione della sicurezza sociale che sembrano avere poco o nulla a che spartire con il piano Beveridge. Questo perché esso era un piano “liberista”, cioè non metteva in discussione gli ingranaggi che regolavano l’economia di mercato; era “conservatore”, dal momento che salvaguardava i tradizionali assetti sociali della società capitalista; ed era infine “interclassista-universalista”, poiché fissava tanto per i ricchi quanto per i poveri la stessa misura di contributi e di benefici.
Questa avversione al piano Beveridge si spiega, insomma, con il fatto che esso non metteva in discussione in alcun modo i fondamenti della società borghese-capitalistica, ma, si diceva, era stato in definitiva concepito per conservarla. E cioè per salvaguardarne e perpetuarne sia i valori forti di riferimento sia i principi organizzativi di fondo. La critica, in effetti, non era infondata, poiché nel modello di Beveridge il riconoscimento di nuovi diritti sociali, in vista di un allargamento dell’area della cittadinanza, non metteva in alcun modo in discussione la cultura della democrazia, le sue regole, i suoi valori, né, ugualmente, i principi dello Stato liberal-democratico.
Viceversa, le culture politiche maggioritarie in Italia, quella cattolica da un lato e quella marxista dall’altro, benché profondamente differenziate tra loro, erano tuttavia accomunate dal convincimento che la civiltà borghese-capitalista fosse giunta al capolinea e che, ugualmente, dovesse essere considerata esaurita l’esperienza dello Stato moderno di matrice liberale.
Giorgio La Pira, ad esempio, era convinto del fatto che fosse assolutamente legittimo lo “spostamento dell’ordine giuridico dal singolo alla collettività” poiché la civiltà borghese che aveva “teorizzato una concezione giuridica atomistica [era] destinata a finire”.
E Giuseppe Dossetti, dal canto suo, era persuaso della ineluttabilità del superamento dello Stato liberale perché questo era privo di qualsiasi finalismo. A suo giudizio, invece, lo Stato doveva avere una sua finalità e questa doveva essere il “promovimento di tutte le condizioni necessarie e favorevoli al bonum humanum simpliciter” [24].
Analogamente Togliatti, come ha osservato Bognetti, concedeva che in uno Stato ancora “borghese” si potessero riconoscere taluni principi organizzativi legati alla proprietà, alla iniziativa economica e agli istituti privatistici collegati, ma riaffermava, in pari tempo, la necessità di superare questo Stato borghese “alla prima occasione utile” [25].
Questi rimandi ci introducono a un’altra questione, cioè ci fanno capire che il piano Beveridge non poteva essere “merce da esportazione” proprio a causa dei particolari orientamenti che avevano, in questo periodo, i due principali partiti di massa relativamente ai grandi temi dello Stato e dell’economia. Le questioni sono infatti inestricabilmente intrecciate poiché sia la DC che il PCI erano dell’opinione che per assicurare realmente taluni fondamentali diritti sociali come il diritto al lavoro, erano necessari accorgimenti costituzionali e, insieme, talune forme di controllo sull’economia. A loro avviso, affinché non ci si limitasse a una semplice “dichiarazione dei diritti”, a un puro flatus vocis, era indispensabile predisporre dispositivi istituzionali volti ad attuarli, nonché, per l’economia, talune politiche di piano.
I giuristi cattolici, come Giuseppe Capograssi, Egidio Tosato, Costantino Mortati, Gaspare Ambrosini, Antonio Amorth svilupparono una particolare riflessione intorno alla possibilità di convertire i diritti in norme giuridiche effettive. Mortati, ad esempio, nella relazione svolta nel ’46 sui “diritti subbiettivi politici” per conto della Commissione Forti del Ministero per la Costituente, si pronunciava a favore di un “raccordo costituzionale” tra “i fini sociali da perseguire obbligatoriamente nel nuovo assetto politico e le istituzioni predisposte alla loro attuazione”. Del pari, Antonio Amorth, “maestro” di Giuseppe Dossetti durante l’Assemblea Costituente, nella prolusione per l’inaugurazione dell’anno accademico 1945-’46 dell’Università di Modena, riaffermava l’assoluta crucialità dei diritti sociali nel trapasso costituzionale in atto. E precisava che il mutamento che stava avvenendo nella stessa accezione della parola “Stato” derivava per l’appunto dal progressivo riconoscimento dei diritti sociali [26].
Accanto alle elaborazioni degli studiosi menzionati, bisogna ricordare taluni documenti fondamentali, fra cui il “Codice di Camaldoli” che viene compilato nel luglio del 1943 [27] e le “Lezioni” svolte alla Settimana sociale dei Cattolici che si tenne a Firenze dal 22 al 28 ottobre 1945 [28]. Sia nel “Codice” che nelle “Lezioni” vengono ribaditi con forza due punti. Il primo concerneva lo Stato, il cui “compito e fine” doveva essere la giustizia sociale. Sicché, come precisava Fanfani, richiamando il messaggio natalizio di Pio XII del 1944, era fondamentale che si precisasse nel “patto della nuova società” quali fini sociali i consociati speravano fossero raggiunti.
Il secondo punto riguardava il lavoro, visto come un “mezzo voluto da Dio per il perfezionamento della persona umana”. Da una tale impostazione derivava il “dovere del lavoro” e derivava altresì il fatto che qualunque acquisizione di beni non avesse trovato corrispondenza in un “adeguato e lecito lavoro” avrebbe rappresentato un “indebito arricchimento effettuato impoverendo altri uomini”, e quindi sarebbero stati legittimi interventi dell’autorità volti a correggere questo stato di cose.
Mentre i giuristi cattolici vicini alla DC riflettevano sul “dover essere” sociale della Costituzione, cioè sul modo in cui definire costituzionalmente i diritti sociali e poi attuarli, il PCI nel periodo precostituente immaginava una Costituzione con un chiaro contributo programmatico, e prevedeva altresì forme di controllo sull’economia per fare in modo che dall’ambito della dichiarazione dei diritti sociali si passasse alla loro realizzazione, dalle parole si passasse ai fatti. Fondamentali devono ritenersi, in tal senso, due convegni: il primo, economico, si svolse a Roma dal 21 al 23 agosto 1945 e aveva per titolo “Ricostruire”. Il secondo fu invece il V Congresso del PCI che si tenne a Roma dal 29 dicembre 1945 al 5 gennaio del 1946.
Nel primo dei convegni richiamati si scontrarono due posizioni che erano apertamente divergenti. Da una parte stavano coloro che auspicavano forme di controllo sull’economia ma senza che queste implicassero necessariamente la collettivizzazione dei mezzi di produzione; tra questi, ad esempio, vi era il relatore ufficiale del convegno, e cioè Antonio Pesenti.
Dall’altra parte, vi erano i favorevoli a una pianificazione centralizzata e assoluta dell’economia italiana. Evocando l’aumento di efficienza che si era verificato in URSS, Dami, ad esempio, era del parere che non si dovessero avere remore nel proporre al Paese “un’economia pianificata per impiegare tutte le (…) risorse di lavoro e di beni di produzione”.
Mediando fra due orientamenti che gli apparivano entrambi pericolosi, e cioè un “rigido planismo” da un lato e un “tardivo liberismo” dall’altro, Togliatti si espresse a favore di una linea di programmazione economica volta a inserire in forma progressiva “elementi di piano nella direzione economica del Paese”. A giudizio del leader comunista, infatti, nella situazione in cui si trovava l’Italia, non era possibile avanzare richieste di un controllo popolare sull’economia che avesse contenuti analoghi a quello rivendicato dalle masse operaie dell’URSS nel 1917 o dai socialisti italiani nel “biennio rosso” 1919-’20. Tenendo conto in giusta misura della fase politica in corso, Togliatti riteneva dunque che un’opera di controllo sull’economia dovesse essere svolta dallo Stato, e ciò esattamente nel modo in cui stava accadendo in Gran Bretagna e negli Stati Uniti [29].
Questa posizione fu ripetuta e anzi ulteriormente precisata nel corso del V Congresso del PCI che si tenne fra la fine del 1945 e gli inizi del 1946. Nella relazione introduttiva il segretario comunista aveva affermato infatti che se si voleva dare solide fondamenta alla democrazia in Italia le questioni da risolvere erano essenzialmente tre, e cioè la questione della monarchia, quella dei rapporti con la Chiesa e infine quella del contenuto economico che avrebbe dovuto avere il nuovo regime democratico. Per affrontare adeguatamente tali questioni era necessario pertanto approntare una Costituzione che seppellisse per sempre “un passato di conservazione sociale e di tirannide reazionaria” e la cui originalità consi-stesse nell’essere “un programma per il futuro”. In seno all’Assemblea Costituente avreb-bero dovuto perciò essere posti problemi “di rinnovamento non solo politico, ma economico e sociale”, pur non potendo pretendere, naturalmente, che tutto ciò fosse contemplato direttamente nella Costituzione, poiché in essa sarebbero dovuti entrare, invece, soltanto i principi generali, orientatori dell’attività di governo. L’obiettivo del rinnovamento poteva essere tuttavia raggiunto se l’attività strettamente costituzionale fosse stata accompagnata dalla preparazione e dall’approvazione di misure legislative che abbozzassero la soluzione delle grandi questioni economiche e sociali, cioè la questione della terra e della riforma agraria, la questione dell’industria e delle riforme industriali, le garanzie e i diritti del lavoro e infine i principi della legislazione sociale [30].
3. I diritti sociali e gli economisti
Sia la DC sia il PCI non immaginavano dunque alcuna trasposizione meccanica del piano Beveridge in Italia, ma concepivano i diritti sociali nel contesto di due distinti orizzonti ideali, costituiti, rispettivamente, dalla “societas christiana”, da un lato, e dalla “democrazia progressiva”, dall’altra. Ma qual è il terreno di incontro fra queste due opposte visioni? Il loro punto di contatto, e anzi di saldatura, è rappresentato dal convincimento che per rendere effettivi i diritti sociali non ci si poteva limitare a enunciarli genericamente, ma si doveva affermarli precisamente e dettagliatamente nella Carta costituzionale, e, oltre a ciò, bisognava fare in modo che lo Stato, il “nuovo Stato”, non il “vecchio Stato” di matrice liberale, li attuasse e quindi si assumesse la responsabilità di “guidare” l’economia. Al cospetto di questo orientamento dirigista in economia, largamente prevalente, qual è, in questo stesso periodo precostituente, la posizione dei maggiori economisti italiani? E, più in generale, cosa pensano del piano Beveridge?
A intervenire sul piano Beveridge furono economisti di vario orientamento: liberali come Luigi Einaudi e Giovanni Demaria, collaboratori di riviste azioniste come Alberto Bertolino, e cattolici come Italo Mario Sacco, Gaetano Stammati e Francesco Vito.
In assoluto, la prima importante rivista che dedicò attenzione all’opera di William Beveridge fu la “Rivista Internazionale di Scienze Sociali”, pubblicata a cura dell’Uni-versità Cattolica del Sacro Cuore di Milano e diretta da Francesco Vito.
Fin dagli inizi del 1943, cioè a distanza di pochissimo tempo da quando Beveridge aveva presentato il suo rapporto sulle assicurazioni sociali al governo britannico, la rivista iniziò a dar conto del piano Beveridge. Così, dopo una scheda informativa ad uso di coloro che non avevano potuto consultare il testo originale [31], pubblicò un’analisi più approfondita del piano, che fu svolta da Italo Mario Sacco, docente di Storia del lavoro all’Università di Torino [32]. Su tale analisi è necessario ora soffermarsi brevemente, poiché essa è riassuntiva di un sentimento al tempo stesso anticapitalista e antimaterialista; un sentimento molto diffuso nell’Italia del tempo, sia negli ambienti cattolici sia in quelli fascisti.
Sacco inquadrava il piano Beveridge sullo sfondo del nuovo scenario internazionale, dominato, da un lato, dalla lotta fra nazioni ricche e nazioni povere, e, dall’altro, dall’esistenza dell’Unione Sovietica. A suo giudizio, infatti, per affrontare adeguatamente la questione del lavoro bisognava tener conto di tre fattori storici principali.
Il primo di questi doveva ravvisarsi nella consapevolezza maturata nei popoli di “alto livello civile”, ma “poveri”, del diritto ad avere un posto nell’economia mondiale, di un “diritto al lavoro e al conseguimento del frutto totale del lavoro stesso”. Il secondo, in una analoga consapevolezza degli stati ricchi di possibili attentati ai loro privilegi di ricchezza, “da parte di popoli poveri e numerosi”. Il terzo, infine, nella presenza sulla ribalta del mondo del regime comunista dei soviet, che imponeva con forza la questione della possibilità dell’esistenza, in tempo di pace, di un sistema politico in grado di assicurare ai lavoratori l’intero frutto del loro lavoro.
In tale contesto storico, il disegno di piani come il piano Beveridge appariva fatto per “consolidare l’interesse nazionale”, e per legare il maggior numero di persone alle istituzioni che reggevano lo Stato. All’interno dello Stato doveva stabilirsi, cioè, una “intercomunione” e una “solidarietà di interessi” fra le categorie sociali, e ciò doveva avvenire in una forma tale che il sistema delle assicurazioni sociali doveva infine configurarsi come una sorta di vincolo interno paragonabile, in una certa misura, a ciò che era il metallo nelle costruzioni di cemento armato.
Definendo questo nuovo rapporto fra i cittadini e lo Stato un “rapporto contrattuale totalitario” in quanto legava i cittadini al sistema politico-economico sulla base dell’interesse a “non perdere qualche cosa”, Sacco bollava il piano Beveridge come frutto di una mentalità “contrattuale” e “materialistica”. Esso era antitetico, cioè, al concetto “ideale”, “morale” e “storico” dello Stato e comportava, in definitiva, la riduzione a “espressione cartacea della Patria [e] della Nazione”. Sulla base di questi convincimenti non stupisce, pertanto, che Sacco concludesse la sua disamina del rapporto Beveridge scrivendo che nel caso in cui fosse stato attuato esso avrebbe assicurato una condizione di privilegio per i beneficiati e, in pari tempo, avrebbe rappresentato una forma di ingiustizia per quei popoli che avrebbero dovuto sostenerne, almeno in parte, il peso.
A differenza di quel che accade nell’interpretazione del piano Beveridge data da Sacco, in cui sono rinvenibili, indiscutibilmente, eco della propaganda antibritannica, in quella fornita da Gaetano Stammati, che è, però, di tre anni successiva, prevalgono i toni dell’equilibrio e della misura. Stammati introduceva le sue note al piano Beveridge fornendo un dato di grande interesse, cioè ricordando come la prima edizione di Social Insurance and Allied Services, di 70 mila copie, fosse andata esaurita nelle prime cinque ore di vendita. Questo successo, autenticamente straordinario, era dovuto al fatto che le classi lavoratrici avevano visto nel rapporto Beveridge la possibilità di tradurre in pratica l’ideale, fino ad allora vagheggiato, della “liberazione dal bisogno”. Il piano nasceva infatti dalla consapevolezza dell’esistenza di una “dilagante miseria” e dalla volontà di com-batterla, ed era proprio questo a conferirgli un alto “sapore di umanità” e a imporlo al ri-spetto di quanti apprezzavano ogni sforzo fatto per mitigare le asprezze della fortuna avversa.
Secondo Stammati, in altre parole, Beveridge era apparso agli occhi delle masse britanniche come l’artefice di un “liberalismo nuovo”, non più soltanto giuridico e politico ma pieno di contenuto sociale. Per questa ragione, il suo nome era divenuto “sinonimo di libertà”, dunque schierarsi dalla sua parte voleva dire, in uno dei momenti più bui della storia d’Europa, essere dalla parte della libertà, del progresso e del popolo. Essere contro di lui, al contrario, equivaleva a stare dalla parte degli “spiriti reazionari e tardigradi”.
Dopo averne riconosciute le aspirazioni ideali, Stammati avanzava tuttavia seri dubbi in merito a una effettiva idoneità del piano a perseguire i suoi scopi, e non soltanto a con-seguire l’obiettivo della ridistribuzione dei redditi che si proponeva, ma anche ad “atte-nuare” o ad “accorciare” le distanze sociali. L’idea di abolire il bisogno attraverso semplici schemi assicurativi gli appariva infatti una “generosa” illusione e lasciava comunque adito a grandi perplessità [33].
Se dal campo cattolico si passa a quello liberale si vede subito come gli interventi di Luigi Einaudi e di Giovanni Demaria attestino invece una “apertura sociale” del liberali-smo, sia pure nel contesto di una riaffermazione dell’economia di mercato. Einaudi si occupò del piano Beveridge durante l’esilio in Svizzera, e lo fece nel corso delle “lezioni di politica sociale” che tenne nella primavera del 1944 all’Università di Ginevra e alla Scuola di Ingegneria di Losanna a studenti italiani iscritti nelle facoltà di giurisprudenza, di scienze economiche e di ingegneria [34].
Esaminando il rapporto redatto da William Beveridge, Einaudi affrontava subito una questione centrale, cioè si chiedeva se i piani di sicurezza sociale dovessero riguardare soltanto i lavoratori oppure tutti i cittadini indistintamente. La scelta in favore di un sistema oppure di un altro rispecchiava infatti due diversi modelli. Da una parte, vi era il modello continentale, che, conformandosi a quello bismarckiano, aveva a fondamento la “pace sociale” e quindi comportava che l’intervento dello Stato non avesse ragione di essere quando non esistevano “parti contrapposte” oppure “attriti sociali”. Dall’altra, vi era il modello britannico, che, avendo le sue origini nella legge sui poveri del 1601, non si ispirava al concetto di pace sociale ma a quello di “pace pubblica”.
Fra i due tipi, Einaudi non aveva alcuna esitazione nell’affermare la superiorità di quello britannico, sulla base della semplice considerazione che in una società non fondata su privilegi giuridici di classe, e in cui ogni uomo era giuridicamente uguale a un altro uomo, l’ideale della “pax publica” non poteva non prevalere su quello della pace sociale. Nel contesto di tale convincimento di fondo, Einaudi esprimeva la sua approvazione sia per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro, sia per l’assicurazione per le pensioni di vecchiaia.
Critico Einaudi appariva invece nei confronti di quegli articoli del piano Beveridge che prevedevano sussidi per il matrimonio e per la maternità e gli assegni familiari. Era convinto infatti che sia per il matrimonio che per la maternità non servissero tanto i contributi in denaro quanto piuttosto le cliniche dove le madri potessero trovare ospitalità e cura dopo il parto, oppure case, a buon mercato, per le nuove coppie.
Netto, e totalmente negativo, era poi il giudizio dell’economista piemontese in merito all’assicurazione contro la disoccupazione. I sussidi alle persone senza lavoro rappre-sentavano infatti ai suoi occhi uno dei fattori di “pubblico irrigidimento” che avevano reso difficile il sistema della libera concorrenza e stavano portando alla sua rovina. Erano fra gli elementi più pericolosi dell’intero sistema di assicurazioni sociali poiché non suscitavano lo stimolo del lavorare e non contribuivano in alcun modo a ridurre la disoccupazione, per risolvere la quale era necessario restituire elasticità al meccanismo dei salari e dei prezzi.
Nella sua visione del mondo, infatti, l’elargizione di un dono non produceva “gratitudine” ma “recriminazioni per l’insufficienza di esso”. Dopo qualche tempo, si sa-rebbe dimenticata la premessa fondamentale del sistema e cioè che la “pensione uni-versale” non doveva essere altro che un punto di partenza e si sarebbe avanzata la pretesa che essa costituisse, per i più, il punto d’arrivo, “crescendo a dismisura lo stimolo all’ozio”. Pessimisticamente, Einaudi riteneva che sarebbe stato difficile rifiutare dopo il “panem” i “circenses”. E, proprio per questo, concludeva la sua disamina del rapporto Beveridge richiamando la caduta di Roma, avvenuta, scriveva, non già per i colpi dei barbari ma per la corruzione interna, riassunta appunto nelle immortali parole panem et circenses.
Dopo Einaudi, a intervenire nel dibattito suscitato dal piano Beveridge vi fu, come già accennato in precedenza, Giovanni Demaria, che con Einaudi, Epicarmo Corbino e Gusta-vo Del Vecchio, faceva parte della piccola ma agguerrita pattuglia di economisti liberisti per i quali la libertà politica era inscindibile dalla libertà d’iniziativa. Nella nuova serie del “Giornale degli economisti e annali di economia”, la rivista dell’Università Bocconi che dirigeva e nel cui comitato direttivo figuravano Rodolfo Benini, Costantino Bresciani-Turroni, Gustavo Del Vecchio e Giuseppe Ugo Papi, Demaria pubblicò un articolo sull’avvento dello stato sociale moderno [35].
In esso, Demaria passava in rassegna lo sviluppo storico dello Stato a partire dall’epoca immediatamente successiva alla civiltà greco-romana, e notava che lo Stato democratico-borghese aveva sì messo fine all’antico regime, assicurando “parità di diritti e uguaglianza di giurisdizione”, ma non ne aveva tuttavia garantito l’effettivo esercizio. E ciò perché gli individui non disponevano dei “medesimi punti di partenza culturali e sociali”. Affermando l’ideale della libertà, lo stato democratico borghese aveva trascurato quasi totalmente la “vera uguaglianza”. Incapace di risolvere il massimo problema sociale del tempo, vale a dire quello della legislazione sociale, lo Stato democratico-borghese aveva favorito l’insorgere delle reazioni antidemocratiche, che erano state, da un lato, di tipo nazionalista, dall’altro, di tipo classista.
In considerazione di ciò, pertanto, Demaria riteneva fosse necessario pervenire a qualcosa di nuovo e di originale che consisteva, a suo giudizio, nell’avvento dello “Stato sociale moderno”, che non era quello di Rousseau né dei socialisti ortodossi, ma si basava sul “volere sociale migliore”. Che cosa era il “volere sociale migliore“? L’aspirazione a una società più giusta, ma un’aspirazione sorretta da un forte principio di realtà. E cioè dalla consapevolezza dell’alto grado di complessità esistente nel mondo del secondo dopoguerra. Tale consapevolezza comportava che non si potessero imputare ai singoli le conseguenze delle crisi economiche e della disoccupazione, e che fosse inevitabile, pertanto, “il solidarismo sociale con il più ampio sviluppo dei servizi pubblici”. Ma implicava altresì il riconoscimento che gli individui avevano taluni diritti naturali, taluni diritti inalienabili che non potevano essere subordinati alla sovranità altrui e di enti. A giudizio di Demaria, insomma, un “totale solidarismo livellatore” era impossibile, poiché nessuna legge avrebbe potuto eliminare, tanto sul piano sociale che su quello politico, gli individui con spiccate attitudini e capacità, gli uomini “creativi”, “abili” ed “energici” dai quali, inevitabilmente, si sarebbero riprodotte le disuguaglianze economiche e sociali.
Un altro studioso che si occupò della “politica economica moderna” secondo William Beveridge fu Alberto Bertolino, poi redattore de “Il Ponte” di Calamandrei, e lo fece in alcuni articoli apparsi sul “Corriere del Mattino” di Firenze fra il gennaio e il marzo del 1945 [36]. Esaminandoli, si capisce fin da una prima occhiata come essi si collochino lungo una linea di pensiero che potremmo definire antiliberista sul piano economico e solidarista, in senso lato, su quello sociale.
Secondo Bertolino, infatti, lo Stato poteva essere considerato davvero “l’organizzazione della totalità sociale”, e non un “potere di difesa dei privilegi di una classe”, soltanto nel momento in cui avesse dimostrato di essere capace di assumersi “la responsabilità delle condizioni di tutti i cittadini”. Al contrario, non poteva certo dirsi Stato, “nel senso moderno”, allorché avesse lasciato “avvilire nella disoccupazione e morire d’inedia tanta parte della sua popolazione”. Nel contesto di questo orientamento di fondo, Bertolino definiva l’ideale beveridgiano, che, scriveva, ambiva a conciliare le esigenze sociali con la libertà individuale. Quindi richiamava, facendola propria, la distinzione di Beveridge fra libertà essenziali e libertà secondarie. Le prime, che comprendevano la libertà di parola, di culto, di associazione, di riunione, di stampa, di insegnamento, di studio, di scelta occupazionale e di consumo, dovevano essere salvaguardate a ogni costo. Le seconde, invece, includevano tutte quelle altre facoltà che concorrevano alla realizzazione della giustizia sociale. Queste ultime erano libertà strumentali e valide soltanto sto-ricamente, dunque era un “atto liberale” sopprimerle nel caso in cui contrastassero con la giustizia. Ad esempio, poiché molti uomini d’affari si erano avvalsi arbitrariamente della libertà d’impresa, senza alcun riguardo ai bisogni degli altri, l’autore si chiedeva, in chiave retorica, se si poteva aver rispetto di “codesta libertà secondaria”.
Su posizioni in qualche modo vicine a quelle di Bertolino, quindi fondamentalmente anticapitaliste, troviamo Benedetto Fenzi, che ebbe il merito di far conoscere a un pubblico più largo i progetti di William Beveridge, e lo fece pubblicando nel 1945 un libro intitolato Il piano Beveridge [37]. Di tale piano, l’autore dava un giudizio positivo e lo collocava all’a-vanguardia di tutti i programmi di legislazione sociale mai concepiti.
Il piano Beveridge accorciava le distanze sociali, ma certo, a giudizio di Fenzi, non assicurava a tutti l’uguaglianza dei punti di partenza né dava la possibilità di passare dal campo degli operai a quello dei capitalisti. Più semplicemente, migliorava le posizioni di coloro che erano stati meno favoriti dalla sorte. Frutto della cultura britannica, esso non apportava alcuna modificazione di fondo ai principi su cui si fondava la vita economica della comunità britannica. Purtuttavia, costituiva una dimostrazione pratica del fatto che in Inghilterra, e cioè nella “roccaforte del capitalismo”, stavano prendendo consistenza e si stavano affermando “coraggiosamente idee e progetti di solidarietà sociale” in contrasto con quelli che erano stati fino ad allora “i dogmi della tradizione economica e politica”.
4. Il dibattito sullo Stato sociale all’Assemblea Costituente
A questo punto, non resta che vedere quale forma assume nel dibattito costituente questo complesso magmatico di motivi, idee e orientamenti in materia di sicurezza sociale [38]. Preliminarmente, però, è necessario richiamare due importanti iniziative, l’i-stituzione della “Commissione per lo studio dei problemi del lavoro” nel 1946 e quella della “Commissione per la riforma della previdenza sociale” nel 1947. La prima fu costituita su proposta del Ministro per la Costituente, Pietro Nenni, il 10 gennaio 1946 e fu presieduta dal comunista Antonio Pesenti [39]. La seconda invece fu creata su proposta del Ministro del Lavoro, Giuseppe Romita, nell’aprile del 1947, ma fu nominata da Amintore Fanfani, che succedette a Romita, nel luglio del 1947 e fu presieduta dal socialista Ludovico D’Aragona [40].
Entrambe le Commissioni si ricollegavano esplicitamente allo storico modello della Commissione istituita da Greenwood nel 1941, ma pur muovendosi nella prospettiva disegnata da Beveridge non ne condividevano il principio universalistico di fondo. Nel delineare la “comunità di rischio” che avrebbe dovuto beneficiare del sistema di sicurezza sociale, venne esplicitamente riconosciuto, in verità, che si andava sempre più affermando l’orientamento che l’assicurazione sociale avrebbe dovuto avere un carattere generale, cioè essere estesa a tutta la popolazione, “senza escluderne quanti si [ritenevano] in grado di provvedere direttamente a se stessi”. Tuttavia, tale riconoscimento non portò né la Commissione Pesenti né la Commissione D’Aragona ad accogliere l’idea di istituire un sistema universalistico pieno, senza esclusioni di sorta.
La scelta di un modello che escludeva l’onni-inclusività si spiega con due motivazioni di fondo. La prima è di natura economica, la seconda invece è ideologica. Un sistema previdenziale “pieno”, cioè esteso a tutti i cittadini indistintamente, venne scartato innanzitutto per gli eccessivi oneri finanziari che avrebbe comportato per la devastata economia del Paese. Ma, soprattutto, venne rifiutato in nome del principio che non fosse opportuno provvedere anche ai bisogni di quei cittadini “che non ritrae[vano] dal proprio lavoro il proprio reddito” [41]. Questa opzione in favore dell’”esclusione” piuttosto che dell’”inclusione” è perfettamente comprensibile se si tiene conto, da un lato, del peso della tradizione storica, dall’altro, degli orientamenti dei principali partiti politici [42].
L’avversione nei confronti di un sistema di previdenza allargato a tutti i cittadini si spiega in primo luogo con la tradizione previdenziale italiana, di chiara derivazione bismarckiana, incentrata sul rapporto fra protezione sociale e posizione occupazionale. E si deve poi al fatto che, come abbiamo visto, i maggiori partiti politici italiani concepivano la nuova Repubblica democratica come il sistema che avrebbe infine dischiuso l’era della “civiltà del lavoro”. Il lavoro, cioè, come vedremo meglio più avanti, allorché prenderemo in esame il dibattito costituente, veniva considerato il fondamento del nuovo Stato repubblicano.
E così, mentre si esaltava a dismisura l’ideale della solidarietà, nel medesimo tempo si escludevano dagli istituti previdenziali talune categorie di cittadini. Ma tale esclusione non appariva per nulla in contrasto con l’ideologia solidaristica perché avrebbe riguardato figure in certo senso, in vario modo e a vario titolo antisociali.
Secondo le valutazioni di Coppini, Emanuelli e Petrilli, la troika di “attuari” chiamati in qualità di esperti a valutare il costo della riforma che avrebbe comportato il Piano D’Aragona, sarebbero rimaste escluse dalla previdenza in via permanente poche centinaia di migliaia di persone, cioè coloro che traevano “il proprio reddito da beni di fortuna (capitalisti, agiati, redditieri)”, e coloro che si trovavano in situazioni particolari, “mendicanti, prostitute e detenuti”. Stando ai calcoli, al 1950 non avrebbero beneficiato della previdenza un milione di persone circa, composto per la massima parte proprio dai “capitalisti e dalle loro famiglie” [43].
In ogni caso, sia le raccomandazioni formulate dalla “Commissione Pesenti”, sia quelle della “Commissione D’Aragona”, non ebbero un seguito legislativo, ma contri-buirono per la loro parte a influenzare il dibattito costituente.
I temi collegati in varie forme allo Stato sociale vennero affrontati nel corso del processo costituente all’interno della “Prima Sottocommissione”, che doveva occuparsi dei “diritti e doveri dei cittadini”, e all’interno della “Terza Sottocommisione”, che doveva definire, invece, i “diritti e doveri economico-sociali” [44].
Dal dibattito in tali Commissioni affiorano gli elementi costitutivi della “filosofia sociale” che avrebbe poi pervaso la Costituzione italiana. E comunque tale filosofia e-merge con chiarezza già dallo schema di progetto elaborato dalla Terza Sotto-commissione. In esso, in particolare, si riconosceva il “diritto al lavoro” per tutti i cittadini e il diritto del lavoratore ad avere i mezzi necessari alla vita nel caso in cui fosse stato “inabile al lavoro”; inoltre, si introduceva il diritto all’esproprio e si richiedeva l’abolizione del latifondo.
Oltre che nella “Terza Sottocommissione”, la questione dei “diritti sociali” e del “piano economico” necessario per garantirli venne affrontata nella “Prima sottocommissione”, dove si svolsero “singolari giochi di squadra” fra Giuseppe Dossetti e Palmiro Togliatti [45]. L’accordo fra i due, in ogni caso, appare in tutta evidenza se si considera il modo in cui Togliatti introdusse la discussione sul tema dei “principî dei rapporti sociali”. Il leader comunista sottolineò infatti due cose: la prima era che il nuovo Stato doveva pervenire “ad una legislazione sociale che preved[esse] il diritto per tutti i cittadini ad una assicurazione sociale”. La seconda, invece, che lo Stato, allo scopo di garantire il diritto al lavoro di tutti i cittadini, sarebbe dovuto intervenire per coordinare e dirigere l’attività produttiva dei singoli e di tutta la Nazione, “secondo un piano di massimo rendimento per la collettività”.
Questi orientamenti, largamente prevalenti, furono contrastati, nel dibattito in Assemblea, da Nitti, Einaudi e Corbino. E il “compromesso costituente” che si realizzò determinò una Carta costituzionale in cui prevalse una linea economica latamente intermedia fra tre orientamenti diversi, quello cattolico, quello marxista e quello liberale [46]. Ma se si guarda più analiticamente agli articoli dei “Principi fondamentali”, del “Titolo II” relativo ai “Rapporti etico-sociali”, e del “Titolo III” relativo ai “Rapporti economici”, che definiscono la filosofia sociale della Carta e che possono essere quindi assunti come fondamenti dello Stato sociale repubblicano, si vede come essi disegnino un modello di Stato sociale che ha nella “democrazia dei lavoratori” il suo orizzonte ideologico di riferimento.
La titolarità dei diritti sociali viene infatti riconosciuta non a tutti i cittadini indi-scriminatamente ma principalmente ai lavoratori, sia pure certo non solo ai lavoratori. Questa concezione della protezione sociale, fondata sull’ideale della “civiltà del lavoro” invece che su quello della “cittadinanza democratica”, appare chiaramente anche dalla netta distinzione che si può rinvenire nella Carta fra il diritto alla previdenza sociale per i lavoratori e il diritto all’assistenza sociale per tutti i cittadini.
Mentre infatti il primo, e cioè il diritto del lavoratore a ricevere una serie di prestazioni adeguate ai bisogni della vita tramite le assicurazioni è precisato in maniera molto dettagliata, il secondo invece, cioè il diritto del “cittadino inabile” al mantenimento è molto più generico.
Una volta riconosciuto, con l’art. 4, “a tutti i cittadini il diritto al lavoro” e la promozione delle “condizioni che rendano effettivo questo diritto” [47], con una formulazione che evoca chiaramente un’idea di piano, di disciplinamento dell’economia da parte dello Stato per rendere effettivo tale diritto, sono molti altri gli articoli della Costituzione che riconoscono i diritti sociali dei lavoratori (artt. 35, 36, 37).
In particolare l’art.38 precisa con molta chiarezza, nella seconda parte, le forme di previdenza e quindi afferma che i lavoratori “hanno diritto che siano preveduti e assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria”. Viceversa, nella prima parte si parla della forma di assistenza e, in questo caso, l’articolo è molto più vago. Il diritto al “mantenimento e all’assistenza sociale” è riconosciuto, infatti, molto genericamente, a ogni “cittadino inabile al lavoro”, purché, naturalmente, “sprovvisto di mezzi necessari per vivere” [48].
Nel contesto di un più generale pregiudizio verso ogni forma di ricchezza o di pro-prietà non prodotta dal lavoro, ben identificabile, del resto, nella seconda parte dell’art. 4 in cui si dice che “ogni cittadino ha il dovere di svolgere (…) un’attività o una funzione che concorra al progresso spirituale della società”, i costituenti sembravano indifferenti o co-munque tiepidi nei confronti dei “cittadini non lavoratori”. Quindi non potevano riconoscere in modo chiaro e inequivocabile l’assistenza sanitaria a tutti i cittadini indistintamente. E infatti l’articolo 32, il quale recita, molto genericamente, che la Repubblica “tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”, è stato oggetto di grandi dispute fra i giuristi [49]. L’impiego del termine “individuo”, anziché “cittadino”, e il fatto che le cure fossero riservate solo agli indigenti, ha fatto esprimere molti dubbi a taluni costituzionalisti sul fatto che l’assistenza sanitaria dovesse intendersi in chiave universalistica.
In conclusione, per un incredibile paradosso, lo Stato sociale che si afferma nel secondo dopoguerra in tutto il mondo occidentale per allargare l’”area della cittadinanza”, nel nostro Paese la restringe [50]. Invece che avere un carattere “inclusivo”, lo Stato sociale all’italiana lo ha “esclusivo”, poiché non riconosce i diritti sociali a tutti i cittadini indistintamente ma soltanto ai lavoratori.

NOTE
1- Si confronti in proposito, J. Harris, William Beveridge. A Biography, Oxford, Clarendon Press, 1997, p.452.
2- Nel testo si farà spesso riferimento al piano Beveridge, intendendo, naturalmente, il piano Beveridge n.1, poiché nel 1944 Beveridge presentò un secondo rapporto, cioè Full Employment in a Free Society. Il rapporto fu tradotto in italiano nel 1948 da Paolo Baffi e Felice Di Falco, e fu pubblicato da Einaudi con il titolo Relazione su l’impiego integrale del lavoro in una società libera.
3- Soltanto recentemente è stata pubblicata in Italia una traduzione di Social Insurance and Allied Services, ma si tratta di una versione parziale, relativa alla prima parte, concernente cioè 39 paragrafi su 461, e fondamentalmente inadeguata per capire l’impianto universalistico del piano Beveridge, che affiora, invece, soprattutto dalla parte quinta. Cfr. Solidarietà, equità e qualità. In difesa di un nuovo Welfare in Italia. Con lo scritto di Sir William Beveridge, Social Insurance and Allied Services, Milano, Franco Angeli, 1995, pp. 15-48. A ciò si aggiunga il fatto che negli studi di coloro che si sono occupati, da noi, della questione, siano essi scienziati politici e dell’amministrazione, sociologi economici o storici dell’economia, si trovano sul piano Beveridge, quando si trovano, informazioni sparute, scarne e comunque sempre di seconda mano. Si vedano, ad esempio, I piani di sviluppo in Italia dal 1945 al 1960. Studi in memoria del Prof. Jacopo Mazzei, Milano, Giuffré, 1960, pp. 123, 132; P. Barucci, Introduzione a P. Saraceno, Ricostruzione e pianificazione 1943/1948, Bari, Laterza, 1969, p. 27; Id., Ricostruzione, programmazione, Mezzogiorno. La politica economica in Italia dal 1943 al 1955, Bologna, il Mulino, 1978, pp. 32, 64; L’economia italiana dal 1945 ad oggi, a cura di A. Graziani, Bologna, il Mulino, 1979 (I ed. 1972); La cultura economica nel periodo della ricostruzione, a cura di G. MORI, Bologna, il Mulino, 1980; V. Zamagni, Lo Stato italiano e l’economia. Storia dell’intervento pubblico dall’unificazione ai giorni nostri, Firenze, Le Monnier, 1981, p. 101; G. Gualerni, Lo Stato industriale in Italia 1890-1940, Milano, ETAS, 1982; Welfare State all’italiana, a cura di U. Ascoli, Roma-Bari, Laterza, 1984, pp. 298, 305, 321, 324; M. Ferrera, Il Welfare State in Italia. Sviluppo e crisi in prospettiva comparata, Bologna, il Mulino, 1984, pp. 26, 37, 88, 277; T. Fanfani, Scelte politiche e fatti economici nel quarantennio repubblicano, Torino, Giappichelli, 1987; V. Zamagni, Dalla periferia al centro. La seconda rinascita economica dell’Italia 1861-1981, Bologna, il Mulino, 1990, pp. 397-400; M. Ferrera, Modelli di solidarietà. Politica e riforme sociali nelle democrazie, Bologna, il Mulino, 1993, pp. 23, 44, 58, 93, 159-161, 171-172, 219, 236-237; L’Italia della ricostruzione. Con una selezione di documenti dell’Archivio Confindustria 1945 – 1950, Roma, SIPI, 1994, p. 29; V. Castronovo, Storia economica d’Italia. Dall’Ottocento ai giorni nostri, Torino, Einaudi, 1995, pp. 356-357, 395; Disuguaglianza e stato sociale. Riflessioni sulla crisi del Welfare italiano, a cura di E. Barocci, Roma, Donzelli, 1996, pp. XVI, XXIII, 107; L. Gaeta – A. Viscomi, L’Italia e lo stato sociale, in G. A. Ritter, Storia dello stato sociale, Roma-Bari, Laterza, 1996, pp. 227-276 (ed. or. Der Sozialstaat. Entstehung und Entwicklung im internationalen Vergleich, München, R. Oldenbourg, 1991); A. Barbieri, Lo stato sociale in Francia dalle origini alla seconda guerra mondiale, Roma, Donzelli, 1999.
4- L’edizione qui utilizzata è il “riassunto ufficiale” del “piano” edito per conto del governo britannico. Si tratta cioè di un compendio che, come si legge nella Presentazione, conservava tutte le parti che potevano interessare anche lettori non inglesi mentre ometteva talune sezioni accessorie riguardanti aspetti esclusivamente britannici. Cfr. Il Piano Beveridge. La relazione di Sir William Beveridge al governo britannico sulla protezione sociale. Riassunto ufficiale, Londra, Percy Lund. Humphries and Co., “Presso la Stamperia Reale”, 1944 (I ed. 1943).
5- Ibid., p.11.
6- Ibid., p.63.
7- Ibid., pp. 21-22, 64-70.
8- Cfr. J. Harris, William Beveridge…, cit., p. 415.
9- W.H. Beveridge, The Pillars of Security and other War-time Essays and Addresses, London, George Allen and Unwin, 1943, p. 203.
10- J. Harris, William Beveridge…, cit., p. 416.
11- Cfr. Il piano Beveridge. La relazione di Sir William Beveridge al governo britannico sulla protezione sociale…, cit., p. 113.
12- J. Harris, William Beveridge…, cit., p. 416.
13- Ibid., p. 415.
14- G. Barraclough, Il mondo inglese e la questione europea, in Correnti ideali e forze politiche in Europa, a cura di P.Pombeni, Bologna, il Mulino, 1979, p. 342; L. Cafagna, La grande slavina. L’Italia verso la crisi della democrazia, Venezia, Marsilio, 1993, pp. 23-24; G.A. Ritter, Storia dello Stato sociale, …, cit., p. 143; J. Harris, William Beveridge, …, cit., p. 452.
15- A partire dagli scritti sulla legislazione sociale di Cavour e Petitti di Roreto, apparsi intorno al 1850, l’Italia, come osservava Luigi Einaudi nel 1944, aveva percorso un notevole cammino su questa via e dunque, secondo l’economista piemontese, l’opera futura in questo campo avrebbe dovuto essere non di creazione dal nulla ma “di riforma, di integrazione e di perfezionamento”. Cfr. L. Einaudi, Lezioni di politica sociale, Torino, Einaudi, 1965, (I ed. 1964), p. 78.
16- Cfr. Note e dibattiti. Sicurezza sociale, in “Rivista degli Infortuni e delle Malattie Professionali”, 1945, Anno XXXII, Serie VI, 3, p. 331.
17- Cfr. La crisi e la ricostruzione post-bellica, in Sintesi storica della previdenza sociale in Italia e dei suoi progetti di riforma, Appendice A di Le pronunce del CNEL in trent’anni di attività 1958-1987, a cura del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro, Roma, 1990, pp. 558-559.
18- Sull’interesse suscitato dal piano Beveridge in Italia si veda anche F. Mazzini, Il sistema previdenziale in Italia fra riforma e conservazione: gli anni della Costituente, in Amministrazione pubblica e istituzioni finanziarie. Tra Assemblea Costituente e politica della ricostruzione, a cura di A. Orsi Battaglini, Bologna, il Mulino, 1980, p. 448.
19- Il decreto fu pubblicato in “Gazzetta Ufficiale – Serie Speciale”, 29 aprile 1944, 23. È riprodotto in Raccolta Ufficiale delle Leggi e dei Decreti del Regno d’Italia, Volume I, Fascicolo I, Roma, Libreria dello Stato, 1944, pp. 260-262.
20- Il decreto di riforma fu pubblicato in “Gazzetta Ufficiale – Serie Speciale”, 25 novembre 1944, 86. È ristampato in Raccolta Ufficiale delle Leggi e dei Decreti del Regno d’Italia, 1944, cit., pp. 901-904.
21- Il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri istitutivo della Commissione per la riforma della previdenza sociale uscì sulla “Gazzetta Ufficiale” del 9 giugno 1945, 69. È ripubblicato in “Rivista degli Infortuni e delle Malattie Professionali”, 1945, Anno XXXII, Serie VI, 2, pp. 204-205.
22- E. Cabibbo, I partiti politici e la previdenza sociale in Italia, in “Rivista degli Infortuni e delle Malattie Professionali”, gennaio-dicembre 1944, Anno XXXI, Serie VI, pp. 13-48. Nello stesso numero della rivista, si veda anche Le assicurazioni sociali compresa l‘assicurazione contro gli infortuni sul lavoro. (Guida breve al piano del governo britannico a cura del Ministero per la Ricostruzione), pp. 173-200.
23- Ibid., p. 47.
24- Su questi aspetti, si veda V. Perego, Il nodo organicismo-pluralismo nel pensiero politico dei cattolici, in Le idee costituzionali della Resistenza. Atti del Convegno di Studi: Roma, 19, 20 e 21 Ottobre 1995, a cura di C. Franceschini – S. Guerrieri – G. Monina, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento per l’informazione e l’editoria, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 1997, pp. 163, 168.
25- G. Bognetti, La Costituzione economica italiana, Milano, Giuffrè, 1995, p. 12.
26- Si veda, su questi temi, N. Antonetti, Dottrine politiche e dottrine giuridiche. I cattolici democratici e i problemi costituzionali (1943-1946), in I cattolici democratici e la Costituzione, a cura di N. Antonetti – U. De Siervo – F. Malgeri, Bologna, il Mulino, 1998, Tomo I, pp. 156-157, 155.
27- Cfr. Per la comunità cristiana. Principi dell’ordinamento sociale a cura di un gruppo di studiosi amici di Camaldoli, in “Civitas”, gennaio-febbraio 1982, Nuova Serie, Anno XXXIII, pp. 63-156. I primi venti articoli sono riprodotti in I cattolici democratici e la Costituzione, Tomo I, …, cit., pp. 261-274.
28- Cfr. Costituzione e Costituente. Atti della XIX Settimana sociale dei cattolici d’Italia, Firenze 22-28 Ottobre 1945, Roma, Edizioni ICAS A.R.C.E., 1946. Alcuni degli interventi principali pronunciati in quella circostanza sono ripubblicati in I cattolici democratici e la Costituzione, …, cit., Tomo II, pp. 517-628.
29- Cfr. S. Bartolozzi Batignani, La programmazione, in La cultura economica nel periodo della ricostruzione, …, cit., pp. 112-117.
30- La relazione di Togliatti è riprodotta in Storia del PCI attraverso i congressi, a cura di A. Cecchi, Roma, Newton Compton, 1977, pp. 18-67, in particolare pp. 41, 52, 55.
31- Cfr. Cenni sul piano Beveridge, in “Rivista Internazionale di Scienze Sociali”, 1943, Anno LI, Serie III, Vol. XIV, pp. 178-179.
32- I.M. Sacco, Considerazioni intorno al piano “Beveridge”, in “Rivista Internazionale di Scienze Sociali”, …, cit., pp. 234-240.
33- G. Stammati, Note ai piani Beveridge per la sicurezza sociale e per la piena occupazione, in “Rivista Internazionale di Scienze Sociali”, 1946, Anno LIV, Serie III, Vol. XVII, II, pp. 139-146.
34- L. Einaudi, Lezioni di politica sociale, cit., pp. 82-120. Del piano Beveridge, inoltre, Einaudi parla nel “Diario”: cfr. L. Einaudi, Diario dell’esilio 1943-1944, Torino, Einaudi, 1997, p. 71.
35- G. Demaria, Verso l’avvento dello stato sociale moderno, in “Giornale degli Economisti e Annali di Economia”, gennaio-febbraio 1943 – gennaio-febbraio 1946, Anno V (Nuova Serie), 1-2, pp. 25-35.
36- Gli articoli, unitamente al testo di una conferenza su Beveridge, tenuta all’Università Popolare di Firenze nella primavera del 1945, vennero ripubblicati in A.Bertolino, Esplorazioni nella storia del pensiero economico, Firenze, La Nuova Italia, 1950, pp. 399-412.
37- B. Fenzi, Il Piano Beveridge, Roma, Edizioni Roma, 1945, in particolare pp. 21, 45, 51, 55.
38- Questo passaggio è in un certo senso naturale. Infatti, come ha osservato Paolo Pombeni, “gran parte del dibattito sulla prima parte della nostra Carta costituzionale è stato dedicato proprio all’inserzione, in forma di norma giuridica, [della] obbligazione dello Stato alla promozione del benessere sociale”; P. Pombeni, Prefazione a G.A. Ritter, Storia dello Stato sociale, …, cit., p.XII.
39- Cfr. Ministero per la Costituente, Atti della Commissione per lo studio dei problemi del lavoro, I: Relazioni – Questionari – Interrogatori – Inchieste; II: L’ordinamento del lavoro nella legislazione comparata, Roma, Stabilimento Tipografico U.E.S.I.S.A., 1946.
40- Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale, Commissione per la riforma della previdenza sociale, Relazione sui lavori della Commissione (4 Luglio 1947 – 29 Febbraio 1948), Roma, Tipografia A.T.E.L., 1948.
41- Ibid., p. 6.
42- Su questo si veda anche M. Ferrera, Modelli di solidarietà. Politica e riforme sociali nelle democrazie, …, cit., p. 237.
43- M.A. Coppini – F. Emanuelli – G. Petrilli, Il costo della riforma della previdenza sociale, (secondo le proposte della commissione governativa), in “Rivista degli infortuni e delle malattie professionali”, 1948, Anno XXXV, Serie VI, 3-4, pp. 367-445.
44- Sulla Commissione per la Costituzione e sull’organizzazione dei lavori delle sottocommissioni si veda P. Pombeni, La Costituente. Un problema storico-politico, Bologna, il Mulino, 1995; in particolare, il capitolo quarto, Una certa idea di Costituzione, e le pp. 105-107.
45- Si veda, in proposito, A. Melloni, L’utopia come utopia, in G. Dossetti, La ricerca costituente 1945-1952, a cura di A. Melloni, Bologna, il Mulino, 1994, p. 37.
46- Cfr. P. Barucci, Economisti alla Costituente, in La cultura economica nel periodo della ricostruzione, …, cit., pp. 47, 54.
47- Cfr. Costituzione Italiana, Torino, Einaudi, 1975, p. 3.
48- Ibid., p. 11.
49- Ibid., p. 9.
50- Sull’importanza dei diritti sociali in funzione dell’allargamento dell’area della cittadinanza si veda T.H. Marshall, Sociology at the Crossroad, Heinemann 1963 (trad. it. Cittadinanza e classe sociale, Torino, UTET, 1976).