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Andrea Rossi

Istituto di Storia contemporanea, Ferrara
8 settembre 1943 – 15 ottobre 1944: italiani e ungheresi di fronte all’armistizio. Le fedeltà e le infedeltà nelle forze armate dopo il disimpegno dall’Asse

Se il tema del comportamento delle nostre forze armate successivamente alla dichiarazione di armistizio dell’8 settembre 1943 è stato in gran parte sviscerato nei suoi contenuti, manca a tutt’oggi uno studio militare comparativo fra questo evento ed altri simili che avvennero nel corso del secondo conflitto mondiale, quantomeno nello scacchiere bellico europeo. Un caso che presenta impressionanti analogie (ed interessanti divergenze) è quello dell’armistizio ungherese del 15 ottobre 1944, soprattutto perché porta a riflettere in termini più ampi sulla categoria della “collaborazione” in ambito militare.

Soffermandoci a grandi linee sulle note vicende successive all’8 settembre in Italia, dei circa tre milioni di militari alle armi (cifra sconcertante, ma confermata anche di recente da Giorgio Rochat), più o meno due milioni riuscirono a rientrare alle proprie case, 800.000 dopo aver tentato resistenze più o meno accanite (o nulle) furono internati in Germania (divenuti dopo varie scremature circa 700.000), 100.000 fuggirono poco dopo il disarmo e la cattura, 90/100.000 restarono fedeli all’alleanza con il Reich, secondo le parole dell’alto comando della Wehrmacht; si trattava di reparti “ribelli agli ordini del governo legittimo” utilizzando la definizione presente nel decreto luogotenenziale del luglio 1944 che sanciva le sanzioni per i collaboratori italiani: la maggior parte di questi faceva parte della MVSN, forza armata del tutto ammutinata, in cui il giuramento a Mussolini fece premio su quello al re.

Il caso ungherese, come detto presenta diversi motivi di interesse: il paese magiaro nel marzo 1944 subì un’occupazione “morbida” della Wehrmacht, accettata supinamente dal reggente Miklos Horthy, il quale, esattamente come il pressoché coetaneo Pietro Badoglio nell’estate 1943, evitò di opporsi all’arrivo di decine di divisioni tedesche, che si andarono a posizionare attorno alla capitale e nelle principali città ungheresi.

La dichiarazione di armistizio fu emanata in modo altrettanto maldestro e sciagurato, ossia per radio, nel pomeriggio del 15 ottobre 1944, senza alcuna preventiva informazione allo stato maggiore dell’esercito. Come in Italia la Wehrmacht prese in contropiede il governo, occupando senza colpo ferire la capitale ed i principali centri di potere e arrestando lo stesso Horthy, che a differenza del re e di Badoglio, non ebbe il tempo di mettersi al sicuro. Da questo momento, però, si rilevano sostanziali differenze dal caso italiano. L’Honved (l’esercito magiaro) non si sbandò, anzi, a partire dallo stato maggiore fino ai comandi delle divisioni, la maggior parte delle forze armate restò fedele in senso “collaborazionista” al governo fantoccio di Ferenc Szalasi e delle sue croci frecciate.

I pochi alti ufficiali leali all’ex reggente vennero internati; gli altri, ossia la larghissima maggioranza, iniziarono a prendere ordini direttamente dai tedeschi (esattamente come Graziani ed i suoi generali) per fronteggiare l’Armata rossa ormai alle porte di Budapest. Similmente a quanto avvenne con la RSI, i nazisti comunque si fidavano assai poco degli alleati-occupati, tanto che alcune nuove divisioni ungheresi (due dell’Honved e due delle SS) furono addestrate in Germania nell’inverno 1944-45, esattamente come avvenne con le divisioni di Salò “Monterosa”, “San Marco”, “Italia”, “Littorio”. Tutti questi reparti combatterono i russi in modo assai più accanito di quanto non fecero quelli di Salò con gli anglo americani, anche perché (altro importante dettaglio) in Ungheria la resistenza armata antinazista fu sostanzialmente insignificante. Nel gennaio 1945 la cittadina di Szombately divenne una sorta di Salò, dopo lo sgombero forzato della capitale sotto assedio; il governo collaborazionista e molta parte delle forze armate magiare si arresero poi in territorio austriaco ai primi di maggio del 1945. Szalasi, il suo governo e diversi alti esponenti delle forze armate, anche se in mano inglese, furono restituiti al governo ungherese, che li giustiziò dopo un processo sommario nel 1946.

Dopo la caduta del comunismo, l’atteggiamento della storiografia magiara appare in gran parte indulgente nei confronti del collaborazionismo, almeno dal lato militare, in quanto il tema dell’opposizione agli occupanti sovietici ha fatto premio sull’analisi critica di ciò che questa decisione in senso pro-nazista significò, ossia soprattutto lo sterminio di centinaia di migliaia di componenti della comunità ebraica ungherese.