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Ascesa e declino dell’orientalismo scientifico in Italia

la scuola islamistica romana fra Otto e Novecento

[versione provvisoria, da non citare senza autorizzazione]

Bruna Soravia
Università de Lyon 2 – Roma

Il Mondo visto dall’Italia Convegno della Sissco

Milano, Università cattolica, 19-21 settembre 2002

Mia presentazione: ho accumulato materiale sulla scuola romana per le voci corrispondenti del Dizionario Biografico degli Italiani; difficoltà d’identificazione delle fonti (necrologi, con i problemi che comportano, rassegne degli studi, prefazioni di opere). Una storia orale, forse possibile fino agli anni Ottanta del secolo passato, resa definitivamente impossibile dalla scomparsa di Francesco Gabrieli, ultimo rappresentante di questa scuola, testimone (è morto a 92 anni) di tutta la sua parabola storica.
Interesse del tema: ricostruzione di un gruppo intellettuale compatto, legato da rapporti di filiazione genetica (i due Guidi, i due Gabrieli) e intellettuale, la cui ascesa e influenza nelle istituzioni scientifiche italiane si lega indissolubilmente a un’epoca definita della storia nazionale (espansione coloniale postunitaria e fascista), che è travolto dalla fine di quest’epoca, ma anche dal declino del paradigma scientifico e dell’ideale di ricerca perseguiti (è la contestazione studentesca che ne segna la definitiva estinzione).
I problemi posti:

  • sviluppo di una ricerca “orientalistica” (in senso generale) laica nell’Italia post-unitaria
  • caratteri intellettuali (provenienza, interessi, ideali) della scuola orientalistica (islamistica) romana
  • come e perché giunge a essere coinvolta nella politica coloniale italiana
  • rapporti col fascismo: chi resta e chi parte
  • l’eredità: continuità e discontinuità

La nascita dell’orientalismo “scientifico” (secondo Said, non apologetico né dilettantesco) in Italia è una storia di grandi personalità (come spesso avviene all’inizio di una tradizione scientifica) alle quali è offerta la possibilità di formare ex-novo un paradigma di ricerca, di imporre i propri standard, di reclutare i migliori studenti. Per i motivi che saranno detti, questo sarà possibile soprattutto a Roma, dove, fra la fine del XIX e il primo quarantennio del XX secolo si sviluppa, partendo dal nulla e con un’accelerazione straordinaria, una scuola orientalistica di livello elevatissimo e di rilevanza internazionale, alla cui genealogia si richiama ancora oggi una parte dell’islamistica italiana.
Antefatto di questo esordio è la formazione dello stato unitario e l’elaborazione della politica culturale della nuova Italia, con la conseguente rottura del monopolio pontificio dello studio delle lingue orientali. Assai significativo che, fra i primi ministri dell’istruzione pubblica in Italia, nel governo Farina (poi Minghetti) fra il 1862 e il 1864, vi sia stato Michele Amari (1806-1889), l’autore della Storia dei Musulmani in Sicilia e protagonista di una fase precedente, e anch’essa tipica, dell’orientalismo europeo, quella legata alla diffusione dell’ideologia liberale e risorgimentale (come Gayangos in Spagna ecc.), che stimola lo studio della storia locale in una prospettiva allargata, al tempo stesso filologica e ideologica.Ugualmente rilevante che il ministro Bonghi invii per la prima volta, nel 1876, una rappresentanza ufficiale al Congresso internazionale degli Orientalisti, nella persona del sanscritologo fiorentino Angelo de Gubernatis, il quale pubblica poi la propria relazione, in una versione ampliata e su commissione dello stesso Ministero, come Matériaux pour servir à l’histoire des études orientales en Italie. In questa interessante rassegna, la prima del suo genere (“scientifico”) in Italia, si assegna la giusta importanza alla figura di Amari e di qualche suo contemporaneo (come il Di Gregorio, lo svelatore della frode del Consiglio d’Egitto), prendendo al tempo stesso le distanze dall’orientalismo “antiquario” (opera perlopiù di aristocratici viaggiatori o pseudoarcheologi) e cattolico. Alla fine del saggio, è designato colui che sarà il fondatore della scuola orientalistica laica romana e il capostipite della tradizione che ne discende, Ignazio Guidi, come il giovane studioso più promettente della sua generazione (all’epoca, poco più che trentenne).
Se insisto su questo concetto di “laica” è perché in Italia gli studi orientali, e in particolare lo studio delle lingue semitiche, restano monopolio ecclesiastico fino all’indomani dell’Unità, mentre il rinnovamento di questi studi, nelle altre nazioni europee, era stato influenzato principalmente dall’esempio francese, dove l’impresa napoleonica in Egitto aveva promosso lo sviluppo dell’orientalistica moderna, egittologia, semitistica ed arabistica (e n’era stata mutuamente ispirata e diretta). Anche in questo caso vi era stato un capostipite unico, il barone Antoine-Isaac Silvestre de Sacy, orientalista enciclopedico, fondatore della Société Asiatique, funzionario dello stato napoleonico come interprete e consulente di tutte le politiche rivolte al mondo islamico, e soprattutto maestro di un’intera generazione di orientalisti, non solo in Francia ma in Germania, Olanda e Inghilterra. L’Italia era rimasta esclusa da questo movimento, anche se, p.e., Michele Amari, in esilio a Parigi dopo aver partecipato ai moti del ‘48, aveva perfezionato la sua conoscenza dell’arabo sotto la guida di allievi diretti di de Sacy, come Reinaud e il barone Mc Guckin De Slane.
L’importanza di Ignazio Guidi (1844-1935) è comparabile, in Italia, a quella di de Sacy in Francia, nel senso della sua fondazione di una tradizione scientifica originale (superiore a quella del de Sacy, per sapienza, acribia, obiettivi) e di una vera e propria scuola, nei tre distinti settori della letteratura arabo-islamica, dell’etiopistica, delle letterature religiose orientali. Nato a Roma nel 1844, Ignazio Guidi aveva appreso le principali lingue semitiche sotto la guida dei missionari orientalisti dell’epoca, padre Zingherle per l’arabo, l’abbate Vincenti per l’ebraico. Aveva inoltre appreso il ghe’ez, la lingua letteraria dell’Etiopia, da autodidatta, e l’aveva poi perfezionata sotto la guida di un sacerdote etiopico di stanza a Roma. Dal 1873 al 1876 fu Custode del Gabinetto numismatico vaticano, quindi fu chiamato a tenere la cattedra di Ebraico e lingue semitiche comparate nell’Università di Roma. Nell’Università di Roma, la Sapienza, Guidi fonda la Scuola di Lingue Orientali (il cui nome è ancora oggi in uso, insieme alla biblioteca che porta il nome del fondatore), e lancia l’idea di una rivista scientifica che sarebbe poi stata la Rivista degli Studi Orientali, per tutta la prima metà del Novecento uno dei principali organi europei del settore.
Nel 1885, la sua carriera istituzionale si salda agli inizi dell’impresa coloniale italiana, con l’incarico della cattedra di storia e lingue dell’Abissinia, istituita dal ministro Coppino in seguito all’occupazione di Massaua.
Nel campo degli studi arabo-islamici (che è poi quello che qui tratto) Ignazio Guidi inaugura l’edizione e il commento delle fonti, con l’edizione parziale della Storia di al-Tabari, il maggiore storico islamico di epoca abbaside. Il suo magistero in questo senso sarà ripreso da Leone Caetani (1869-1935), duca di Sermoneta, autore di una monumentale raccolta di fonti commentate, gli Annali dell’Islam, considerata ancora oggi un fondamentale strumento di ricerca, e che egli avrebbe voluto continuare fino alla fine dell’epoca umayyade (o addirittura, fino alla conquista ottomana dell’Egitto, nel 922/1517), ma che resta compiuta, dopo 10 volumi, solo fino all’anno 40/661.
Alla scuola diretta di Guidi si formeranno, oltre al suo stesso figlio Michelangelo, del quale si dirà, Giuseppe Gabrieli, padre di Francesco, Giorgio Levi Della Vida, e, negli studi semitici ed etiopici, Beguinot, Gallina, Conti Rossini e Cerulli. Indirettamente saranno tuttavia legati a lui gli altri arabisti che, all’epoca, sono attivi nella capitale, come lo stesso Francesco Gabrieli, allievo di Michelangelo Guidi.
Caratteri intellettuali della scuola
Il paradigma di ricerca istituito da I. Guidi è direttamente modellato su quello della filologia classica, all’epoca dominata dagli studiosi tedeschi (a dimostrare la competenza di Guidi in questo campo, si pensi che, negli anni 1886-89, egli tenne la cattedra di letteratura greca dell’Università di Roma, nell’intervallo fra il Comparetti e il Piccolomini). Perseguendone gli obiettivi, egli si applica a giungere a una “piena conoscenza del materiale” (Levi della Vida), descrivendo e catalogando l’enorme e caotico patrimonio letterario islamico, stabilendovi legami e paralleli con le altre lingue e letterature semitiche, e riconducendo l’arabo “ai criteri di grammatica storica propri della scienza europea”.
L’altro grande filone di ricerca e interesse rivolti a Oriente che confluisce nella scuola romana è quello (ancora da esplorare, in gran parte) dei geografi, viaggiatori, esploratori (romantico, mimetico, quanto il modello filologico è freddo e analitico), che preesiste alla fondazione della scuola romana (con esiti mediocri), ed è sistematizzato e upgraded dall’incontro con la filologia. Geografi/viaggiatori saranno, in partenza, Leone Caetani, Eugenio Griffini, lo stesso Nallino (vedi dopo).
Vorrei riprendere ora il discorso dei due tratti già finora apparenti della storia che sto raccontando, ossia, la collocazione romana di questa prima (e unica) grande scuola orientalistica italiana e l’ormai ovvia connessione fra espansione coloniale e sviluppo degli studi orientali.
Che un tale sviluppo degli studi orientali sia avvenuto a Roma e non, per esempio, a Palermo, dove le tradizioni locali e l’insegnamento di Michele Amari avevano comunque creato un ambiente favorevole e una continuità di studi (si pensi a Salvatore Cusa, Vincenzo Mortillaro), oppure a Napoli, intorno al Regio Istituto Orientale è dovuto, da un lato, all’insegnamento secolare delle lingue orientali impartito nel centro del papato dai collegi missionari, a scopi apostolici e di polemica religiosa, e alla presenza di fondi librari, e soprattutto manoscritti, di grande ricchezza (quasi tutti gli esponenti della scuola romana fungono, a un momento o ad un altro della loro carriera, da curatori dell’uno o l’altro di tali fondi).
Dall’altro, naturalmente, al momentum: è a Roma che la ricerca orientalistica riceve impulso dagli enti governativi che progettano e poi realizzano l’espansione coloniale, dall’ultimo ventennio del XIX s. e poi in modo sempre più intenso a partire dal 1911. Tale impulso si realizza nella creazione di cattedre universitarie, istituti, universitari e non, di società geografiche, e nella creazione di opportunità di carriere para-accademiche, in realtà destinate alla consulenza delle amministrazioni coloniali: ne sono esempio la progettata fondazione di un istituto italiano di studi orientali al Cairo, analogo alle istituzioni di penetrazione scientifica e culturale stabilite in Egitto da Francia, Inghilterra e Germania, e l’istituzione della Commissione per lo studio delle questioni islamiche d’interesse coloniale, nel 1914, della quale fanno parte Leone Caetani, CA Nallino e David Santillana (1855-1931). Quest’ultimo, ebreo tunisino italianizzato, è nominato nel 1913 professore della neonata cattedra di Diritto musulmano, all’Università di Roma.
Rapporti con l’espansione coloniale
Nonostante la sua immagine prevalente di studioso e ricercatore “puro”, Ignazio Guidi fu anche uomo pubblico, non indifferente a onorificenze e cariche: fu cavaliere di svariati ordini, italiani e stranieri, socio corrispondente o membro onorario delle principali accademie, società e istituzioni scientifiche, europee e non, socio della R. Accademia dei Lincei dal 1878 e suo segretario della classe di lettere dal 1890 al 1925. Proprio in quanto membro dell’Accademia gli fu conferita, con regio decreto del 30 dicembre 1914, la nomina a Senatore del Regno.
La storia della scuola orientalistica romana confluisce così, senza apparenti scosse e con reciproco vantaggio, in quella dell’espansione coloniale italiana, della quale Guidi e la sua scuola (con l’eccezione di Caetani, come dirò) furono fautori. Si tratta di una storia abbastanza nota ma mai scritta per intero, dove l’equazione “orientalisti=colonialisti” non basta a spiegare i rapporti intellettuali e personali complessi che gli orientalisti della scuola di Guidi ebbero fra di loro e con l’autorità politica. L’adesione e il sostegno alla politica di espansione coloniale è ispirata, anche nei casi estremi (quelli di Cerulli e Conti Rossini, entrambi allievi di Guidi e altissimi funzionari dello stato) da un “alto sentimento di devozione alla patria” (Levi della Vida), di stampo ottocentesco, che suggerisce l’offerta di un modello (anziché l’adeguazione a un modello, come nel caso di Germania, Francia, Inghilterra), che è quello dell’Italia come erede della tradizione greco-romana, ponte fra il Mediterraneo islamico e l’Europa. E’, insomma, un ideale scientifico (positivistico, grande enfasi sul tema “razziale”), ma anche patriottico: prestigio nazionale, funzione civilizzatrice ecc. che rappresentano l’evoluzione e l’aboutissement della spinta ideologica all’espansione nel Mediterraneo che (vedi Del Boca), ha interpreti illustri nell’elite italiana risorgimentale e postunitaria (Mazzini ecc.).
Il mito centrale della visione politica espressa da Ignazio Guidi e ripresa dalla maggior parte degli orientalisti della sua cerchia, con minore ingenuità e crescente ambivalenza fino alla vigilia della guerra, è espresso nel discorso Le popolazioni delle colonie italiane, letto all’adunanza solenne dei Lincei il 1 giugno 1913, a conclusione dell’impresa libica. Vi si celebra l’Italia in quanto potenza coloniale “benigna e severa” e promotrice della “redenzione dell’Africa” (Somalia, Eritrea, Tripolitania e Cirenaica). Il movente più personale che ispira Guidi è però il vantaggio che dalla penetrazione coloniale proverrebbe alla scienza. L’evocazione del mito del progresso delle conoscenze che avrebbe accompagnato l’avventura egiziana di Bonaparte, e, indirettamente, il richiamo a Silvestre de Sacy torna qui inevitabile. Citando Renan (“l’exploitation scientifique de l’Algérie sera l’un des titres de gloire de la France au XIX siècle”), Guidi conclude augurandosi: “L’esempio della grande sorella latina sarà certamente imitato da noi”.
Più concretamente, vengono forniti alle autorità coloniali gli strumenti di apprendimento di lingua e costumi delle provincie africane, sotto forma di grammatiche, dizionari e digesti: Guidi, insieme a Santillana, provvede la traduzione annotata del primo volume del classico manuale di diritto malikita di Khalil, richiestagli dal Ministero delle Colonie poiché tale diritto era ancora vigente in Libia (ossia nei due ex-sangiaccati di Tripolitania e Cirenaica, ai quali proprio l’occupazione italiana darà ufficialmente, nel 1934, il nome classico di “Libia”) (Il “Mukhtasar” o Sommario del diritto malechita di Khalîl ibn Ishâq, Vol. I, Giurisprudenza religiosa (“cibadât”), Milano 1919) (e Griffini aveva pubblicato, nel 1913, L’arabo parlato della Libia).
Se è vero che tutta la scuola di Guidi, diretta e indiretta, contribuisce, in termini di prestazioni scientifiche e tecniche, alla politica coloniale (ricevendone peraltro finanziamenti ingenti, borse di studio – la Gori Feroni -, istituti e onorificenze, cattedre, biblioteche ecc.), è altresì vero che il rapporto stabilito non è mai meccanico e che mai si viene meno agli standard altissimi che sono stati posti, all’inizio, alla sua membership, selezionando (talvolta ferocemente, caso di Gabrieli, di Griffini) i suoi membri, non sul terreno politico contemporaneo, ma su quello dell’erudizione meticolosa e del perseguimento di un ideale scientifico rigorosissimo, dal quale deriva la grandissima reputazione della scuola orientalistica italiana all’estero, fino alla metà del secolo passato. Detto altrimenti, in nessun caso si sacrifica la scholarship, anche da parte di studiosi maggiormente coinvolti nella politica coloniale, come Carlo Alfonso Nallino.
C.A.N. (1872-1938): è l’altro grande protagonista dell’islamistica romana del primo quarantennio, pur non essendo romano (torinese per parte di padre, milanese per parte di madre). Il suo ingresso nelle istituzioni di ricerca e governative è indipendente dall’insegnamento di Guidi (egli appartiene al filone dei geografi) , al quale fu però legato da rapporti di collaborazione e rispetto. Fondamentalmente autodidatta (quanti autodidatti fra gli orientalisti italiani, Guidi, Caetani, Santillana, Nallino, Rossi), poliglotta e dotato di enormi capacità di studio ma anche di lavoro pratico, Nallino partecipa, con Guidi, alla fondazione dell’Università egiziana del Cairo nel 1908, distinta dall’istituzione religiosa di al-Azhar, voluta dal filoitaliano principe Fu’ad (poi re Fu’ad d’Egitto). In quest’Università insegnerà fino alla fine della sua vita, fra il sospetto crescente dell’opinione pubblica nazionalistica egiziana, che accusa lui e i suoi collaboratori di fare propaganda pro-italiana e, naturalmente, di deformare e avvilire il messaggio dell’islam arabo.
Cattedratico a Roma, membro e segretario dei Lincei, Nallino giunge a dominare gli studi arabo-islamici, ispirato da un ideale di esattezza e oggettività scientifica che coniuga all’ impegno politico verso il mondo musulmano, in nome della necessità di informare correttamente l’opinione pubblica italiana, per “illuminarla sui problemi d’Oriente in base a informazioni genuine e copiose”, perché ne scaturiscano “correnti eccitatrici , ausiliatrici ed integratrici dell’azione governativa”. Sono citazioni dal “programma” originario della rivista “Oriente Moderno”, fondata dal Nallino nel giugno 1921, insieme all’Istituto per l’Oriente, gestito insieme ad Amedeo Giannini (storico dei trattati, diplomatico), i quali resteranno sue creature fino al 1938, anno della sua morte, conservandone l’impronta per quel che riguarda l’impegno a informare chiaramente “senza prendere posizione”, ma dando “elementi di giudizio per una politica ferma e cosciente”.
Cosa veramente pensasse Nallino, è difficile ricavarlo dai suoi scritti. Più facile constatare la deriva panaraba e panislamica di alcuni dei suoi allievi/collaboratori. Caso limite, il pamphlet
islamofilo di Laura Veccia Vaglieri, Apologia dell’islamismo (1925), dove il riconoscimento e la difesa a oltranza del significato storico e spirituale dell’islam si coniuga con l’appello agli arabo-musulmani, perché si liberino delle influenze di etnie inferiori (mongoli, turchi, ecc.) e ripristinino i primitivi valori della loro razza.
L’IPO e la politica fascista verso il Medio Oriente
Si tratta di una politica di prestigio e d’influenza, volta a raffigurare l’Italia come la naturale potenza di riferimento del mondo mediterraneo, la cui azione civilizzatrice avrebbe favorito correnti culturali e politiche modernizzatrici e nazionalistiche. La novità rispetto alle posizioni espresse da I. Guidi consiste nell’attenzione e nel sostegno prestati ai movimenti nazionalistici arabo-musulmani (l’islam essendo visto come civiltà superiore rispetto al mondo africano), interpretati come “risorgimento arabo” (è il titolo di un noto saggio di F. Gabrieli, della fine degli anni Cinquanta, ma anche di un saggio breve di LDV, “Nazione araba e nazionalismo arabo”, altrettanto ispirato da una lettura “risorgimentale” della storia dei contemporanei rivolgimenti politici del mondo arabo), e nel riconoscimento delle realtà culturali presenti (è noto che CAN si oppose alla politica di “italianizzazione” forzata delle colonie, per esempio in Libia, e che il suo tentativo di comprensione dei movimenti politici insurrezionali nella colonia libica gli meritò, nel 1931, il nomignolo spregiativo di “Gran senusso”).
L’Istituto e i suoi collaboratori scientifici, tutti allievi di Guidi e di Nallino, assecondano così, direttamente e indirettamente, la politica mediorientale di Mussolini, tesa a rappresentare l’Italia come “difensore dell’Islam” e dei nazionalismi arabi nascenti, la quale porterà al conferimento della “spada dell’islam” a Mussolini, nel 1937, ma che in realtà è condotta essenzialmente in funzione anti-britannica, e in questa trova il suo limite, aldilà della dichiarata ma generica simpatia di Mussolini stesso “per i mussulmani del mondo intero”, e di una serie d’iniziative politiche, ufficiali e ufficiose, che affermano la presenza e gli interessi italiani rispetto ad alcuni paesi in particolare (Egitto, Irak, Palestina, Arabia Saudita e Yemen).
Viceversa, com’è ormai noto, una crescente ostilità oppone da subito l’Istituto al Ministero delle Colonie, inevitabile conseguenza del sostegno dato all’indipendenza araba. Strabismo della strategia politica: colonie vs. tentativo di presentare l’Italia come “ponte tra l’Oriente e l’Occidente” e arbitro fra paesi europei e arabi, che si traduce nel conflitto fra IPO e Ministero delle Colonie, data la posizione critica del Nallino, non di mero sostegno alla politica coloniale, che sfocia, nel 1930, nello scontro con Rodolfo Graziani, sulla recente repressione in Libia e l’impiccagione del capo senusso Umar al-Mukhtar.
Il dato rilevante di questi anni, fino allo scoppio della guerra, è tuttavia il livello generalmente alto e in molti casi altissimo della produzione scientifica legata all’Istituto ed al suo scopo di diffondere la conoscenza dei paesi islamici, della loro lingua e cultura (la quale si riflette, sia detto per inciso, sul livello d’informazione e intelligence dei funzionari del MAE, formati alla stessa scuola). Con pochissime eccezioni, fino alla vigilia della guerra, che coincide con la fine dell’era Nallino, l’Istituto non viene meno al programma iniziale d’informazione esatta e oggettiva: Oriente Moderno, nella sua veste tipografica dimessa e sempre più esigua, a misura delle crescenti difficoltà economiche dell’Istituto, resta una rivista soprattutto scientifica, accolta e riconosciuta come tale dalla comunità orientalistica europea, accanto a organi più decisamente politici, come “Avvenire Arabo”, destinata a soddisfare direttamente le esigenze di propaganda fascista verso i paesi arabi ma presto defunta per eccesso di filo-arabismo, o il “Bollettino della stampa orientale”, rassegna della stampa mediorientale anch’essa presto interrotta (ma i giovani collaboratori dell’Istituto, terza generazione della scuola romana, fungono da traduttori della stampa estera per il MAE).
Allo stesso scopo era stata istituita, nel 1923, una scuola di lingue slave e orientali viventi, destinata all’istruzione soprattutto di funzionari governativi, alla quale collaborarono M. Guidi, Lo Gatto ed altri, ma che chiuse nel 1939; ed era stato rifondato lo statuto del R. IO, nel 1926, da Nallino, Iguidi e Giannini (i rapporti fra i due istituti saranno turbolenti, fino alla morte di Guidi e per la rivalità di B. Barbiellini Amidei, che giunge ad accusare l’IPO di fomentare attività sovversive, e che è a sua volta accusato di essersi convertito all’islam).
La storia dell’IPO e dei suoi rapporti con il fascismo è già stata oggetto di studi abbastanza approfonditi, che basterà citare (Carretto, Giro). Se, nell’Istituto, Nallino si riserva la parte scientifica e Amedeo Giannini (storico dei trattati e diplomatico, orientalista non accademico), quella politica ((dicotomia Sapere/Potere, descritta da Carretto), l’integrazione degli scopi è perseguita consapevolmente. Esempio limite delle celebrazioni per il millenario della nascita del poeta iraniano Firdusi, simbolo della rinascita iranica dell’XI secolo, organizzate frettolosamente, e a dispetto della povertà degli studi iranici dell’epoca, al seguito dei festeggiamenti analoghi nella Germania nazista, in funzione filoariana, e tenute da Nallino in qualità di presidente del comitato esecutivo (in atti dell’Accademia, dicembre 1934, anche in Scritti editi e inediti). Se il senso di questa manifestazione, oggi inimmaginabile in questa forma ufficiale, è da cercarsi nel “culto razzistico della civiltà iranica” (Piemontese), in funzione in questo caso anti-islamica, e nella “opera di mistificazione nazionalistica della storia” che vedeva accomunati lo shah di Persia Reza Pahlavi ai governi nazista e fascista, è notevole che lo stesso Nallino ammonisse, nel discorso inaugurale “a non eccedere nell’interpretazione nazionalistica del poema firdusiano” (Piemontese).
Chi resta e chi parte: la diaspora della scuola di Guidi
Lo scivolamento nel clima prebellico è aggravato, nel gruppo degli islamisti romani, dalla morte di Ignazio Guidi, nel 1935, e da quella di Nallino nel 1938, in coincidenza con l’emanazione della legislazione razzista che avrebbe costretto G. Levi della Vida, allievo di Guidi e collaboratore e amico di Nallino, a emigrare nello stesso anno, già cinquantenne, negli Stati Uniti.
In realtà, è legittimo pensare che assai difficilmente tanto Guidi che Nallino, avrebbero potuto accettare, oltre che lo spirito, le conseguenze di questa legislazione. E’ solo nel 1938, contemporaneamente alla morte di Nallino, che “Oriente Moderno” pubblica un articolo cautamente anti-ebraico, a firma di Raffaele Tritonj. E ancora, lo stesso LDV ricorda di essere stato invitato da Giannini, presidente dell’IPO, a scrivere il necrologio per Nallino, con la preghiera che fosse anonimo. LDV rifiuta di farlo apparire, ed è solo “grazie alla fermezza di Ettore Rossi” che l’articolo appare con la sua firma. In seguito, una larga parte dell’attività di sostegno al regime è svolta, dal 1940, da una nuova rivista, Mondo Arabo, alla quale collaborano nel primo anno alcuni arabisti della scuola dei Guidi, con contributi prevalentemente scientifici (Gabrieli, Veccia Vaglieri, Vacca), ma che dal secondo anno diventa un organo della propaganda di guerra, e in quanto tale antibolscevico, antisionista, antibritannico e antihashemita (bersaglio polemico e caricaturale di ogni numero, l’emiro hashemita Abdallah, all’epoca emiro di Transgiordania), e, d’altro canto, filopalestinese e filosaudita. E’ tuttavia notevole che questo stesso fogliaccio pubblichi, nel 1941, un articolo di Francesco Gabrieli celebrante lo scomparso Leone Caetani, “principe degli orientalisti”, ma anche antifascista dichiarato.
Leone Caetani, già più volte nominato, fu, fra gli arabisti romani, l’avversario più deciso del regime e della cultura dominante. Studioso di enorme energia e di grandi risorse, anche personali, chiude e riscatta una tradizione minore di aristocratici orientalisti dilettanti, fra i quali va probabilmente annoverato il suo stesso padre, Onorato Caetani, geografo e viaggiatore, quindi deputato per la destra e ministro degli Esteri nel governo di Rudinì. Anch’egli autodidatta e, all’inizio, geografo e viaggiatore (una linea alternativa a quella filologica e classicista rappresentata dai due Guidi e da Gabrieli), Leone Caetani fu ben presto attratto nell’orbita scientifica di Ignazio Guidi, guadagnandosi una solidissima reputazione di storico (fra l’altro, la sua estrema diffidenza verso la tradizione primitiva della storia del primo califfato, all’epoca assai criticata, è oggi rivalutata dall’islamistica anglosassone), non altrettanto (si diceva all’epoca) di arabista (che è poi l’accusa più spesso agitata nel nostro campo). Quando lancia il progetto degli Annali dell’Islam, egli decide di farvi lavorare alle traduzioni i più giovani e migliori arabisti della scuola di Guidi (Levi della Vida, Michelangelo), pagandoli di tasca propria. Deputato del regno per la sinistra moderata, si pronunzia contro l’impresa libica nel 1911 (ma anche suo padre aveva espresso posizioni anticolonialiste), resistendo al progressivo scivolamento degli allievi di Guidi verso il sostegno attivo della politica coloniale. Dopo la prima guerra alla quale partecipò, si ritira da ogni carica pubblica e scientifica, in un progressivo estraniamento dalla vita italiana, aggravato da vicende personali, che culmina, nel 1926 o 1927, nell’emigrazione in Canada con la figlia Sveva e la seconda compagna. Qui muore nel 1935, dopo aver manifestato più volte il suo disgusto per l’Italia contemporanea, atteggiamento che gli varrà, nello stesso anno della morte, la radiazione dal novero degli Accademici d’Italia.
Diverso il caso di Giorgio Levi della Vida (1886-1967): laico e di simpatie socialiste, cattedratico alla Sapienza (ebraico e arabo), presente, come tutti gli allievi di Guidi, nelle istituzioni di ricerca dell’epoca, nonostante fosse dichiaratamente antifascista (ma alieno dall’impegno politico attivo dopo il delitto Matteotti), fu fra gli 11 accademici che, nel 1931, rifiutarono di giurare fedeltà al fascismo e che per questo persero il posto. Rimasto collaboratore dell’Istituto per l’Oriente fino alla morte di Nallino, e benemerito curatore dei manoscritti orientali della Vaticana, fu, costretto, cinquantenne, all’emigrazione dalle leggi razziali (dopo un velato attacco personale da parte di Barbiellini Amidei?). Accolto negli Stati Uniti, insegnò fino al dopoguerra alla Pennsylvania University, a Philadelphia, acquisendo grandi meriti nella fondazione degli studi arabo-islamici in America, fino al suo ritorno definitivo in Italia nel 1947, come dirò poi.
In realtà, nonostante l’integrazione crescente nella macchina di propaganda fascista, resta notevole la fedeltà degli arabisti romani all’ideale di esattezza e oggettività scientifica dei fondatori. Ciò va senz’altro ascritto al figlio ed erede intellettuale di Ignazio Guidi, Michelangelo (1886-1946), che si avvale della sua personale influenza e rilievo nelle istituzioni fasciste per salvaguardare libertà di ricerca e fedeltà alla tradizione della scuola (p.e., scrive nel ’36, per i Lincei, il necrologio di Leone Caetani, antifascista e radiato dalla stessa istituzione). La sua stessa posizione intellettuale rispetto alla storia dell’islam, attenta alle ibridazioni culturali, alle influenze sincretistiche, è emblematica della sua sostanziale distanza rispetto alla deriva panaraba, su base razzista, di altri esponenti dell’islamistica romana più direttamente coinvolti nella vita politica (come Laura Veccia Vaglieri nel suo pamphlet panarabo, Apologia dell’islamismo). E mi sembra pure degno di nota che proprio Michelangelo Guidi (e non suo padre né Caetani né LDV) sia indicato, nel 1971, in una famosa ricostruzione della storia degli studi islamistica in Italia, come capostipite della propria filiazione intellettuale da un personaggio della statura di Alessandro Bausani.
L’eredità della scuola islamistica romana
Alla caduta del fascismo, l’IPO è chiamato, con altre istituzioni culturali coinvolte nella politica del regime, a una superficiale resa dei conti che, come succede in altri settori, si conclude con una generale assoluzione, con l’eccezione inevitabile di Amedeo Giannini, che si ritira a vita privata. Sostanziale continuità di persone, rottura completa dal punto di vista delle risorse, dell’importanza.
Un bilancio: L’eredità: nessuna? Come in altri campi, ma probabilmente più che in altri campi per i rapporti “organici” del gruppo di islamisti romani con il regime, la trasmissione di sapere e competenze s’interrompe bruscamente, e anche chi resta, come Gabrieli, o chi torna, come Levi della Vida, non ha modo di riannodare le fila della scuola. Lo smantellamento degli istituti di fondazione fascista, sui quali pesa lo stigma della collaborazione allo slancio “imperiale” dello stato italiano, non interrompe tuttavia la continuità accademica, anche per la contrazione quasi immediata del settore.
Di questa importante rottura, e di quella, altrettanto profonda anche se meno drammatica, del ’68, è testimone il diario di Gabrieli, del quale una scelta è stata pubblicata postuma dalla famiglia, e che mi piace citare qui, per correggere e rimettere in prospettiva la figura dell’ultimo rappresentante della scuola romana e, con lui, quella dei suoi maestri e colleghi.
Caso di Gabrieli: figlio di Giuseppe, allievo di Michelangelo Guidi, imbevuto di cultura classica, poliglotta come tutto il gruppo romano, letterato, prende parte, in età già adulta (è nato nel 1904) alle vicende dell’IPO, collaborando alla stesura delle rassegne della stampa araba. Non lascia trapelare nessun dissenso, neanche quando le leggi razziali provocano la partenza di Levi della Vida, suo amico e maestro. Tuttavia, i suoi diari documentano il suo dissenso profondo rispetto al regime e alle sue scelte, la sua insofferenza verso uomini, aspetti grotteschi, ecc. A giustificare parzialmente la sua inerzia e nicodemismo di questi anni, il persistente rispetto per Nallino, figura gigantesca che accomuna a Mommsen e a Wilamowitz, e un liberalismo patriottico e antimonarchico, ma anche antisocialista, che gli impediscono, apparentemente, di schierarsi fra i dissidenti e i resistenti. Francesco Gabrieli è posto fra il 1945 e il 1947, a reggere l’IPO, con l’incarico di epurarne gli eventuali residui fascisti, mentre Levi della Vida, rientrato all’indomani della caduta del fascismo a Roma, è reintegrato nella sua cattedra, che tiene fino al 1956, e alla guida dell’IPO (richiamato da Gabrieli?). Un suo memoriale, in possesso della famiglia e solo parzialmente noto attraverso le citazioni che ne fa Maria Nallino, sua allieva, nel necrologio, testimonia della sua incertezza e delusione di fronte all’ipocrisia dell’ambiente universitario, e ai cambiamenti troppo radicali del clima intellettuale.
Tipicamente, è proprio il personaggio più spregiudicato e più compromesso con il regime, Laura Veccia Vaglieri, che avrà una filiazione intellettuale a Napoli. Levi della Vida muore nel 1967. Gabrieli tiene la cattedra che era stata del suo maestro M. Guidi, diventa l’unico e più noto rappresentante dell’arabismo italiano all’estero, testimone di tutto il suo arco storico, ma i suoi diari testimoniano del disagio psicologico e progressiva disaffezione, e del crescente senso di colpa per non avere preso nettamente partito contro il fascismo e l’ipocrisia del suo ambiente. Rottura del ’68, assimilata a una “tempesta”, a una nuova tirannia della massa, della quale si vedono chiaramente i caratteri di rottura netta con il passato, ma anche, più cautamente, i semi del nuovo (“Cosa sarà la nuova [università], non è ancora dato vedere: certo non sarà tutto male, come tutto male non era la vecchia”; e di se stesso e della sua classe “altrettanto certo è che per noi mandarini universitari il quieto vivere è finito”). La contestazione chiude dunque definitivamente la parabola della scuola romana e, mi sembra, dell’islamistica italiana, dal punto di vista del suo peso collettivo, nazionale e internazionale, e del prestigio della professione (ancora Gabrieli “finita è anche ogni nostra autorità e prestigio sociale”). Comincia dopo un’altra storia, legata all’evoluzione (involuzione) dell’alta cultura italiana primonovecentesca.
L’eredità intellettuale: la scuola romana non ha, di fatto, eredi ai nostri tempi, la filiazione intellettuale è interrotta dalla fine del fascismo e dalla pur blanda reazione successiva, ma anche dal suo avere espresso, sia pure a un livello eccezionalmente elevato, una visione prevalentemente filologica e analitica del patrimonio culturale musulmano, gravata dal confronto con la tradizione classica greco-latina, unita a una ostentata estraneità ai fenomeni sociologici che già agitavano il mondo musulmano, e a un approccio prevalentemente arabocentrico, oltre che, ovviamente, eurocentrico. E’ pur vero che oggi assistiamo al fenomeno opposto dell’abbandono degli studi islamici “classici”, e alla migrazione dei ricercatori e delle risorse verso i settori limitrofi, quelli direttamente sollecitati dal momentum (studi diplomatici e strategici) o, per chi scelga ancora l’opzione “classica”, l’iranistica e la semitistica o l’archeologia (fenomeno analogo in altri paesi, Francia, USA vedi Yale)
L’eredità: un’eredità materiale, fatta d’istituti, di biblioteche e fondi librari (lacrimevole questione), di scholarship ed erudizione (ancora perfettamente utilizzabile), che andrebbe rimessa in circolo, ripubblicati i testi chiave ecc.
Quali domande scaturiscono dalla storia della scuola islamistica romana: è possibile pensare oggi a un’islamistica italiana scientifica, svincolata, per quanto è possibile, dall’obbligo (o tentazione) di servire la politica nazionale (o internazionale), e, dall’altro, dall’impresa impossibile di spiegare l’islam agli italiani? In altri termini, è possibile rifiutare il dilemma politica/divulgazione, per affermare le ragioni della ricerca, ragionevolmente provvista di mezzi.
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