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Centro e periferia: la nuova geopolitica delle diaspore

V. Dan Segre (Laboratorio di ricerche mediterranee, Marsala)

Dan Vittorio Segre

Sono onorato di poter parlare a questa riunione di storici che  coincide con la conclusione di un altro anno di attività del Laboratorio degli Studi Mediterranei. Non parlerò naturalmente come storico che non sono. Parlerò piuttosto da  emigrante e da  immigrante quale sono stato avendo osservato il fenomeno della diaspora, per cosi dire, dal ventre immaginario biblico di  Giona – di due balene : Italia e Israele.
Da questa esperienza personale vorrei elaborare quattro temi diversi ma strettamente connessi con il fenomeno antico e nuovo delle Diaspore e cioè:
– Il problema dell’immigrazione che rappresenta il fattore creativo della diaspora.
– Il problema della integrazione che rappresenta il fattore costitutivo – per assorbimento o rigetto della diaspora.
– Il problema della legittimità che rappresenta a mio parere l’elemento chiave del processo di adattamento al nuovo e una fonte primaria di energia per il cambiamento.
– Il problema dell’identità diasporica fenomeno antico ma di crescente importanza e attualità politica.
Emigrazione. E’ l’aspetto più doloroso e spesso pericoloso della formazione delle diaspore. E’ anche quello che si presta meglio alla analisi delle sue cause riassumibili in una parola: oppressione. Oppressione fisica per mancanza di cibo e di sicurezza. Oppressione morale, religiosa e politica. Quest’ultima ha influito sull’emigrazione in maniera numericamente ridotta ma ha lasciato impronte significative sui paesi di accoglienza. Pensiamo all’impatto  degli esuli del Risorgimento sui paesi arabi mediterranei e delle vittime del Nazismo e del  Fascismo sulle Americhe.  Naturalmente c’è anche la diaspora di conquista: ad esempio quella araba del Maghreb (Rabat, capitale del Marocco, indica il luogo dove i cavalieri arabi inizialmente legarono i loro cavalli ). Non è però una diaspora duratura, quella dei conquistatori, perché basata – come spiega Simmel – sulla forza, ( o sulla mancanza di forza nel caso dello schiavo) e viene alla fine assorbita o nell’alto o nel basso della società d’arrivo.  
Il fatto curioso del fenomeno migratorio è che mentre si conoscono tutte le cause che lo producono non esiste ancora  una teoria generale sull’integrazione.
E’ il secondo problema a cui vorrei accennare e che rappresenta l’elemento costitutivo della diaspora. Il che parrebbe un controsenso dato che la diaspora è tale proprio perché i suoi membri mantengono o cercano di mantenere una identità distinta dal resto della popolazione e nei confronti delle altre diaspore. Molto infatti dipende dai moventi dell’integrazione
L’opinione corrente è che impiego, guadagno o speranza di esso siano le condizioni determinanti dell’integrazione. Il che è oggi o meno vero che nel passato.
Sono le ragioni non economiche – religione, onore, bisogno di  riconoscimento, lealtà di clan, – stanno prendendo il sopravvento sugli incentivi economici. La poca attenzione spesso portata a queste motivazioni appare come una delle cause del fallimento dei due sistemi integrativi che furono  per molto tempo considerati  vincenti: quello americano e quello francese.
Il sistema americano della “pentola a pressione” ha funzionato sino a tanto che gli immigranti potevano essere gettati per cosi dire, alla rinfusa nel calderone sociale, economico e avventuroso di una frontiera in continua espansione. Gli immigranti si fondevano al calore dell’ “American Way of Life” , con tutte le scottature e le opportunità che il processo comportava. Da questo immaginario crogiolo usciva, bene o male , un tipo umano piu’ o meno standardizzato, mimeticamente attraente in quanto costituzionalmente garantito dalla  uguaglianza nei  diritti, incluso quello alla felicità.
“LAMERIKA” dell’ebreo polacco, dell’italiano di “Passaporto Rosso”, dell’irlandese non ha però resistito al test del tempo.
Oggi l’americano che si vuole più autentico,è quello che si vanta delle sue origini, che è  orgoglioso di una doppia identità. L’afferma mettendo un trattino nella definizione della sua personalità, trattino spesso sinonimo di doppia lealtà: afro-americana, asian-americana, latino-americana, islamico – americana, etc.
Il secondo processo integrativo di successo era quello francese. Fondava  la sua legittimità nell’umanesimo rivoluzionario , nella  teorica fraternità e uguaglianza proclamata dalla Dichiarazione dei diritti dell’Uomo . In pratica, c’era  sempre stato scollamento in Francia fra società reale e società legale come l’Affaire Dreyfuss dimostro’ scuotendo le fondamenta della III Repubblica.
Per molto tempo, tuttavia,  l’apprendimento del francese, la lealtà allo stato laico repubblicano , la formazione nei grandi Licei e Scuole per elite, permisero ai Senghor, ai Ponyatowsky, ai Mendes France – per non parlare dei Sarkosi – di assurgere ai massimi livelli di influenza sociale e politica, indipendentemente dal colore della loro pelle , dalle loro origini e della loro religione.  Questo sistema è oggi messo in discussione in Francia salvo nel football, e non è certo esportabile in altri paesi.
E’ qui che nella formazione delle diaspore e nel loro processo integrativo nella società metropolitana, entra in gioco il terzo problema a cui abbiamo accennato all’inizio, il problema della  legittimità.
E’ un concetto che in passato, in Europa, sul piano individuale  era legato al ruolo innovativo e imitativo del notabile, cioè la persona che viene notata e che sa o vuole essere notato. Quell’impasto di autorità e di prestigio locale che favoriva, attraverso l’imitazione, l’accettazione o il rifiuto del cambiamento. Una figura che continua ad essere presente e influente nelle società tradizionali come vediamo nel Medio Oriente ma non solo in questa regione.
Nella società industriale e post industriale soprattutto occidentale, il ruolo del notabile è stato reso più difficile da due visioni opposte della democrazia.  
Da un lato abbiamo la democrazia pluralista sostenitrice del  diritto all’uguaglianza individuale nel contesto di un comune sistema di legalità e soprattutto di comune territorialità. Il potere legittimo passa dal sovrano, legittimato dal divino, al diritto, legittimato dal territorio o,  come abbiamo visto nel secolo scorso, dall’ideologia.
Nel sistema liberale democratico questo diritto spesso sconfina  nel licenzioso,  quando viene confusa la  legittima lotta per la libertà con la lotta , non sempre legittima, anche se legale,  fra  varie richieste di libertà.
Dall’altro lato, vi sono i sistemi multiculturali, che rifiutano l’uguaglianza sul piano individuale sostenendo invece, la legittimità dell’ uguaglianza fra  culture.
In questo contesto la diaspora assume un ruolo crescente – nel positivo come nel negativo – operando in un certo senso come notabilità collettiva.
Vorrei dare  un esempio tratto dalla moda,  campo universale di notabilità e di innovazione permanente.
Ai grandi magazzini Harrods di Londra, una  turista americana ha protestato contro il rifiuto di un commesso di comunicarle il tipo di te’, fornito da Harrods, alla casa reale e preferito dalla la regina Elisabetta. Risentimento comprensibile dato che qualunque signora si sentirebbe onorata di offrire ai suoi ospiti il te usato dalla regina.
Allo stesso tempo però, nessuna donna sarebbe disposta ad adottare i cappellini della regina d’Inghilterra. La sovrana può infatti legittimare il te’ e creare in questo settore un processo imitativo. Non può, nonostante il suo prestigio, legittimare la diffusione di un copricapo o di una minigonna. In questo settore   l’autorità legittimatrice del nuovo il notabile, sono i Saint Laurent, i Versace, ecc, non la regina d’Inghilterra. Riconoscere la legittimità come fattore primo, spesso esclusivo della accettazione o del rifiuto del cambiamento individuale e il notabile che la rappresenta, è la chiave del successo o del fallimento di molti programmi di cooperazione transculturale.
Lo stesso fenomeno rappresentativo vale in molti casi per il ruolo legittimativo della notabilità collettiva rappresentata dal clan . Il caso irakeno, libanese, pakistano lo dimostra in senso negativo, non meno di quanto il  successo dell’integrazione degli immigranti nella Confederazione svizzera e i Israele lo dimostra in senso positivo malgrado le molto diverse forme di democrazia multiculturale di questi due paesi nei quali il numero degli immigranti è ormai superiore a quello dei nati indigeni.  
Un altro aspetto imitativo, integrativo tanto in senso negativo come in quello positivo lo offre nella diaspora lo scontro fra  ghettizzazione e società aperta. L’esempio ebraico è emblematico, anche se riscontriamo manifestazioni simili in altre diaspore – irlandese, italiana, cinese, islamica. Era proprio la novità di questo fenomeno che aveva spinto il Laboratorio di Studi mediterranei a interessarsi alla creazione di un Istituto di Studi comparativi delle Diaspore, istituto che a mia conoscenza non esiste ancora.
Cosa ci insegna la diaspora ebraica? Anzitutto il paradosso della permanenza nella temporaneità.  In essa troviamo elementi costitutivi a cui ho fatto accenno prima – ricerca di sicurezza, di progresso materiale,  intellettuale e civico. Ma troviamo anche l’elemento del ritorno reale o immaginario mantenuto vivo come prova della temporaneità della residenza. Elemento che esiste anche in altre diaspore – come nella diaspora armena o in senso spirituale nel pellegrinaggio alla Mekka dove l’identità particolare, etnica o nazionale si confonde idealmente in quella collettiva dell’Islam.  
Società chiusa e società aperta hanno in comune il bisogno di un fattore di legittimità per l’innovazione e il cambiamento. Nel caso ebraico quello dell’ortodossia rabbinica favorevole alla  chiusura nazional-religiosa accanto a quella pluralista favorevole all’apertura più ampia del giudaismo liberale, anche se viene mantenuta in entrambe l’idea del ritorno. Idea ricordata quotidianamente nella preghiera ma ribadita in maniera molto differente da chi crede che il messaggio del monoteismo ebraico abbia bisogno di uno stato per realizzarsi e da chi crede invece che abbia bisogno di una diaspora proprio per sottrarsi alla amoralità  dello stato.
Infine  – quarto problema – il crescere dell’impatto politico, economico, politico delle diaspore sulla madre patria.
In un mondo globalizzato il territorio perde terreno per l’impossibilità economica, militare e informatica di proteggere la  sovranità della nazione. Una manifestazione di questa rinuncia è data dall’immigrazione stessa; un’altra dalla  guerra asimmetrica e mediatica. Forse l’aspetto meno percepito del cambiamento, ma più rivoluzionario, risiede nello spostamento del baricentro demografico. Per la prima volta nella storia dell’umanità il numero degli abitanti delle città ha superato  quello degli abitanti delle campagne dove la presenza diasporica è più rara e difficile da mantenersi.
Questo sbilanciamento – che è anche lo sbilanciamento crescente dell’uomo dalla natura – favorisce in tutti i sensi il peso e il ruolo della diaspora nei confronti della madre patria.
Cosa questo significhi per i nostri discendenti è difficile dire. Noi stessi viviamo già in una realtà che ha reso obsoleto il futurismo di Jules Verne.
Tuttavia, se non vogliamo che l’evoluzione del genere umano sia determinata da sistemi di clonazione, ma piuttosto dall’evoluzione dello spirito e della cultura dobbiamo abituarci all’idea che è nella società aperta dentro e fuori delle diaspore – non in quella chiusa della religione e della nazione – che risiede una delle chiavi di comprensione del nostro futuro.