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Cittadinanza sociale e cittadinanza politica negli Stati Uniti: considerazioni sul non voto degli americani nel Novecento

Arnaldo Testi
La Collana degli Archivi di Stato
Cittadinanza.
Individui, diritti sociali, collettività nella storia contemporanea

a cura di C. Sorba

1. La cittadinanza sociale negli Stati uniti
La questione che esploro in questo articolo riguarda le connessioni storiche fra la cittadinanza sociale e la cittadinanza politica attiva, cioè l’esercizio o non esercizio del diritto di voto, negli Stati uniti del Novecento. Ciò che mi interessa è cercare di capire in che misura, nell’esperienza statunitense del secolo appena concluso, l’effettiva partecipazione elettorale dei diversi gruppi sociali abbia influenzato la formazione, il godimento e l’estensione dei diritti sociali di cittadinanza; e viceversa, in che misura la titolarità di diritti sociali abbia concorso a stimolare la partecipazione elettorale, generando nei cittadini il senso di avere a stake in society da far valere anche con il voto. Il taglio che intendo adottare è quello di una mappatura preliminare del territorio, con ragionamenti che sono soprattutto ipotetici e speculativi. E questo perché ho appena cominciato il lavoro di ricerca; ma anche perché, mi sembra, le ricerche storiche in proposito non sono soddisfacenti. Per alcuni anni ho lavorato intorno al tema del non-voto negli Stati uniti, e solo incidentalmente ho trovato allusioni alla cittadinanza sociale o allo stato sociale. Questo silenzio ha continuato a sorprendermi; fra l’altro, mi sembrava ignorasse una domanda che emergeva prepotente da alcune vicende politiche del presente. Mi riferisco alla tentata e fallita riforma sanitaria del 1994, quando l’amministrazione del presidente Bill Clinton cercò di introdurre un sistema di assicurazioni di malattia gestite da istituzioni quasi-governative e obbligatorie per tutti, regolamentate da un National Health Board; e quando un gruppo di legislatori Democratici abbozzò una proposta più radicale, cioè un sistema sanitario nazionale, pubblico e universale di tipo (si dice oltre Atlantico) “cana-dese”. Il problema da affrontare era quello degli americani senza assistenza sanitaria, 39 milioni allora, saliti a più di 44 milioni nel 1998, il 16% della popolazione [1].
Il tentativo di riforma, come si sa, è fallito. Se ne è ridiscusso nella prima fase della campagna per le elezioni primarie presidenziali del 2000, fra gli allora candidati alla nomination Democratica Al Gore e Bill Bradley. Ma con poco vigore, in verità; benché alcuni sondaggi d’opinione mostrassero come fosse in crescita l’approvazione dei cittadini per le riforme sociali, in particolare per un’estensione dell’assistenza sanitaria e la sal-vaguardia della previdenza sociale [2]. Le ragioni del fallimento del 1994 sono state individuate in varie e talvolta contraddittorie direzioni: la farraginosità del sistema proposto da Bill e Hillary Clinton; la sua natura troppo socializzata e regolamentata ovvero, al con-trario, troppo privatistica; gli errori politici dell’amministrazione, che non seppe coinvolgere né i cittadini né i legislatori; l’opposizione di potentissimi interessi organizzati (l’industria farmaceutica, le assicurazioni private, le associazioni professionali dei medici) in grado di travolgere qualunque volontà politica. La domanda che a me sembrava ineludibile era tuttavia un’altra, e cioè se fosse davvero possibile, in termini politico-elettorali, immaginare sistemi sanitari universali quando ci fosse, come c’è, un esercizio effettivo tutt’altro che universale del diritto di voto; quando vota, nel migliore dei casi, la metà degli aventi diritto [3]. Questa domanda immediata rinviava a una questione storica più generale, complessa e di lungo periodo, che formulo qui con due affermazioni molto secche e prive di sfumature, ma che in effetti sono solo due ipotesi di ricerca. Mettiamola così: negli Stati uniti non c’è uno stato sociale universalistico perché gli americani non votano; e viceversa, gli americani non votano perché negli Stati uniti non c’è uno stato sociale universalistico. Le due ipotesi sono intrecciate, e si vedrà come.
Qualunque ragionamento su queste ipotesi richiede almeno un abbozzo di discorso sulla cittadinanza sociale negli Stati uniti. Nel 1997 la Organization of American Historians (OAH), l’associazione che raccoglie gli storici statunitensi americanisti, tenne il suo congresso annuale su The Meanings of Citizenship in America [4]. Nella relazione di apertura, la presidente dell’OAH Linda Kerber sottolineò come la cittadinanza americana abbia una storia complessa, non lineare, non “progressiva”; persone e gruppi diversi, diversi per razza, genere e condizione sociale, hanno fatto esperienza dei significati della cittadinanza in modi diversi, in periodi diversi, e con diversi intrecci degli elementi che fondano le tre cittadinanze (civile, politica e sociale) individuate analiticamente a suo tempo da T.H. Marshall [5]. Secondo Kerber, idee di responsabilità sociale pubblica e quindi di cittadinanza sociale sono state presenti nella storia americana fin dalle origini; e queste idee sono state spesso difese ricordando che il governo federale fu istituito, a conclusione del processo rivoluzionario e indipendentista, anche allo scopo di “promuovere il benessere generale [general welfare]”, come recita il preambolo della Costituzione del 1787. Naturalmente il significato di general welfare, così come quello di cittadinanza, è stato da allora terreno di conflitto politico-culturale, ed è stato piegato in una molteplicità di direzioni. Solo alla fine dell’Ottocento emerse il termine general-welfare state a indicare le funzioni positive, desiderabili e ancora tutte da inventare del governo federale o nazionale. Pare che a usarlo per primo fosse lo scienziato politico della Johns Hopkins University W.W. Willoughby, nel saggio An Examination of the Nature of the State (1896) [6].
Una cosa deve essere chiara: general welfare e general-welfare state si riferivano al governo nazionale e ai suoi compiti. Tuttavia nel sistema federale i luoghi della public responsibility erano gli stati; e i governi statali non attesero la fine dell’Ottocento per esercitare gli ampi poteri di cui godevano [7]. Era a livello degli stati che si definivano i diritti di cittadinanza; una prima affermazione del primato della cittadinanza nazionale su quella statale si ebbe, in effetti, solo dopo la Guerra civile [8]. Furono gli stati a istituire sistemi scolastici pubblici e gratuiti; e l’accesso all’istruzione è uno dei primi elementi che definiscono la cittadinanza sociale secondo Marshall. Per tutto l’Ottocento, furono gli stati a sviluppare una tale congerie di politiche di intervento economico-sociale che gli osservatori europei ne erano sorpresi. Nel suo classico studio The American Commonwealth (1888), l’inglese James Bryce scrisse che il dogma che il governo migliore è quello che governa di meno, dominante a Washington, D.C., si mostrava del tutto privo di fondamento nelle varie democrazie che formavano la federazione; esse erano “desiderose dell’interferenza statale tanto quanto la democrazia britannica”, e spingevano “l’azione di governo in campi sempre più ampi” senza preoccuparsi della dottrina del laissez-faire che avrebbe dovuto vietarlo. L’elenco dei campi d’intervento era nutrito. Comprendeva l’istruzione, appunto, ma anche il controllo delle corporations e delle condizioni di lavoro nelle fabbriche, e aiuti, servizi e provvidenze a favore degli agricoltori. Gli agricoltori americani, commentò Bryce, erano “oggetto della sollecitudine paterna” degli stati ben più degli agricoltori europei [9]. Intorno al volgere del secolo questa tendenza si accentuò e, per ragioni simili a quelle discusse in Europa, negli stati più industrializzati e popolosi si tradusse in legislazione sociale e sul lavoro.
Dunque, se all’inizio del Novecento era difficile vedere oltre Atlantico i segni di uno stato sociale di tipo “europeo”, era anche perché si guardava nella direzione sbagliata. Si guardava alla capitale federale e non alle capitali statali. Forzando un po’ la mano, si può dire che gli Stati uniti non avevano uno stato sociale nazionale perché avevano un patchwork di stati sociali assai differenziati fra loro [10]. Con la presidenza di Woodrow Wilson (1913-1921) ciò cominciò a cambiare; cambiò poi decisamente con il New Deal negli anni Trenta-Quaranta, e con le innovazioni della cosiddetta Great Society negli anni Sessanta [11]. E tuttavia la capacità di New Deal e Great Society di fondare una cit-tadinanza sociale a base nazionale fu limitata. Non ci si avvicinò mai alla definizione marshalliana, che di fatto sembrava descrivere l’esperienza britannica del secondo dopo-guerra: fare “entrare i diritti sociali nello status della cittadinanza” e creare così “un diritto universale a un reddito reale non misurato sul valore di mercato del soggetto” [12]. Le ragioni di questi sviluppi limitati sono state individuate in vari fattori: l’eterogeneità etnica e culturale del paese (per cui vari gruppi non si fidano l’uno dell’altro e sono poco disposti a dare troppo potere a chi lo detiene); l’individualismo, l’anti-statalismo e la fiducia nel mercato come strumento per eliminare la povertà; la mancanza di un forte tradizione centralista e quindi la frammentazione delle giurisdizioni; il basso livello di sindacalizzazione e i sentimenti anti-sindacali diffusi in larghe fasce di opinione pubblica; l’ostilità del mondo degli affari e delle associazioni professionali; infine, la mancanza di un forte movimento socialista, paragonabile a quelli europei [13]. Altre ragioni avevano a che fare con la struttura politico-elettorale del paese [14]; fra queste ritengo debba essere inserita la struttura della partecipazione e non-partecipazione elettorale.
2. Perché gli americani non votano (più)?
Prima di procedere oltre nell’esplorazione di questa ipotesi, vorrei inquadrare meglio il problema storico del non-voto negli Stati uniti. Vorrei farlo guardando al lungo periodo, non solo al Novecento ma anche all’Ottocento. “Perché gli americani non votano?” è una domanda che possono porsi politologi e sociologi; gli storici devono piuttosto chiedersi, “Perché gli americani non votano più?”. Nell’Ottocento, infatti, nell’età dell’oro del suf-fragio universale maschile, gli americani votavano in massa. Alle elezioni presidenziali, fra il 1840 e il 1900, si raggiungevano regolarmente percentuali nazionali di partecipazione dell’80% degli aventi diritto al voto; negli stati più sviluppati, popolosi e industrializzati del nord del paese queste percentuali salivano fino all’85-90%. La partecipazione scese len-tamente nei primi anni del Novecento, precipitò al 50% negli anni Venti, poi risalì solo epi-sodicamente al 60% o poco più (si vedrà quando). La stessa sorte toccò alle elezioni con-gressuali di medio termine, dove oggi vota un terzo dell’elettorato potenziale; alle elezioni statali e municipali; e infine alle elezioni referendarie, dove decisioni importanti per gli stati e le comunità sono spesso prese dal 15-25% degli elettori. La scarsa partecipazione elettorale, insomma, non è un dato “naturale” della democrazia americana. È piuttosto il prodotto storico di cambiamenti storici, che devono essere spiegati.
L’approccio storico deve fare i conti con le profonde differenze di giudizio sul fenomeno che, dagli anni Cinquanta in poi, sono emerse fra gli analisti americani. Alcune valutazioni sono state e sono pessimistiche e preoccupate. Il non-voto, si è detto, comporta una riduzione di fatto dei diritti di cittadinanza. È il “ventre molle” del sistema, il risultato di un regime politico-sociale che limita le alternative politiche offerte agli elettori, e che emargina schiere di cittadini che non si sentono rappresentati o difesi nei loro interessi. È il segno di una crisi della democrazia, di una “democrazia dimezzata” (secondo una definizione del New York Times) nella quale a partecipare sono solo i ceti medi [15]. Altre valutazioni, forse le più note almeno in Europa [16], sono state e sono invece ottimistiche e rassicuranti. Il non-voto, si è detto, è indice di modernità. È “un riflesso della stabilità del sistema” e della soddisfazione dell’elettorato; è “politica della felicità” [17]. Lungi dall’essere un segno di crisi, si è detto, il non-voto è piuttosto una condizione per superare la crisi della democrazia nei regimi liberal-democratici contemporanei, una crisi indotta da un “eccesso” di partecipazione, elettorale e di altro tipo, e da un sovraccarico di domande sociali. Negli anni Settanta il politologo Samuel Huntington riassunse queste argomentazioni scrivendo che “l’efficace funzionamento di un sistema politico democratico richiede generalmente una certa misura di apatia e non coinvolgimento da parte di alcuni individui e gruppi” [18].
Le ricerche sociologiche sembrano confermare le analisi più preoccupate. Esse mostrano che l’assenteismo alle urne non è socialmente neutro. È certo diffuso ovunque, ma acquista un carattere patologico nelle fasce più giovani [19], più povere e meno istruite della popolazione, e fra alcune importanti minoranze etnico-razziali. Il 20% più ricco della popolazione vota quasi il doppio del 20% più povero. I gruppi a reddito più basso votano al 45%, quelli a reddito più alto all’85%. Chi ha un’istruzione elementare vota al 50%, chi ha un’istruzione universitaria al 92%. I bianchi votano al 60%, gli ispanici al 30% [20]. Insomma, la correlazione fra reddito e istruzione, da una parte, e partecipazione elettorale dall’altra è diretta e visibile; e si tratta di un aspetto specifico di una più generale e ben nota cor-relazione fra reddito e partecipazione a ogni forma di attività collettiva, politica e sociale [21]. Le ricerche sociologiche mostrano inoltre che, fra le ragioni addotte per il non-voto, ha un ruolo centrale la convinzione di non trovare un’adeguata rappresentanza dei propri interessi [22]. Quasi la metà dei non-votanti, in effetti, ha due caratteristiche: è povera e ritiene che il governo non faccia abbastanza per i poveri [23]. Sembra dunque paradossale che a essere più “felici” e soddisfatti di come va il mondo siano proprio coloro che meno ne sono premiati. E sembra anche paradossale che a celebrare il non-voto siano degli intellettuali, che votano moltissimo e che quindi, in effetti, celebrano il non-voto degli altri.
Le ricerche storiche sulle origini del non-voto vanno nella stessa direzione. Come si è detto, nell’Ottocento gli americani votavano molto, e tutti; anzi i poveri votavano più dei ricchi. Esisteva una correlazione inversa fra reddito e partecipazione [24]. L’universo elet-torale che si formò all’inizio del Novecento era dunque diverso non solo quantitativamente, cioè più ristretto, ma anche qualitativamente; era più middle-class, aveva acquistato un bias di classe. Fu in questo contesto che i primi due ricercatori che si occuparono della crisi di affluenza alle urne, cioè i sociologi Charles Merriam e Harold Gosnell, poterono porsi nel 1924 un interrogativo che sarebbe stato impensabile trent’anni prima: “Perché in fin dei conti l’individuo vota?” [25]. Da allora, secondo il politologo Walter D. Burnham, gli Stati uniti erano tornati a essere una “repubblica di proprietari” come alle origini storiche (e mitiche) del paese. Da allora, secondo John Kenneth Galbraith, quella americana è di-ventata “una democrazia che appartiene ai benestanti e agli appagati”, dove “la ricchezza monopolizza sostanzialmente il diritto di voto” [26]. Per spiegare questa trasformazione, gli storici hanno concentrato l’attenzione sui cambiamenti politico-istituzionali avvenuti al volgere del secolo: il declino dei partiti di massa e l’avvento di un regime politico a “partiti deboli”; i cambiamenti nella legislazione elettorale, compreso il trionfo della segregazione razziale nel Sud e quindi l’espulsione dei neri dall’universo elettorale attivo; la personalizzazione della politica; il passaggio da una democrazia rappresentativa di interessi diffusi a forme di rappresentanza di interessi organizzati forti; la concentrazione del potere in organi di governo centralizzati e burocratici, poco sensibili all’influenza elettorale (gli enti dello stato amministrativo, la Banca federale, la Corte suprema) [27].
Alcuni storici, in polemica con le interpretazioni ottimiste del non-voto e riprendendone il linguaggio, si sono chiesti con ironia: forse che nell’Ottocento il sistema era più instabile che nel Novecento? Forse che gli americani erano allora meno “felici” di oggi? La risposta, nelle intenzioni, è ovviamente negativa. In realtà, da un punto di vista storico, credo che queste domande debbano essere intese come tutt’altro che polemiche; dovrebbero essere prese sul serio, ed esplorate meglio. Mi limito a ricordare, a proposito della supposta stabilità del sistema ottocentesco, il disastro sanguinoso della Guerra civile e le aspre contrapposizioni regionali, politiche e di partito che la precedettero e seguirono, per decenni. Fra l’altro, l’inizio dell’universo elettorale novecentesco (le elezioni presidenziali del 1896) coincise con la scomparsa dalla scena della generazione che combatté la Guerra civile, e delle sue passioni. E a proposito della felicità, ricordo come questo termine abbia una valenza densissima nel lessico politico-sociale americano, a cominciare dal diritto al “perseguimento della felicità” scritto nella Dichiarazione di indipendenza [28]. Ricordo inoltre come questo termine abbia una pluralità di significati storici, che hanno a che fare con diverse idee di partecipazione e diverse definizioni di cittadinanza. Nell’Ottocento era viva un’idea repubblicana che parlava di felicità pubblica e civile, quindi di cittadinanza politica attiva non solo come diritto ma anche come dovere e piacere. Nel Novecento è emersa invece con maggior vigore un’idea di felicità privata che si realizza non nella politica ma altrove, nel mercato, nel mercato dei consumi di massa e degli stili di vita. La formula che riassume quest’idea è quella di “felicità tramite il consumo”; la libertà diventa libertà di scelta fra beni di consumo [29].
3. Bassa partecipazione, scarsa tutela
Negli anni Trenta del Novecento, quando si pose il problema della creazione di uno stato sociale nazionale, il non-voto era già un dato centrale della vita pubblica degli Stati uniti. Da allora, a suggerire l’esistenza di una possibile relazione fra la scarsa partecipazione elettorale e il carattere limitato della cittadinanza sociale negli Stati uniti, si sono manifestati tre fenomeni che considero indicatori cruciali per legittimare almeno la formulazione di una ipotesi del genere. Il primo indicatore è piuttosto elementare. Gli Stati uniti hanno avuto, nel corso del Novecento, insieme lo stato sociale di gran lunga più limitato e il non-voto di gran lunga più esteso fra i più importanti paesi comparabili (democratici, industrializzati, capitalistici); per entrambi questi aspetti gli osservatori hanno parlato di una “eccezionalità” del caso statunitense. Il secondo indicatore è più complesso e controverso. A cominciare dagli anni Trenta, le dimensioni della partecipazione elettorale e la portata delle politiche sociali hanno disegnato una società stratificata, spaccata in due da fratture molto simili, che si sono sovrapposte e rafforzate a vicenda, e che forse sono la stessa frattura; da una parte ci sono gruppi che votano e che godono di tutela sociale, dall’altra gruppi che non votano e che sono esclusi dalla tutela oppure ricevono una assistenza non garantita. Il terzo indicatore, infine, è questo. Dal primo dopoguerra in poi i periodi di massima partecipazione elettorale sono stati quelli in cui la questione dei diritti sociali è stata al centro dell’agenda politica; in questi casi, la domanda di cittadinanza sociale e l’apertura di concrete possibilità politiche di allargarne la portata sembrano aver prodotto un incremento di affluenza alle urne, sia pure in contesti di scarsa mobilitazione ormai strutturale.
Non mi soffermo molto sul primo indicatore, soprattutto perché i dati in proposito sono piuttosto noti. Tutte le analisi comparate sottolineano come, dal punto di vista della affluenza alle urne, gli Stati uniti abbiano a lungo occupato gli ultimissimi posti nelle graduatorie internazionali delle democrazie elettorali. Nella seconda metà del Novecento il gap era diventato enorme. Gli stati a più alta partecipazione avevano percentuali che si aggiravano intorno al 90%, quasi il doppio delle percentuali americane. Ma anche la percentuale media in venti paesi europei ed extraeuropei, calcolata per gli anni Ottanta, era di venticinque punti superiore a quella statunitense (78% contro 53%). Da allora gli Stati uniti erano superati in negativo solo dalla Svizzera (con il 49%), ed erano diventati una “società a partecipazione eccezionalmente bassa” [30]. Anche la corsa verso il non-voto e “verso una limitazione funzionale del diritto elettorale, soprattutto per le classi inferiori” è stata, nel secolo appena trascorso, una peculiarità statunitense. In tutte le altri nazioni comparabili la tendenza è stata esattamente opposta, e cioè verso l’incorporamento pro-gressivo e infine pressoché totale del pubblico di massa nel sistema politico [31]. Queste vicende novecentesche hanno qualcosa di paradossale se si pensa che, nell’Ottocento, la cittadinanza politica attiva ed egualitaria, quindi l’elevata partecipazione, erano componenti essenziali non solo della vita pubblica degli Stati uniti ma anche della loro identità, della narrazione delle ragioni metastoriche della loro esistenza, e della loro esemplarità per l’Europa [32]. Nel Novecento questo paradigma transatlantico si è rovesciato, ed è stato un elettorato demobilitato a costituire una caratteristica specifica della “democrazia in America”.
Anche a proposito dello stato sociale, tutte le ricerche comparate confermano che quello degli Stati uniti si è dimostrato, dagli anni Trenta in poi, un “welfare state riluttante”, una vera e propria “eccezione” fra i paesi ricchi [33]. Gli effetti di questa eccezionale riluttanza sono stati evidenti e prevedibili. L’economia di mercato, lasciata a se stessa, ha prodotto livelli di diseguaglianza e povertà paragonabili in tutte le società industriali capitalistiche, con pochissime eccezioni. Alla fine del Novecento, negli Stati uniti come in Inghilterra e in Svezia, in Australia e in Irlanda, in Canada e in Italia, la percentuale di famiglie con un reddito inferiore al 40% del reddito mediano, quindi ritenute con-venzionalmente povere, si aggirava intorno al 20-25%. Ma bisogna dire meglio: tante erano le famiglie che avrebbero avuto un reddito inferiore al 40% del reddito mediano se non fosse intervenuto lo stato, se cioè non fosse intervenuta la redistribuzione del reddito operata dal prelievo fiscale e dai trasferimenti di risorse delle politiche sociali. Dopo l’in-tervento dello stato, il quadro si fa meno fosco; la percentuale di famiglie povere si riduce drasticamente, scende mediamente al 5%. Ciò è accaduto ovunque tranne negli Stati uniti, dove questa percentuale è rimasta intorno al 12%, più del doppio di quella degli altri paesi considerati. Questa diversità americana è dovuta, come ha scritto il premio Nobel per l’economia Robert Solow, alla “taccagneria” del sistema americano, un sistema che è lean and mean rispetto agli standard degli altri paesi comparabili, e che consente “la persistenza di redditi così bassi da essere incompatibili, agli occhi della gente comune, con la piena cittadinanza” [34].
Il problema, naturalmente, è se esistano correlazioni storiche significative fra questi due fenomeni così macroscopici. Per il momento, alla luce di quello che ho appena detto, credo che almeno si possa mettere in discussione, e forse falsificare, un certo senso comune acquisito. Penso all’idea secondo cui quella statunitense sarebbe una polity che, rispetto all’Europa, premia più l’autogoverno e la partecipazione politica dei cittadini che la tutela sociale da parte dello stato [35]. In realtà, sembra proprio che le cose non stiano così. Sembra proprio che negli Stati uniti, dacché si è posto il problema dello stato sociale nazionale, una tutela assai limitata si sia accompagnata a una partecipazione effettiva altrettanto limitata. Ma per elaborare ulteriormente questa affermazione conviene fare riferimento agli altri due indicatori che ho suggerito sopra. Ripeto per esaminarlo più approfonditamente quale sia, a mio parere, il secondo indicatore rilevante. Dagli anni Trenta in poi è emersa, e si è accentuata, una frattura politico-sociale che è messa in e-videnza sia dalla struttura della partecipazione elettorale che da quella delle politiche so-ciali. Da un lato della frattura ci sono gruppi sociali “forti” che votano, e che sono titolari di benefici sociali ritenuti legittimi; dove “legittimi” sono i programmi assicurativi della Social Security, gli unici che siano considerati parte integrante dei diritti di cittadinanza. Dall’altra ci sono gruppi sociali “deboli” che non votano e che sono esclusi da ogni beneficio; o che, in quanto “poveri bisognosi”, sono inclusi nei programmi di assistenza pubblica, cioè in programmi controversi, instabili, e che si ritiene non creino diritti [36]. In questo caso, sembra che ci sia un ovvio collegamento fra voto e tutela, e fra non-voto e non-tutela.
4. Chi partecipa è tutelato: il New Deal
Se si guarda alle politiche del New Deal il discorso si chiarisce. Nelle intenzioni del presidente Franklin D. Roosevelt (1933-1945) c’era l’idea di una rete di sicurezza sociale ampia, per tutti. Secondo l’allora Segretaria al lavoro Frances Perkins, “il presidente voleva che tutti fossero coperti da un sistema di sicurezza sociale in ogni contingenza della vita – ‘dalla culla alla tomba’, diceva” [37]. Negli anni più sociali del New Deal (1935-1938), Roosevelt fece continui riferimenti a una democrazia nella quale il “diritto a lavorare” e il “diritto a vivere” fossero elementi centrali della cittadinanza, tanto quanto il diritto di voto; nella quale il governo che difendeva le libertà politiche avesse anche l’obbligo di agire contro le “schiavitù economiche” [38]. Negli anni di guerra, poi, Roosevelt infiammò ul-teriormente la sua retorica. Nel messaggio sullo Stato dell’Unione del 1944 affermò che la libertà non poteva esistere senza sicurezza, e che il paese aveva ormai accettato una “seconda Dichiarazione dei diritti”, e cioè un vero e proprio “Economic Bill of Rights”. Fra questi diritti c’erano il diritto al lavoro, a un guadagno sufficiente e a uno stile di vita di-gnitoso; il diritto degli agricoltori a un prezzo giusto e degli uomini d’affari a non essere schiacciati dai monopoli; il diritto a una casa decente, a cure mediche adeguate, alla pro-tezione dal timore economico della vecchiaia, delle malattie, degli incidenti e della di-soccupazione; il diritto all’istruzione. Questi diritti dovevano applicarsi a “tutti – senza distinzioni di classe, razza o credo”; e dovevano diventare un concreto programma di governo. Disse Roosevelt: “Tutti questi diritti vogliono dire sicurezza. E dobbiamo essere preparati, una volta che avremo vinto questa guerra, ad andare avanti, nella loro applicazione, verso nuovi obiettivi di benessere e di felicità umana” [39].
Ma le cose andarono diversamente. Il Social Security Act del 1935 creò un sistema di pensioni di vecchiaia (Old Age Insurance, poi diventato Old-Age, Survivors’, and Disability Insurance, ovvero OASDI) e un sistema di assegni di disoccupazione (Unemployment Compensation) che riguardavano i lavoratori con un impiego stabile, e che avevano carattere di assicurazioni a base contributiva. Entrambi i sistemi erano finanziati in egual misura dai versamenti dei salariati e dei datori di lavoro (payroll taxes); i benefici erano proporzionali ai contribuiti versati. La Old Age Insurance era gestita direttamente dal governo federale. La Unemployment Compensation, invece, era amministrata a livello statale con l’incoraggiamento e l’aiuto finanziario del governo centrale; ciò portò a una grande differenza nei contribuiti di disoccupazione pagati dai vari stati, una differenza che è visibilissima ancora oggi (nel 1997 si andava dai 260-270 dollari settimanali nel Massachusetts o nelle Hawaii ai 133 dollari della Louisiana). I primi emendamenti al Social Security Act, nel 1939, intaccarono in linea di principio il carattere strettamente assicurativo delle pensioni di vecchiaia, ma non ne rovesciarono il segno politico, non ne fecero davvero una assicurazione sociale. Questi emendamenti estesero i benefici anche alle mogli anziane degli assicurati, purché fossero “dipendenti”, e alle vedove e agli altri dependent survivors (i figli). Inclusero dunque soggetti che non avevano direttamente e personalmente pagato i contributi. Ma lo fecero in nome della unità organica e della protezione della famiglia [40].
Dopo la fine della guerra, i tentativi di istituire un sistema sanitario nazionale, iniziati da Roosevelt e protrattisi per la prima parte della presidenza di Harry Truman (1945-1953), fallirono. Molti New Dealers e “sindacalisti sociali” avevano guardato con interesse alle esperienze socialdemocratiche europee, e avevano cercato di introdurre anche negli Stati uniti un sistema obbligatorio e generale di assistenza medica; dapprima pensarono di farlo tramite emendamenti al Social Security Act [41], poi tramite disegni di legge distinti nel 1939 e nel 1943. Nel 1945 il Senatore Robert Wagner presentò il progetto di una National Health Insurance che ottenne, in nome dell’Economic Bill of Rights rooseveltiano, anche l’appoggio di Truman. Il progetto fu tuttavia sconfitto nel 1947 dagli sforzi congiunti del partito Repubblicano e della American Medical Association, per i quali si trattava di una misura “socialista”. La sconfitta non parve allora definitiva, ma in prospettiva lo fu. I sindacati avevano sostenuto la legge; ma ora, stanchi di aspettare, cominciarono a ne-goziare piani assicurativi aziendali privati nell’ambito della contrattazione collettiva. Questa fu la svolta fatale verso l’affossamento della riforma sanitaria nazionale, perché portò alla smobilitazione della più potente e organizzata constituency a suo favore. Gli operai sin-dacalizzati delle grandi industrie ottennero assicurazioni private ampie e talvolta generose, finanziate da loro stessi ma anche in egual misura dai datori di lavoro; e si disinteressarono del destino delle politiche pubbliche in proposito. I lavoratori più deboli, marginali, periferici e non organizzati rimasero fuori da ogni protezione, non avendo capacità di influenza né economica né politica. Fu così che, come ha scritto uno storico, “la sicurezza sanitaria per alcuni precluse (…) la possibilità della sicurezza sanitaria per tutti” [42].
Le conseguenze di questi sviluppi furono subito evidenti. Il fatto che tutte queste assicurazioni, private e aziendali come quelle sanitarie o pubbliche come quelle di vecchiaia, fossero legate a un lavoro stabile e magari sindacalizzato ne definì i confini. Per esempio, la Old Age Insurance copriva poco più della metà della forzalavoro, in gran parte formata da lavoratori maschi bianchi. Rimasero esclusi i dipendenti pubblici, i braccianti agricoli, i lavoratori stagionali e quelli migranti, i lavoratori domestici, i marinai, i lavoratori nei settori non sindacalizzati o nelle regioni non sindacalizzate come il Sud; costoro erano anche, in maggioranza, neri e donne [43]. A una quota ristretta di popolazione, la meno abbiente, anch’essa formata soprattutto da donne e neri, furono riservati i ridotti benefici dell’assistenza pubblica, cioè di quei programmi che, unici, cominciarono a essere definiti “welfare” nel linguaggio comune. I programmi principali di questo tipo creati dal Social Security Act del 1935 erano due: l’Aid to Families with Dependent Children (AFDC), che di fatto offriva aiuto alle madri singole senza altri mezzi di sostentamento; e la Old Age Assistance, ovvero l’assistenza agli anziani indigenti. Questi programmi erano finanziati dalla fiscalità generale, erano gestiti dagli stati con il contributo del governo federale (di nuovo con grandi disparità da stato a stato), ed erano destinati specificamente ai needy poors che dimostrassero di essere tali (means-tested). Portavano dunque con sé lo stigma della povertà e della “dipendenza” dalla società e dal governo, e sempre più furono associati alle minoranze razziali. Si creò così uno stato sociale a due (o meglio a tre) livelli, che rispecchiava una stratificazione sociale per razza, genere e tipo di occupazione [44].
Le ragioni di tutto ciò non erano difficili da identificare, in positivo e in negativo. In positivo, lo stato sociale del New Deal crebbe e si plasmò intorno a constituencies politico-elettorali che avevano due nuclei attivi e mobilitati, cioè, da una parte, la classe operaia industriale organizzata (maschile e bianca) [45]; dall’altra, i ceti medi impiegatizi e professionali che trassero vantaggio dallo sviluppo della pubblica amministrazione. Le politiche newdealiste permisero ai Democratici di diventare il party of labor, non solo negoziando il consenso dei lavoratori che già votavano, ma anche riportando alle urne molti lavoratori che non votavano più. La partecipazione elettorale salì di parecchi punti in tutto il paese, fino ai picchi del 61% nel 1936 e del 62,5% nel 1940; salì soprattutto fuori del Sud, dove passò dal 66% nel 1932 al 73% del 1940; e salì soprattutto nelle aree industriali e nei quartieri operai [46]. In negativo, rimasero fuori o ai margini del “patto sociale” newdealista i soggetti più deboli che già votavano poco o niente: i lavoratori marginali, i neri, le donne che da poco avevano raggiunto il suffragio. In termini politici, l’ostacolo de-cisivo all’espansione universalistica dello stato sociale fu posto dai Democratici meridionali che rappresentavano regioni non industrializzate, non sindacalizzate, razzialmente se-gregate, dove la partecipazione era bassissima (intorno al 25%) e i neri non votavano affatto. Il fatto è che i Democratici erano un partito sezionale in una struttura co-stituzionale federale; nel Nord diventarono una sorta di “partito del lavoro” ma nel Sud continuarono a essere il partito della élite bianca razzista. Fu proprio il potere dell’ala meridionale dei Democratici, dentro il partito e in Congresso, a frenare l’espansione delle politiche sociali nazionali, a pretendere che molti dei programmi sociali attuati fossero gestiti dagli stati, e a imporre che le politiche statali fossero poco generose [47].
5. Chi chiede tutela, partecipa: gli anni Sessanta
Queste ultime considerazioni introducono il terzo importante indicatore. Ancora una volta, ne ripeto la formulazione per poi approfondirla: storicamente, dal primo dopoguerra in poi, i periodi di massima partecipazione elettorale negli Stati uniti sono stati quelli in cui la questione dei diritti sociali si è imposta al centro dell’agenda politica. Dopo i record negativi degli anni Venti, quando in due elezioni presidenziali votò meno della metà degli elettori potenziali (49% sia nel 1920 che nel 1924), i picchi in positivo sono stati raggiunti negli anni Trenta del New Deal di cui si è appena detto, e poi all’inizio degli anni Sessanta, in concomitanza con l’avvio dei conflitti e dei programmi sociali che caratterizzarono le amministrazioni dei presidenti John F. Kennedy (1961-1963) e di Lyndon B. Johnson (1963-1969). Allora l’affluenza alle urne fu del 65,5% nel 1960, del 63% nel 1964 e del 62% nel 1968. Un simile andamento è riscontrabile anche nelle elezioni congressuali di medio termine; dopo il collasso del 1926, quando l’affluenza precipitò al 35%, ci furono picchi importanti nel 1938 e poi di nuovo nel 1962 e nel 1966 (in tutti e tre gli anni con circa il 49% di votanti). In questi casi l’ipotesi interpretativa da considerare è se non sia stata proprio la domanda di cittadinanza sociale, e l’apertura di concrete possibilità politiche di allargarne la portata, a stimolare la partecipazione elettorale di gruppi im-portanti di cittadini; sia pure, sempre, partendo da livelli ormai strutturalmente molto bassi. Il caso del New Deal sembra confermare in maniera chiara questa ipotesi almeno per i lavoratori industriali. Il caso degli anni Sessanta è meno lineare, perché allora il picco di partecipazione si ebbe all’inizio del periodo, nel 1960, con una diminuzione successiva proprio in concomitanza con l’avvento delle politiche riformiste johnsoniane, fra il 1964 e il 1968.
Ciò che accadde allora è tuttavia significativo, perché si verificò una sorta di avvicendamento nei gruppi sociali mobilitati, un avvicendamento che era strettamente correlato al tipo di espansione delle politiche sociali. Le riforme di Johnson toccarono marginalmente la struttura dello stato sociale. Le innovazioni riguardarono l’estensione dell’assistenza ospedaliera agli anziani, in due direzioni distinte che rispecchiavano la natura duale del sistema esistente, e che comportarono due aggiunte distinte al Social Security Act (entrambe nel 1965). Il programma noto come Medicare istituì l’assicurazione ospedaliera per i cittadini che avessero superato i 65 anni d’età e che già fossero titolari di social security benefits. Come le altre assicurazioni, anche questa aveva carattere contributivo, era finanziata in eguale misura dai lavoratori e dai datori di lavoro, e acquisì subito stabilità e legittimità politica; alcuni servizi medici supplementari erano forniti su base volontaria e con il finanziamento diretto del governo federale, ma anch’essi implicavano il versamento di contributi mensili da parte di coloro che volessero usufruirne. Il programma noto come Medicaid riguardò invece l’assistenza medica per gli anziani indigenti. Come gli altri programmi di “welfare”, anche questo era finanziato dalla fiscalità generale (federale e statale congiunta), gestito dagli stati, e destinato a coloro che dimostrassero di essere bisognosi; fu quindi instabile e controverso fin dall’inizio, e negli anni scorsi è stato fra quelli più penalizzati dalle riduzioni di bilancio. Malgrado le novità di Medicare e Medicaid, tuttavia, negli anni Sessanta la crescita delle spese sociali avvenne soprattutto nei programmi di assistenza pubblica già esistenti. E avvenne grazie a un meccanismo originale e straordinario che faceva appello alla partecipazione dei cittadini.
Con l’Equal Opportunity Act (1964) e l’istituzione di un Equal Opportunity Office, il governo federale spinse i poveri a organizzarsi e a chiedere agli uffici locali di assistenza di essere inseriti nelle liste degli aventi diritto, e di avere maggiori e migliori prestazioni. Il governo federale, cioè, favorì l’espansione di un settore dello stato sociale tramite la pressione dal basso ovvero, come si disse, tramite la “massima partecipazione possibile” [48]. L’impresa aveva un cruciale risvolto partitico. Johnson voleva integrare nella coalizione elettorale Democratica soprattutto i cittadini neri (che erano anche i più poveri), sia quelli che erano emigrati al Nord, sia quelli che nel Sud stavano riconquistando i diritti politici. E mirava a farlo scavalcando le autorità locali, spesso Democratiche esse stesse, lente a muoversi, legate a vecchi interessi, razziste. I risultati furono molteplici, dirompenti e contraddittori. I neri si mobilitarono e l’assistenza pubblica esplose. Nacquero movimenti che parlavano di “diritti sociali” come la National Welfare Rights Organization. Fra il 1965 e il 1970 i beneficiari del programma Aid to Families with Dependent Children (AFDC) passarono da 1 milione di famiglie a 2,5 milioni, da 4,4 milioni di individui a 9,7 milioni; le spese salirono da 1,5 miliardi di dollari a 5 miliardi, e gli assegni medi mensili per famiglia da 135 a 190 dollari. Aumentarono anche le spese complessive del sistema-paese per il “social welfare”, dall’11,8% al 15,3% del prodotto nazionale lordo. I neri si iscris-sero non solo alle liste di “welfare” ma anche a quelle elettorali, per votare Democratico e spesso per votare per la prima volta. Il loro tasso di affluenza alle urne balzò dal 53% del 1960 al 68% del 1968. Il nuovo elettorato nero fu responsabile della crescita di par-tecipazione in tutto il Sud, che si adeguò a standard più vicini alle medie nazionali (dal 41% nel 1960 al 52% nel 1968) [49].
Nel contempo, e per reazione, i Democratici persero consensi fra i cittadini bianchi del Sud e nel loro tradizionale elettorato operaio (bianco) del Nord. I working-class taxpayers si ribellarono a un’espansione dello stato sociale che essi percepirono come favorevole ai minority poors e pagata dalla fiscalità generale, cioè anche da loro stessi. E smisero di votare Democratico o addirittura smisero di votare del tutto. Il “partito del lavoro” di origine newdealista e rooseveltiana aveva mantenuto per decenni, e accresciuto nel tempo, il consenso di una stragrande maggioranza della classe operaia industriale, in particolare di quella organizzata; ma ora ricevette una brutale ricusazione. Degli operai che votavano, votava Democratico il 64% nel 1944, il 76% nel 1948, e ancora il 75% nel 1964 (l’80% degli iscritti ai sindacati) [50]. Ma nel 1968 la percentuale precipitò al 50%. Molti lavoratori fecero scelte più radicali e uscirono dall’universo elettorale attivo. Secondo stime elaborate dal National Election Study, i tassi di affluenza alle urne della categoria operaia “operative-crafts” scesero dal 79,5% (1960) al 71% (1972) al 59% (1980); quelli della categoria “laborers” dall’80% (1960) al 58% (1972) e al 60% (1980). Le categorie “professional, technical, managerial” restarono invece stabili per tutto il periodo, con tassi molto elevati (80-90%) [51]. Insomma, mentre cresceva l’elettorato nero, si misero in moto altri processi importanti: il collasso della coalizione Democratica, sim-boleggiato nel 1972 dal rifiuto delle organizzazioni sindacali di appoggiare ufficialmente il candidato presidenziale del partito, George McGovern; la rivolta fiscale di strati rilevanti di popolazione e l’inizio del ridimensionamento dello stato sociale; e infine il ritorno del non-voto ai livelli bassissimi degli anni Venti.
6. Un’ipotesi di ricerca: elettori, stato sociale, partiti
Per concludere, propongo un possibile itinerario di ricerca (di ricerca storica empirica, intendo) che può aiutare a gettare luce sull’intera faccenda qui discussa. Questo itinerario riguarda il rapporto fra elettori-cittadini, stato sociale e partiti politici dalla fine dell’Ottocento in poi. Propongo questo tema perché mi è familiare, avendone già indagato alcuni aspetti, da altri punti di vista [52]; perché è significativo, visto che gli storici hanno indicato il declino dei partiti di massa all’inizio del Novecento come una delle cause della diminuzione di partecipazione elettorale; e infine perché è rilevante: suggerisco perché, assai schematicamente, con l’aiuto di alcune “testimonianze” storiche. Nell’Ottocento i partiti di massa erano i principali agenti della mobilitazione elettorale e della definizione dei contenuti e dei confini della cittadinanza politica. Nei primi anni del Novecento, in molti settori della società americana, per molti motivi, crebbe l’insofferenza nei loro confronti e ci furono attacchi espliciti ed efficaci. Questi attacchi, almeno all’inizio, presero di mira gli aspetti più controversi della party democracy, e cioè il predominio dei partiti negli organi di governo e nell’amministrazione pubblica (la cosiddetta party supremacy); e i loro legami, indicati come clientelari, “corrotti” e fonti di corruzione, con l’elettorato lower-class e immigrato delle città (la cosiddetta boss and machine politics). Alcuni fra i riformatori enunciarono strategie di cambiamento piuttosto complesse e sofisticate, che cercavano di conciliare la riorganizzazione del sistema politico con il mantenimento delle tradizioni ottocentesche di partecipazione popolare. Fra costoro vi era Lincoln Steffens, l’esponente più in vista di quei giornalisti “progressisti” e attivisti sociali per i quali il presidente Theodore Roosevelt (1901-1909) coniò il termine spregiativo di muckrakers, “rastrellatori di letame”.
Steffens affermò che, se si voleva davvero battere le machines, occorreva rendersi conto che esse svolgevano funzioni sociali, che fornivano ai loro elettori servizi che non esistevano altrove. Esse fornivano aiuto, rifugio e asilo ai bisognosi; svolgevano un “sanctuary service” come le chiese di una volta. Se si voleva davvero vincere, disse Steffens, dovevano essere i riformatori stessi a fornire questi servizi tramite l’autorità pubblica, quindi a dotarsi di un “programma sociale”[53]. Il “programma sociale” emerse dall’interno del partito Democratico, anche da uomini politici legati alla machine politics e in particolare alla “macchina” più famosa di tutte, quella di Tammany Hall a New York City [54]. Fin dai tempi della presidenza Wilson, i Democratici usarono le politiche federali per gettare le basi di una cittadinanza sociale nazionale e, nel contempo, per riformare i partiti e per far vincere il proprio. Con Wilson, ha scritto lo storico Stephen Skowronek, lo sviluppo dello stato amministrativo e sociale divenne “una estensione dello sviluppo del partito”, uno strumento “per accogliere un certo numero di diverse constituencies all’interno di una nuova coalizione nazionale Democratica” [55]. Un intellettuale wilsoniano, Charles McCarthy, sostenne nel 1915: “il partito Democratico deve dare una risposta a tutta la problematica della giustizia sociale se vuole mantenere il consenso delle classi industriali che stanno crescendo nelle città del Nord e che domandano proprio questo tipo di legislazione” [56]. Mezzo secolo dopo, questi progetti sembravano essersi realizzati; e tuttavia qualcosa si era perso per strada, qualcuno mancava all’appello, e si trattava proprio degli elettori dei quali si era preoccupato Steffens mezzo secolo prima.
All’inizio degli anni Sessanta l’analisi di chi mancasse all’appello fu fatta da alcuni osservatori eccentrici rispetto al mainstream politico. Si trattava del militante socialista Michael Harrington, nel pamphlet del 1962 The Other America: Poverty in the United States; e di una giovane sociologa radicale che è poi ritornata con regolarità su questi problemi, Frances Fox Piven, in un articolo del 1963. Secondo Harrington, i poveri in America erano diventati invisibili anche perché erano elettoralmente e quindi politicamente invisibili. Una volta i poveri “rappresentavano per i leader politici un motivo immediato, anche se cinico, di sollecitudine”; i loro quartieri “godevano del diritto di voto; servivano di base a organizzazioni operaie; potevano costituire una forza nelle contese politiche, non fosse che per il peso bruto della loro consistenza numerica”. Ora, continuava Harrington, nei loro quartieri non esistevano più organizzazioni di partito, quindi i poveri non votavano più e nessuno aveva interesse a occuparsi di loro. Nel paese si erano così formate “due nazioni” distinte: una società opulenta da una parte, e dall’altra una “nazione sotto-sviluppata”, separata e dimenticata [57]. Secondo Piven, finita l’epoca delle machines i poveri avevano cessato del tutto di essere rappresentati dai partiti, quindi di contare, quindi di votare; quindi non erano entrati nello stato sociale. Il risultato era che i “voti dei poveri non sono più comprati con private rewards” come ai tempi delle politiche clientelari, “né sono sollecitati con public rewards” elargiti dalle politiche sociali. L’unico potere rimasto loro, concludeva Piven, risiedeva nella capacità di rendersi visibili tramite la protesta di massa e la rottura violenta dell’ordine. Insomma Harrington e Piven sembravano d’accordo: niente partiti, niente esercizio del diritto di voto, niente diritti sociali (e una certa dose di disordine civile).
Credo che questo passaggio, dalla progettualità ottimistica di Steffens intorno al 1900 alle desolate constatazioni di Harrington e Piven intorno al 1960, debba essere indagato con maggiore attenzione tenendo conto di un fatto importante. In realtà, non tutti i riformatori di inizio Novecento condividevano le strategie “sociali” di Steffens. Anzi, la maggior parte dei critici anti-partito riteneva che uno dei vantaggi principali del ridimensionamento dei partiti di massa fosse proprio la neutralizzazione politica dell’elettorato popolare, ovvero delle “classi inferiori” o delle “classi pericolose”, come qualcuno diceva con linguaggio ancora ottocentesco: e così in effetti avvenne, ben oltre le loro intenzioni. Tutto ciò segnala una questione cruciale a proposito del rapporto storico fra partiti politici, cittadinanza politica attiva e cittadinanza sociale nella democrazia ame-ricana. E quindi anche a proposito di alcuni aspetti di quella democrazia che sono stati a lungo considerati come “peculiari”. La ridotta tutela sociale e la bassa partecipazione elettorale, così come i “partiti deboli”, sono caratteristiche che hanno marcato una differenza evidente fra l’esperienza degli Stati uniti e le esperienze dei principali paesi europei nell’arco del Novecento. Forse non è più così. Se è vero, come hanno sottolineato molti analisti, che a fine secolo il limitato stato sociale statunitense non è più l’eccezione di una volta, mano a mano che anche in Europa le politiche sociali sono state ridimensionate, i partiti di massa hanno mutato natura, e i “partiti del lavoro” hanno mutato strategie. E se è vero che anche il non-voto è diventato sempre di più un dato corrente della politica europea.

NOTE
1- A. Goldstein, Number of Americans Lacking Health Insurance Is Still Rising, in “International Herald Tribune”, 5 ott. 1999, p. 3.
2- S. Wilentz, The L-Word Makes a Comeback, in “International Herald Tribune”, 17 nov. 1999, p. 7; L. Menand, A Fine Detachment, in “New York Review of Books”, 9 mar. 2000, pp. 8-10.
3- Questa domanda emerge nelle ricerche di T. Skocpol, Boomerang. Clinton’s Health Security Effort and the Turn Against Government in U. S. Politics, New York, Norton, 1996; J.S. Hacker, The Road to Nowhere. The Genesis of President Clinton’s Plan for Health Security, Princeton, Princeton University Press, 1997. Si vedano inoltre, in proposito, le osservazioni di F.F. Piven – R.A. Cloward, Why Americans Don’t Vote, New York, Pantheon, 1988, pp. 7-8; A. Hacker, The Medicine of Our Future, in “New York Review of Books”, 12 giugno. 1997, p. 28. Sulle politiche sociali negli anni Novanta rinvio a B. Cartosio, L’autunno degli Stati uniti. Neoliberismo e declino sociale da Reagan a Clinton, Milano, Shake, 1998.
4- Program of the Ninetieth Annual Meeting of the Organization of American Historians, San Francisco, 17-20 aprile 1997; L.K. Kerber, The Meanings of Citizenship, in “Journal of American History”, dicembre 1997, LXXXIV, pp. 833-854 (trad. it. parziale I significati della cittadinanza, in “Acoma. Rivista internazionale di studi nordamericani”, primavera 1998, 13, pp. 80-87.
5- T.H. Marshall, Cittadinanza e classe sociale (1949), in Id., Cittadinanza e classe sociale, a cura di P. Maranini, Torino, Utet, 1976, pp. 1-71. Anche per Marshall, in effetti, le tre cittadinanze sono distinte analiticamente ma intrecciate storicamente; anche per lui hanno uno sviluppo non necessariamente lineare-progressivo, bensì complesso. Anche se talvolta calca la mano sulla loro successione nel tempo che è anche una successione logica (un “progresso costante”): prima la cittadinanza civile (Settecento), poi la cittadinanza politica (Ottocento), infine la cittadinanza sociale (Novecento).
6- S. Fine, Laissez Faire and the General-Welfare State. A Study of Conflict in American Thought, 1865-1901, Ann Arbor, University of Michigan Press, 1956, pp. 167-168. Sulle trasformazioni del periodo, vedi R. Baritono, Oltre la politica. La crisi politico-istituzionale negli Stati uniti fra Ottocento e Novecento, Bologna, Il Mulino, 1993. Anche l’Articolo I, sezione 8, della Costituzione indica il più ampio potere legislativo del Congresso come quello di provvedere al “general welfare of the United States”.
7- B.C. Campbell, Representative Democracy. Public Policy and Midwestern Legislatures in the Late Nineteenth Century, Cambridge, Harvard University Press, 1980; W. R. Brock, Investigation and Responsibility. Public Responsibility in the United States, 1865-1900, Cambridge (U.K.), Cambridge University Press, 1984; W.J. Novak, The People’s Welfare. Law and Regulation in Nineteenth-Century America, Chapel Hill, University of North Carolina Press, 1996.
8- Con il XIV emendamento (1868). Vedi J.H. Kettner, The Development of American Citizenship, 1608-1870, Chapell Hill, University of North Carolina Press, 1978.
9- J. Bryce, The American Commonwealth (1888), ed. riv. e accresc., New York, Macmillan, 1893, 2 voll., vol. II, pp. 537-544.
10- L’unico segno di uno stato sociale nazionale, alla fine dell’Ottocento, era quello rappresentato dalle pensioni di guerra ai veterani della Guerra civile. Vedi T. Skocpol, Protecting Soldiers and Mothers. The Political Origins of Social Policy in the United States, Cambridge, Harvard University Press, 1992.
11- E.D. Berkowitz, America’s Welfare State. From Roosevelt to Reagan, Baltimora, The Johns Hopkins University Press, 1991; E. Berkowitz – K. McQuaid, Creating the Welfare State. The Political Economy of Twentieth-Century Reform, Lawrence, University Press of Kansas, 1992.
12- T.H. Marshall, Cittadinanza e classe sociale… , cit., p. 39.
13- J. Higgins, States of Welfare. Comparative Analysis in Social Policy, Oxford (U.K.), Blackwell, 1981, pp. 60-68; N. Glazer, Il welfare state statunitense: ancora un’eccezione?, in Stato sociale e mercato. Il welfare state europeo sopravviverà alla globalizzazione dell’economia?, a cura di M. Ferrera, Torino, Fondazione Giovanni Agnelli, 1993, p. 205.
14- L.K. Kerber, The Meanings of Citizenship… cit., p. 44.
15- E.E. Schattschneider, The Semisovereign People. A Realist’s View of Democracy in America, Hinsdale (Ill.), Dryden Press, 1975; W.D. Burnham, The Current Crisis in American Politics, New York, Oxford University Press, 1982; Half a Democracy, editoriale del “New York Times”, in “International Herald Tribune”, 7 nov. 1988, p. 6.
16- Anche su questa sponda dell’oceano sono emerse valutazioni preoccupate sulla crescente apatia elettorale in Europa e sulla nascita di un “partito di massa del non voto”. Vedi R. Dahrendorf, Il non voto a sinistra: un premio per Haider, in “La Repubblica”, 8 ott. 1999, pp. 1, 15; R. Dahrendorf, La fuga dalle urne, in “La Repubblica”, 29 mar. 2000, pp. 1, 15. Dahrendorf definisce l’apatia dei votanti “l’altra faccia dell’autoritarismo”.
17- S.M. Lipset, Political Man. The Social Bases of Politics (1960), ed. accresc., Londra, Heineman, 1983, p. 185.
18- M.J. Crozier – S.P. Huntington – J. Watanuki, The Crisis of Democracy. Report on the Governability of Democracies to the Trilateral Commission, New York, New York University Press, 1975, p. 114.
19- Alle elezioni presidenziali del 1996 ha votato solo il 29% dei cittadini di 18-24 anni, e il 40% di quelli di 25-35 anni. Si veda M. Mitchell, A New Kind of Party Animal. How the Young Are Tearing Up the American Political Landscape, New York, Simon & Schuster, 1998, p. 76.
20-Per i dati precisi, relativi alle elezioni presidenziali del 1988, vedi R.A. Teixeira, The Disappearing American Voter, Washington (D.C.), The Brookings Institution, 1992, pp. 62, 66, 70.
21- S. Verba – N.H. Nie, Participation in America. Political Democracy and Social Equality, New York, Harper & Row, 1972.
22- J.F. Zipp, Perceived Representation and Voting, in “American Political Science Review”, marzo 1985, LXXIX, pp. 50-61.
23- La percentuale esatta è del 44%. Vedi J.E. Schwarz – T.J. Volgy, The Forgotten Americans. Thirty Million Working Poor in the Land of Opportunity, New York, Norton, 1992, pp. 158-160, 195 nota 20.
24- P. Kleppner, Who Voted? The Dynamics of Electoral Turnout, 1870-1980, New York, Praeger, 1982, pp. 34, 63-70.
25- C.E. Merriam – H.F. Gosnell, Non-Voting. Causes and Methods of Control, Chicago, University of Chicago Press, 1924, p. 22.
26- W.D. Burnham, The Turnout Problem, in Elections American Style, a cura di A.J. Reichley, Washington (D.C.), The Brookings Institution, 1987, pp. 118, 127; J.K. Galbraith, La cultura dell’appagamento (1992), Milano, Rizzoli, 1993, cit. da M. Sylvers, Gli Stati uniti tra dominio e declino. Politica interna, rapporti internazionali e capitalismo globale, Roma, Editori Riuniti, 1999, p. 266.
27- Discuto queste questioni in A. Testi, La politica dell’esclusione, Bologna, Il Mulino, 1994.
28- La Dichiarazione di indipendenza degli Stati uniti d’America, a cura di T. Bonazzi, Venezia, Marsilio, 1999.
29- The Culture of Consumption. Critical Essays in American History, 1880-1980, a cura di R.W. Fox – T.J.J. Lears, New York, Pantheon, 1983, pp. IX-X; E. Foner, The Story of American Freedom, New York, Norton, 1998, pp. 262-273.
30- G.B.Powell jr., American Voter Turnout in Comparative Perspective, in “American Political Science Review”, marzo 1986, LXXX, pp. 17-44; R.W. Jackman, Political Institutions and Voter Turnout in the Industrial Democracies, in “American Political Science Review”, giugno 1987, LXXXI, pp. 405-423; F.F. Piven, Regole, partiti e atteggiamenti politici: l’assenteismo elettorale americano in prospettiva comparata, in Il partito politico americano e l’Europa, a cura di M. Vaudagna, Bari, Laterza, 1991, pp. 230-252; R.A. Teixeira, The Disappearing American Voter… cit., pp. 7-8.
31- W.D. Burnham, The Appearance and Disappearance of the American Voter, in Id, The Current Crisis in American Politics, New York, Oxford University Press, 1982, pp. 121-122.
32- Voting and the Spirit of American Democracy, a cura di D.W. Rogers, Urbana, University of Illinois Press, 1992.
33- A.J. Heidenheimer – H. Heclo – C. Teich Adams, Comparative Public Policy. The Politics of Social Choice in Europe and America, New York, St. Martin’s Press, 1975; J. Higgins, States of Welfare… cit., pp. 60-61; P. Flora – A.J. Heidenheimer, Lo sviluppo del welfare state in Europa e in America (1981), Bologna, Il Mulino, 1983; N. Glazer, Il welfare state statunitense: ancora un’eccezione?… citato.
34- L. Kenworthy, Do Social-Welfare Policies Reduce Poverty? A Cross-National Assessment, Working Paper 188, Luxembourg Income Study, 1998, cit. e discusso da R.M. Solow, Welfare: The Cheapest Country, in “The New York Review of Books”, 23 marzo 2000, pp. 20-23. Lo studio si riferisce a 15 paesi industrializzati nell’anno 1991. Il lavoro di R.E. Goodin et al., The Real Worlds of Welfare Capitalism, New York, Cambridge University Press, 1999, giunge a conclusioni analoghe per un gruppo di paesi assai più limitato ma indagato più in profondità (si tratta di un’analisi comparata dell’impatto delle politiche sociali negli Stati uniti, in Germania e in Olanda nel corso di un decennio fra anni Ottanta e Novanta).
35- Vedi G. Zincone, Da sudditi a cittadini. Le vie dello stato e le vie della società civile, Bologna, Il Mulino, 1992, pp. 63-64. In un saggio del 1887, The Study of Administration, l’allora giovanissimo scienziato politico Woodrow Wilson scrisse che il “nostro inveterato errore” di voler “fare troppo tramite il voto” era il principale ostacolo alla creazione di un forte e moderno stato amministrativo negli Stati uniti. Si veda A. Testi, Woodrow Wilson e lo studio della pubblica amministrazione negli Stati uniti, in “Storia Amministrazione Costituzione. Annale dell’Istituto per la Scienza del-l’Amministrazione Pubblica”, 1993, I, pp. 43-60.
36- T. Skocpol, Social Policy in the United States, Princeton, Princeton University Press, 1995, p. 212.
37- F. Perkins, Introduzione a E.E. Witte, The Development of the Social Security Act, Madison, University of Wisconsin Press, 1962, p. VII.
38- Dopo il 1937, anche la Corte Suprema rovesciò la sua tradizione interpretativa conservatrice e individualista. Il Chief Justice Charles Evans Hughes invocò come principio costituzionale “la protezione della legge contro i mali che minacciano la salute, la sicurezza, i principi morali e il benessere del popolo”. Si veda E. Foner, The Story of American Freedom… cit., pp. 204-206.
39- E.F. Goldman, Rendezvous with Destiny. A History of Modern American Reform, New York, Random House, 1952, p. 310; S. Fine, Laissez Faire and the General-Welfare State… cit., pp. 397-398; A. Brinkley, The End of Reform. New Deal Liberalism in Recession and War, New York, Knopf, 1995; R. Edsforth, The New Deal. America’s Response to the Great Depression, Oxford, Blackwell, 2000, p. 2.
40- A. Kessler-Harris, Designing Women and Old Fools. The Construction of the Social Security Amendments of 1939, in U. S. History as Women’s History, a cura di L.K. Kerber – A. Kessler-Harris – K. Kish Sklar, Chapel Hill, University of North Carolina Press, 1995, p. 90.
41- Gli emendamenti prevedevano un programma di assicurazione sanitaria obbligatoria per “the common people”, cioè per il 92% degli americani che aveva un reddito inferiore ai 5000 dollari annui. Ciò doveva contribuire a creare le fondamenta di una cittadinanza sociale, in nome della clausola costituzionale del “general welfare”.
42- A. Derickson, Health Security for All? Social Unionism and Universal Health Insurance, 1935-1958, in “Journal of American History”, marzo 1994, LXXX, p. 1357. Si vedano inoltre P. Starr, The Social Transformation of American Medicine, New York, Basic Books, 1982; D.M. Fox, Health Policies, Health Politics. The British and American Experience, 1911-1965, Princeton, Princeton University Press, 1986; N. Lichtenstein, From Corporatism to Collective Bargaining. Organized Labor and the Eclipse of Social Democracy in the Postwar Era, in The Rise and Fall of the New Deal Order, 1930-1980, a cura di S. Fraser – G. Gerstle, Princeton, Princeton University Press, 1989, pp. 122-152.
43- Sulla questione delle donne vedi G. Mink, The Wages of Motherhood. Inequality in the Welfare State, 1917-1942, Ithaca, Cornell University Press, 1995.
44- F.F. Piven – R.A. Cloward, The Breaking of the Social Compact, New York, The New Press, 1997, p. 12.
45- La lotta per diritti sociali di cittadinanza fu anche un potente strumento di “americanizzazione”. I lavoratori maschi bianchi inclusi nello stato sociale e nella coalizione elettorale newdealista comprendevano gli immigrati delle grandi ondate migratorie di fine Ottocento e inizio Novecento, la cosiddetta “nuova immigrazione” di europei orientali e meridionali, cattolici ed ebrei. Costoro entrarono così per la prima volta nel mainstream della vita politica. Vedi R.A. Kazal, Revisiting Assimilation: The Rise, Fall, and Reappraisal of a Concept in American Ethnic History, in “American Historical Review”, aprile 1995, C, p. 438.
46- W.D. Burnham, The System of 1896, in P. Kleppner et al., The Evolution of American Electoral Systems, Westport, Greenwood Press, 1981, pp. 193-197; Id, The Current Crisis in American Politics… cit., pp. 145-148, 177-179; R. Edsforth, The New Deal… cit., pp. 73, 255.
47- F.F. Piven – R.A. Cloward, Structural Constraints and Political Development. The Case of the American Democratic Party (1992), in Id., The Breaking of the Social Compact… cit., pp. 421-452.
48- A. Testi, La massima partecipazione possibile. Riforma del welfare, partecipazione, protesta, in una esperienza americana fra gli anni Sessanta e Settanta, in Assistente sociale. Processi di cambiamento, politica dei servizi, a cura di F. Ruggeri, Firenze, Guaraldi, 1982, pp. 27-40.
49- R.A. Teixeira, The Disappearing American Voter… cit., p. 70.
50- F.F. Piven – R.A. Cloward, Structural Constraints and Political Development… cit., p. 422.
51- R.A. Teixeira, The Disappearing American Voter… cit., p. 66. I “colletti blu” diminuirono quindi il loro peso nell’elettorato; ne costituivano il 20% negli anni Sessanta, scesero al 16-17% negli anni Settanta. I “colletti bianchi” tecnici e professionali fecero il percorso inverso, dal 14% al 20%. Ciò rifletteva non solo i nuovi differenziali di partecipazione fra le varie categorie, ma anche anche una radicale trasformazione della struttura occupazionale del paese, che comportò una riduzione del peso dei “colletti blu” nella forzalavoro complessiva. I lavoratori industriali erano stati il 30-40% della forzalavoro non agricola per tutta la prima metà del Novecento, ed erano ancora il 30% negli anni Sessanta; scesero al 22% nel 1980.
52- A. Testi, La politica dell’esclusione…, cit.; Id., Trionfo e declino dei partiti politici negli Stati uniti, 1860-1930, Torino, Otto Editore, 2000 (on line al sito www.otto.to.it).
53- L. Steffens, The Autobiography of Lincoln Steffens, New York, Harcourt Brace & World, 1931, pp. 312, 394, 618, 622; Id, The Shame of the Cities (1904), New York, Sagamore Press, 1957, pp.17, 5-7.
54- Ne discuto nell’introduzione a W. Riordon, Plunkitt di Tammany Hall (1905), a cura di A. Testi, Pisa, Ets, 1991.
55- S. Skowronek, Building a New American State. The Expansion of National Administrative Capacities, 1877-1920, New York, Cambridge University Press, 1982, p. 175.
56- A. Testi, Amministrazione, efficienza e democrazia. L’educazione di un “public servant” progressista, Charles McCarthy (1873-1921), in Potere e nuova razionalità. Alle origini delle scienze della società e dello stato in Germania e negli Stati uniti, a cura di T. Bonazzi, Bologna, Clueb, 1982, p. 150.
57- M. Harrington, La povertà negli Stati uniti. L’altra America (1962), Milano, Il Saggiatore, 1971, pp. 49, 47, 247.
58- F.F. Piven, Low-Income People and the Political Process (1963), in F.F. Piven – R.A. Cloward, The Politics of Turmoil, New York, Pantheon, 1974, p. 85.
59- N. Glazer, Il welfare state statunitensi: ancora un’eccezione?…cit., p. 205.