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Convenzioni e ambiguità nell’uso di una parola

Luciano Cafagna

Luciano Cafagna
Testo provvisorio dell’intervento al Convegno Sissco, Siena 9-10 Novembre 2000
La democrazia nel Novecento. Un campo di tensione

1.
Mi occuperò essenzialmente di parole e di significati nella speranza di aiutare la discussione che si farà qui a non andare fuori strada. L’idea di democrazia è , infatti, di quelle che – come disse una volta Bobbio– possono facilmente indurre a “smarrirsi in discussioni inconcludenti”. E cito Bobbio per tutti: tutti gli altri, cioè, che hanno espresso più o meno lo stesso dubbio. Le cose, dunque, non sono cambiate molto, da questo punto di vista, rispetto a quando Tocqueville diceva che “l’uso che si fa delle parole democrazia e governo democratico” “getta il massimo di confusione nello spirito”.
E’ bene, quindi, tenere sempre fortemente presenti alcune grandi coordinate che permettano di evitare almeno le trappole della polisemia. Queste trappole sono molte. Ma la maggiore fra tutte è quella che consiste nell’attribuire qualità e requisiti, inerenti a un determinato significato di una parola, a un altro , e diverso, spesso molto diverso, significato di questa. Ciò può accadere per errore, ma è purtroppo anche non raro che lo si faccia intenzionalmente, come espediente – subdolo – al fine di argomentare e persuadere. Più avanti tornerò su qualche importante esempio di ambiguità semantica sulla parola “democrazia” nella storia del XX secolo.
Detto questo, due premesse. La prima cosa da ricordare, forse, è che “democrazia”, al di là delle dispute interne al suo significato, è una idea eurocentrica. E’ ovvio, ma si ha spesso riluttanza ad affermarlo apertamente. Così, però, non si contribuisce alla chiarezza. Per studiare e comprendere società diverse da quelle modellate sul principio eurocentrico, o assoggettatesi a questo, occorrono altri strumenti, altri concetti. Questi concetti difficilmente potranno sfuggire alla propria origine euroculturale, ma cercheranno, almeno, di evitarne l’inganno specularistico, il credere di parlare, cioè, degli altri mentre invece stiamo riflettendo noi stessi in uno specchio. Magari deformato. Qui assumiamo come tema, dunque, le società occidentali o occidentalizzate, quelle attratte da ciò che viene chiamato da circa mezzo secolo “modernizzazione”. Secondo molti – per esempio Sartori – la democrazia finirà col mondializzarsi. Può darsi. Oggi, comunque, malgrado la “globalizzazione”, non lo è ancora. E non pochi casi di trapianto in società sostanzialmente poco occidentalizzate vanno forse anche guardati con occhiali che non riflettano chi sta guardando…
La seconda cosa da sottolineare, in via preliminare, specie dal punto di vista dello storico, è che si può considera la democrazia come modello teorico per la descrizione e interpretazione di società contemporanee nella loro realtà di fatto, soprattutto nelle loro forme istituzionali, oppure come sistema di valori che ispirano protagonisti e animano movimenti, favorevoli o contrari.
Per lo studio di realtà di fatto – assetti sociali, regimi politici, istituzioni, pratiche politiche effettive – è opportuno assumere nozioni realistiche, cioè non progettuali o normative di “democrazia”: come concetti interpretativi, naturalmente, ancorché abbiano forma schematizzata e ancorché possano, quindi, essere intesi come semplificati “modelli”.
Una volta data la priorità alle nozioni “realistiche, non progettuali o normative”, vorrei però osservare che le nozioni fattuali relative alla democrazia non sono le sole veramente utili allo storico del mondo contemporaneo. Lo sono anche le idee. Oserei anche dire che, dal peculiare punto di vista che ho prima accennato, dal punto di vista, cioè, della considerazione delle idee, dei valori, che ispirano protagonisti e movimenti, c’è qualche cosa che può essere addirittura più rilevante – sempre per lo storico – delle idee in senso strettamente filosofico. Si tratta di quel che chiamerei le idee “vissute”, le convinzioni concrete. La “democrazia”, nell’età contemporanea, è una “idea vissuta” centralissima, come parola gratificante e legittimante o anche – come pure è avvenuto ampiamente nella prima metà del secolo XX –come parola squalificante e penalizzante. Come parola che aveva deluso. (E’ accaduto una volta, potrebbe accadere ancora).
Come parola gratificante e legittimante – e questo è spesso il destino delle parole che vengono a godere di un tale ruolo (Bobbio parla di “eulogia”) – “democrazia” è stata usata a copertura di comportamenti, di pratiche, di procedure assai disparate. Il senso in cui questa parola è stata usata – poniamo – da Roosevelt o da Lenin è distante anni luce. Ma forse ancora più importante del fatto che Roosevelt e Lenin abbiano usato il termine in sensi diversissimi, è il fatto che altri utilizzatori del termine stesso l’abbiano potuto usare ambiguamente, sfruttando le gratificazioni e le legittimazioni che potevano derivare dall’una e dall’altra fonte, dall’una e dall’altra versione: e, così facendo, si siano sforzati di provocare, o abbiano anche provocato, eventi storici, fatti politici, nutriti di una sconcertante ambiguità, e tuttavia nutriti. Uno dei casi più clamorosi, per esempio, è stato certamente, da questo punto di vista, nell’immediato secondo dopoguerra, l’uso assai abilmente ambiguo del termine “democrazia”, praticato con successo da Palmiro Togliatti in Italia: una ambiguità complessa, che merita di essere ricordata, perché – come io ho più volte sostenuto negli anni – era una ambiguità con talune importanti sfumature reali, nei suoi due “corni” (i corni della ambiguità) e non solo un inganno. Fu una operazione di semantica politica attiva, quella, che rappresentò qualcosa di più creativo delle formule, concepite contemporaneamente entro il mondo comunista, nel quadro di tale ambiguità, cui la “democrazia progressiva” di Togliatti pure, e per precisi motivi, si richiamava. Non si può certo accettare la risibile retrodatazione di scelte effettivamente democratiche, nel senso oggi corrente (di cui dirò più avanti), fatte assai tardi dalla cultura comunista in crisi – come ancora di recente si è tentato di fare – ma sarebbe altrettanto sbagliato affermare che quella abile e meditata ambiguità di Togliatti non sia stata, a suo modo, creativa.
Più in generale, va sottolineata l’importantissima funzione generica – che io proporrei di chiamare, con metafora giudiziaria, funzione di “appello” – che il termine “democrazia” ha svolto e svolge tuttora nella contestazione di comportamenti e procedure pubbliche, e anche in rapporti privati, nella vita quotidiana del nostro tempo. Quando si dice – e lo si fa con straordinaria frequenza – “questo non è democratico” o “qui non c’è democrazia”, si cerca generalmente di offrire una copertura legittimante alla nostra critica di tale o tal altro comportamento praticato da qualcuno, nel quadro della attività di istituzioni, non importa se pubbliche o private. Il che significa che, nel nostro tempo, la parola ha acquisito quasi una forza e una valenza religiosa, quasi la valenza del “sacro”. Per l’uomo comune semplice, se la parola di Dio avesse sempre successo – il che, come sappiamo, non avviene in questo mondo di malvagi — lui – l’uomo comune semplice – avrebbe sempre ragione. Così accadrebbe – per l’uomo comune semplice – se la “democrazia” fosse davvero e sempre effettuale. Questo “doppio fondo” della idea-parola “democrazia” , direi a partire dalla seconda metà del secolo XX, è un punto importante: dico “doppio fondo” nel senso di secondo spazio, spazio che è aura di legittimazione “sacrale”. E quindi anche – va sottolineato – spazio che si riserva un margine ampio per arbitrarie autoattribuzioni, di natura diversa dalla legittimazione quale è proceduralmente definita dalle istituzioni e dalle regole…
2.
Ma entriamo nell’uso della parola ai fini della conoscenza della storia dei nostri tempi. Cominciamo col considerare l’area problematica della democrazia in quanto modello per la descrizione e interpretazione di società contemporanee nella loro realtà di fatto, soprattutto nelle forme istituzionali. In questo ambito strettamente “fattuale” vorrei proporre una distinzione che solitamente non si fa, ma che permette di capire molte cose diversamente poco comprensibili: la distinzione fra due aree nozionali. Una nozione sociale di “democrazia”, di qualcosa che avviene nella società, nei rapporti fra i componenti di questa, prima che nelle procedure della politica, e che ha il suo massimo interprete in Tocqueville, autore di uno dei grandi classici della materia. E, di contro, una nozione politologica, che è quella di Schumpeter e di Sartori, di Dahl e di Lijphart, di Downs e di Duverger, di Kelsen e di Bobbio e di altri contemporanei. Quest’ultima nozione – la nozione che chiamo “politologica” – coincide praticamente, sia pure con molte varianti, con l’idea di democrazia formale o procedurale. Voglio dire subito che gli storici non dovrebbero considerare con insofferenza questo tipo di nozione, quasi come una prigione: può aiutarli molto ad evitare equivoci, infatti, e anche a cacciarsi in discussioni inutili, come, per esempio, quelle di stabilire se il sistema politico di un paese, in un dato momento, sia democratico, o no. Discussione inutile, se non si premette, almeno sommariamente, quali requisiti attribuiamo a un sistema politico suscettibile di essere così definito. La riflessione dei politologi aiuta molto a far questo.
Ho detto prima di voler proporre, però, una distinzione – nell’ambito delle concettualizzazioni che presentano interesse per lo storico del mondo contemporaneo – fra una nozione “sociale” di democrazia e una nozione “politologica”. Normalmente questa distinzione non si fa. Ha senso farlo? Io ritengo di sì. Vediamo di cosa si tratta e poi cercherò di dire perché ritengo rilevante questa nozione “sociale” di democrazia per la interpretazione del mondo contemporaneo di impianto culturale europeo, oltre , e in più, rispetto a quella che ho chiamato”politologica”.
La nozione sociale di “democrazia” è quella di cui hanno la percezione gli uomini della prima metà dell’800, dopo la Rivoluzione francese. E’, in pratica, il tratto dominante di quella che viene chiamata dai marxisti “società borghese”. Però nel profilo di questa “società borghese” che si presenta come società tendenzialmente aperta. L’idea di “società borghese”, lo si sa, ha, infatti, due volti, come li aveva Giano. E’, da un lato, rottura delle gerarchie fisse e delle “esclusioni” della società aristocratica. Ed è però – altro volto, altro lato – creazione di nuove disuguaglianze che possono essere viste, e sono viste per esempio dai socialisti, come fonte di nuove esclusioni. L’avanzata della democrazia, la “démocratie qui coule à pleins bords” , che trabocca dal vaso, di una celebre battuta di Royer-Collard, è la società borghese in quanto mobilità sociale aperta, in quanto marcia inarrestabile delle parità e delle inclusioni – come grande tendenza storica percepita da amici e nemici dopo la Grande Rivoluzione – qualunque altra cosa possa contingentemente accadere nella economia o nella politica.
Ho usato le parole “parificazione”, e “inclusione”, e non quella di “eguaglianza”. Perché? Perché queste espressioni si prestano di più, a mio avviso, a connotazioni specifiche, in cui diversità e diseguaglianze, magari, si conservino e, magari, per nuovi aspetti, e relativamente parlando, crescano pure. “Eguaglianza”, inoltre, evoca, invece, sempre schemi un po’ astratti e generali, anche quando se ne adottano definizioni “dipartimentali” (come l’eguaglianza di dignità, l’eguaglianza giuridica, l’eguaglianza delle opportunità o dei punti di partenza, l’eguaglianza economica etc.).
Ma ci si potrebbe chiedere: la nozione sociale, ottocentesca, di “democrazia” ha ancora un senso, a distanza di 170 anni dalla “Démocratie en Amerique”? Come ho detto, io penso che ce l’abbia. E che ce l’abbia soprattutto nel momento in cui avvertiamo i limiti, non voglio certo dire l’insignificanza, delle nozioni di stratificazione sociale in senso classico, nel senso, cioè, prevalentemente economicistico. E’ una nozione – questa della “democrazia” come “stato della società” – che ha a che vedere con qualcosa che noi trattiamo oggi con altri concetti, come , per esempio, quando parliamo di “società di massa” o di “cittadinanza”. Si è molto usata, ad esempio, la formula “democrazia di massa”: in cosa differisce da una democrazia non-di-massa? E’ solo questione di numeri? O non si vuole alludere, invece, a una conformità sociale (che non significa ancora conformismo) di modi di vivere, di pensare, di agire? Tutta la problematica della “inclusione”, a mio avviso, richiama fortemente questo risvolto sociale del problema della “democrazia”. Quando si parla della variabile ampiezza con la quale proponenti e teorici della democrazia considerano, in tempi e situazioni diverse, il “demos”, non si parla – stiamo attenti – di scelte capricciose di pensatori: si parla di qualcosa che è avvenuto, o sta avvenendo, nella società e che propone, come appunto propronibile, qualcosa che non lo era, per lo meno con la stessa proponibilità, prima o in contesti diversi.
Se, infatti, si pensa ad alcuni grandi, macroscopici, “trend” egualitari delle società occidentali, o eurocentricamente orientate, cioè ad alcuni macroscopici “trend” inclusivi di queste società, ci si rende conto che la democrazia contemporanea è pervasa da alcune caratteristiche sociali senza le quali non solo è impossibile pensarla nei suoi stessi profili politici, ma è impossibile pensarla nel modo in cui noi riteniamo che gli storici debbano pensarla, e cioè come “campo di tensioni”.
Voglio indicare, solo a titolo esemplificativo, alcuni enormi “campi di tensione” della democrazia come “stato della società”, nel senso in cui la intendendevano i pensatori politici della prima metà dell’Ottocento, età aurorale della democrazia contemporanea. In primo luogo quell’enorme processo di inclusione che riguarda le abitudini sociali e l’’informazione, e che deriva dalla urbanizzazione e dalla massomediatizzazione, con la fine del macroscopico fenomeno dell’isolamento rurale e il rendersi marginale dell’analfabetismo. In secondo luogo la tendenza-tensione alla parità di diritti della donna, qualcosa che semplicemente raddoppia il “demos”. In terzo luogo, la tendenza-tensione alla inclusione di minoranze esterne, periferiche o immigrate, all’abbandono dei pregiudizi razziali. Sono esempi immensi di come la dimensione del “demos” si propone al riconoscimento con una forza autonoma. E’ una forza autonoma che nasce dalla società, dai mutamenti sociali, indipendentemente dalle ideologie, dalle volontà politiche che poi possono assumerla e inverarla istituzionalmente. E che così possono diventare, questi e altri, grandi – enormi – “campi di tensione” della democrazia della età contemporanea, intorno ai quali, non di rado, nella storia delle nostre società, e non a caso, si sono formate, e si formano, anche le nuove ostilità alla democrazia politica. Non vorrei affrontare per semplici accenni una materia difficile e esposta ai fraintendimenti, ma anche in tutto quanto si è spesso detto sui grandi movimenti di coinvolgimento sociale prodotti dalle guerre moderne si possono riscontrare elementi che hanno a che fare, in maniera surrettizia e perciò spesso ambigua, con estese spinte di tipo inclusivo che vengono avanti, anche disordinatamente, dalle cose. Si entra nella sfera centrale della società, e poi si aspira a entrare nella sfera della politica.
La stessa celeberrima idea di una “tirannia della maggioranza”, che fu di Tocqueville e di John Stuart Mill, appartiene – come ha giustamente sottolineato Giovanni Sartori – all’area della società e non a quella della politica in senso stretto: sono infatti in questione, in quella idea, gli effetti del conformismo di massa, e non certo le modalità decisionali di una consultazione popolare o di una assemblea parlamentare. E si può dire di più. A mio avviso, la domanda stessa che molti si pongono – per esempio il medesimo Sartori – relativamente ai fattori che provocano – a partire, in pratica, dagli anni della Restaurazione – la mutazione apprezzativa e, in fondo, anche la mutazione del contenuto semantico della parola “democrazia” rischia di restare senza risposta se non si fa la distinzione di cui parlo. Quando è, infatti, che la democrazia diventa la “democrazia liberale” di oggi? Lo diventa dopo la critica tocquevilliana (col che non voglio certo enunciare un post hoc ergo propter hoc, anche se si trattò di uno dei libri di politica più letti dell’età contemporanea). La critica tocquevilliana si interroga sulle capacità della democrazia – in quanto ampia nuova realtà sociale, in quanto ingresso di masse nell’area della pretesa ai diritti – di garantire politicamente la libertà, di farsi – dunque – non più cosa di parte (sia pure dei molti contro i pochi, o – detto forse meglio – dei “pochi che si richiamano ai molti” contro i “pochi che si richiamano ai pochi”), ma di farsi “repubblica” , cioè cosa di tutti. Da quel momento – come è stato osservato – una distinzione ideale fra repubblica come res publica e democrazia non ha più senso.
Più in generale, in ogni caso, credo si possa affermare che senza questa nozione di democrazia “come stato della società” sia difficile spiegarsi gran parte delle “tensioni” da cui la democrazia è continuamente investita. Azzardo a pensare che non si potrebbe capire, senza tenere presente questa dualità tocquevilliana, la celeberrima, fortunatissima, e sempre più generalmente condivisa formula di Churchill, secondo il quale “la democrazia è il peggiore di tutti i sistemi politici ad esclusione di qualsiasi altro”. Churchill parlava della democrazia politica. Voleva dire che è cosa piena di difetti. Ma che è l’unico modo in cui si possa in qualche modo tecnicamente governare e far progredire una “società democratica” nel senso tocquevilliano. Che è, dunque, la prima e più vera e sostanziale realtà della democrazia moderna. Il resto è – si potrebbe dire – procedura approssimativa per salvaguardare di quella le possibilità evolutive, verso l’ampliamento del “demos”, verso la eguale libertà di tutti, verso la estensione dei diritti.
3.
E veniamo dunque al campo delle nozioni politologiche. Generalmente, quando si fa riferimento alla nozione “politologica”, si pensa subito ad alcune coppie concettuali oppositive, come “democrazia formale” e “democrazia sostanziale”, oppure “democrazia rappresentativa” e “democrazia diretta”. Il fatto è, però, che le idee di “democrazia sostanziale” o di “democrazia diretta”, possono interessare dal punto di vista della storia delle idee, o di movimenti che a tali idee si ispirano (ne ho accennato prima). Oppure possono essere rilevanti per chi, in una determinata ottica, voglia progettare il futuro. Ma sono poco rilevanti per lo studio e la interpretazione delle società, dei regimi, della vita politica contemporanea e del loro funzionamento reale. Sono molto oggetto di discussione – cioè – e hanno a volte forza di motivante stimolo e di mobilitazione. Ma hanno, invece, scarsissimo riscontro nella effettualità, come realizzazioni. Quindi, non sono certo irrilevanti per lo storico, ma rilevano soprattutto in quanto storia di idee che ispiravano protagonisti o animavano movimenti – come ho già detto – non per la storia della società e dei sistemi politici o per la stessa storia politica. Naturalmente, qui occorre però fare una precisazione linguistica. Molti autori considerano alcune procedure decisionali delle democrazie contemporanee come forme di “democrazia diretta”: per esempio il referendum, l’elezione diretta del capo dell’esecutivo, le elezioni primarie, o anche il vincolo del mandato al rappresentante da parte dei rappresentati. Niente da obiettare al fatto che si classifichino queste cose così: purché si tenga presente che esse sono forme istituzionali singole, all’interno di sistemi politici che invece non sono – sistemicamente parlando, appunto – di democrazia diretta.
In ogni caso, la idea di democrazia nella storia del pensiero politico è argomento che gode di una bibliografia talmente ampia, approfondita, specialistica, ricca – qualcuno ha detto che ha provocato, molto antiecologicamente, la distruzione di molte centinaia di ettari di bosco – che sarebbe fuor di luogo pretendere di volerlo affrontare qui aggiungendo qualcosa di utile o di nuovo. Ci è possibile solo svolgere qualche considerazione per cercar di vedere se, e come, si possano evitare alcuni equivoci più comuni.
Proviamo, per esempio, a cercare di individuare almeno il tratto più generale e comune alle contemporanee concezioni politologiche della democrazia. Suggerisco di trovarlo nel fatto che esse comprendono sotto questo termine i sistemi politici nei quali si applica in maniera determinante il principio della legittimazione popolare. Non, quindi, altri principi di legittimazione del potere di chi governa, come sarebbero, ad esempio, quello dinastico, quello teocratico, quello che potremmo chiamare ideologico perché fonda la giustificazione di un proprio autoritarismo sul presunto perseguimento di grandi finalità. O quello meramente autogiustificativo come sarebbe il principio della forza tout court, il Faustenrecht. Anche qui, per evitare trappole linguistiche, va tenuto fermo che, in questa concezione della democrazia (che perciò, a scanso di equivoci, viene per lo più detta democrazia liberale o liberal-democrazia), il principio di legittimazione popolare deve esprimersi con procedure determinate, procedure che non consentano la possibilità di contrabbandare per “governo del popolo” forme di potere, populistiche o di autoritarismo ideologico, che si auto-attribuiscono la qualità di “governi per il popolo” (secondo la distinzione fatta da Kelsen tanti anni fa), ma non sono in alcun modo presentabili come “governi del popolo” .
Questi insiemi di condizioni indispensabili a preservare una genuina provenienza popolare della legittimazione sono variamente indicate dai politologi. Robert Dahl, per esempio, costruisce gran parte del suo modello di democrazia sulla base della individuazione di cinque elementi indispensabili alla validità di una democrazia bene intesa. Questi elementi sono la partecipazione effettiva e comunicativa di tutti i membri, la parità del voto, il diritto alla informazione, la possibilità del controllo dell’ordine del giorno (cioè delle cose di cui si deve decidere) e la universalità del suffragio. Ho voluto qui ricordare sommariamente queste “tavole” condizionali di una effettiva democrazia, perché – come accennerò più avanti – qui si manifesta un ampio e specifico “campo di tensioni” – propriamente politico – per le democrazie contemporanee. Basti pensare alla grande questione della universalità del suffragio nella storia della democrazia contemporanea. E, del resto, uno dei punti più complessi dello stesso dibattito teorico sulla democrazia è proprio la discussione sulla ampiezza minimale del demos , la quale ha un punto focale nella polemica che, su questo argomento, Dahl condusse nei confronti del relativismo di Schumpeter . Rileggendola, lo storico non può non concludere che risposte rigorosamente esatte al problema non sono possibili, e che si tratta proprio di un “campo di tensioni”. La visione inclusiva “forte” di Dahl ci appare certamente oggi più accettabile di quella relativistica, che lascia spazio aperto a criteri restrittivi, di Schumpeter . Ma non possiamo fare a meno di notare che è la storia, più che la forza della argomentazione teorica, a produrre “inclusione”. E, secondo il pnnto di vista che ho prima espresso, ciò nasce in prima istanza dalla società, piuttosto che direttamente dalla politica.
Ritornando alla generalità si deve osservare che possono rientrare dunque – in questa concezione della democrazia contemporanea basata sul principio di legittimazione popolare – i sistemi politici nei quali sopravvive una monarchia dinastica priva di influenza determinante; ma non vi possono rientrare quelli nei quali, pur essendo riscontrabile magari qualche forma di votazione, esercitano, però, influenza determinante forme di legittimazione del potere politico di tipo teocratico, ideologico-finalistico, dinastico, militare, burocratico. Forze, partiti, movimenti che si ispirino a queste altre e diverse forme di legittimazione del potere politico possono esistere e agire in una democrazia: ma se prevalgono, la democrazia – così come la intende il discorso politologico contemporaneo – non è più tale. Sia che, nel quadro di una diversa legittimazione, la parola “democrazia” venga ostracizzata, sia che venga, invece, nobilitata, ma con significati diversi da quello di una legittimazione popolare effettivamente operativa in base a precisi e delicati meccanismi.
Può individuarsi un “campo di tensioni” che riguarda la democrazia, a questo livello problematico più generale, al livello problematico, cioè, di un rapporto aperto di confronto della democrazia così intesa con altre forme di sistema politico, altre forme di legittimazione prevalente del potere? A mio avviso, ciò può presentarsi in tre grandi tipi di situazione storica, almeno. La prima è costituita dalle situazioni di transizione verso la democrazia. Queste possono essere, a loro volta, di transizione evolutiva, come quelle nelle quali il potere dinastico si è venuto estinguendo progressivamente – magari lungo un percorso storico accidentato – e il principio di legittimazione popolare si è affermato pure progressivamente attraverso l’estensione del suffragio (è questa, per esempio, la storia della Italia liberale). E possono esservi situazioni di transizione ripristinativa, nelle quali il “ritorno” della democrazia – dopo un periodo di ricorso ad altre forme di sistema politico – richiede l’apporto e il concorso, sia pure transitorio, di fonti di potere prive di legittimazione popolare. E’ il caso della Italia e della Germania post-fasciste, della Spagna dopo-Franco, e quello di taluni (ho detto “taluni”) paesi comunisti dopo il comunismo. Un terzo tipo di situazione che merita di essere distinto è quello di transizioni alla democrazia di paesi che non la avevano mai sostanzialmente conosciuta, ma che si caratterizzano, come transizioni, dal fatto di essere sollecitate alla rapidità da forti spinte esterne: il primo importante caso di questo tipo è stato il Giappone nel secondo dopoguerra. Molti casi di paesi ex-comunisti – quello stesso della Russia – sembrano appartenere a questa specie.
Un secondo tipo di situazione-tensione fra due forme di legittimazione è dato invece da quelle situazioni, di natura opposta a quella descritta prima, in cui matura una crisi della democrazia: situazioni in cui, cioè, la legittimazione popolare subisce un diffuso sfiduciamento e si invocano poteri che si ispirano a ben diverse fonti di legittimazione. Ma questa è una grande area problematica a sé stante. Fu affrontata anni fa in un importante lavoro di Juan Linz. Sui casi maggiori di questo tipo – Italia, Germania, Spagna – esiste peraltro un vasto e antico impegno della storiografia che, non a caso, ha coinvolto fortemente, per ciascun paese, interessi storiografici mondiali e non solo interni al singolo paese.
4.
Ma la legittimazione popolare, base della moderna concezione della democrazia politica, è questione gravida di controversie. Essa deriva dalla idea di “sovranità popolare”. L’idea di sovranità popolare è nata – come sappiamo – come idea speculare rispetto a quella della sovranità di un monarca. Ed è forse soltanto una metafora. Infatti una legittimazione, in quanto tale, presuppone una distinzione fra legittimante e legittimato. Il popolo che governasse direttamente non dovrebbe legittimarsi di fronte a sé stesso. Ma sappiamo, da una letteratura straripante, che il governo diretto del popolo è possibile, se lo è, solo in situazioni di polis a piccoli numeri. Dunque la sovranità popolare, a differenza di quella di un singolo o di una oligarchia, non può che esercitarsi in forma indiretta. Il popolo, per esercitare la sua sovranità, deve delegarla a dei rappresentanti selezionati. Selezionati da chi? Dal popolo. Come? Ed è qui che nasce l’immensa problematica della rappresentanza.
La rappresentanza non è un campionamento statistico. Un campione bene impostato può essere effettivamente rappresentativo, perché è inerte. E’ parte per il tutto fotografato nel momento in cui lo era, e poteva esserlo più o meno rappresentativamente. Il rappresentante politico non è inerte, deve svolgere una funzione attiva , deve rappresentare creativamente. E’ inesorabilmente altro rispetto a coloro che è stato scelto a rappresentare. Il primo a sottolineare questo con forza fu Rousseau e perciò parlerò qui di “alterità rousseauiana”.
Ed è partendo dalla “alterità roussseauiana”” che si può essere indotti a marcare la soggettività del rappresentante, la sua autonomia, che poi non sarebbe altro che una espressione di quella che è stata chiamata “autonomia del “politico””, che è tale non solo rispetto alla economia, ma anche rispetto alla società. Il rappresentante non è solo una derivata dei rappresentati, ma è un interprete, un suggeritore, un proponente che propone programmi, propone azioni politiche e – in base a queste – propone sé stesso alla scelta da parte dei rappresentanti.
Così si arriva a Schumpeter che inverte quella sequenza che dai rappresentati va ai rappresentanti, per partire da coloro che si propongono, con le proprie idee e la propria personalità ad esercitare il ruolo dei rappresentanti, si candidano. Si tratta – né più né meno – di quelli che la gente, non a caso, chiama “i politici” distinguendoli in un certo senso professionalmente, anche se non si tratta di una professione come le altre. L’area di scelta consentita al demos – in questa visione schumpeteriana – si restringe di fatto alle proposte che nascono nel mondo della politica, nel quale, dunque, si forma l’iniziativa. Questa è la cosiddetta teoria elitistica della democrazia, molto discussa e molto avversata, anche, ma che ha certamente un elevato grado di realismo. Oserei dire che, senza aver bisogno di professarla esplicitamente, molta storiografia politica, di fatto, più o meno, non fa che applicare questo modello interpretativo. In Italia, del resto, questo non è senza relazione col fatto che l’Italia è la patria di Mosca e di Pareto, la cui influenza, direttamente, o attraverso Croce e Gramsci, si è fatta certamente sentire sugli storici. Per altro verso il modello elitistico ha molto influenzato anche le intepretazioni sociologiche e pubblicistiche che hanno accompagnato il corso della storia italiana e, anche, specificamente, la storia della democrazia italiana della seconda metà del secolo XX, interpretazioni coeve, da cui la storiografia che ha affrontato questo tempo a noi così vicino spesso non si è sostanzialmente separata. Le polemiche che investivano il carattere “bloccato”della democrazia italiana, dello “stallo” di questa, prima del 1989, insistevano molto sulla natura blindata della élite politica – si parlò addirittura di “classe fortezza” – benché questa élite fosse certamente formata e sostenuta attraverso elezioni indiscutibilmente libere e ampiamente partecipate. Le elezioni – si diceva però– servono solo a omologare vecchie scelte e sono prive di capacità innovativa, inette a produrre vere scelte perché non animate da volontà proposititiva, quanto, piuttosto, inchiodate da una meramente negativa “paura”. Era diagnosi sostanzialmente esatta, salvo che per la negazione della “paura” come motivazione politicamente valida: giusta o sbagliata che si potesse ritenerla, quella “paura” – lo è quasi sempre – era un sentimento politico in termini del tutto propri. Oggi potremmo chiederci come mai quella motivazione possa continuare, parzialmente, a funzionare, pur essendone venute meno le cause a livello mondiale. Ma, a questo punto, gli interrogativi dovrebbero moltiplicarsi. Dovremmo chiamare in causa tutti i meccanismi comunicazionali che collegano le due aree, quella dei rappresentati e quella dei rappresentanti, le loro forme tecnologiche e la loro messaggistica, se è lecito usare una espressione del genere, ponendoci il problema di stabilire se abbia un senso, e quale, distinguere fra messaggi normali e messaggi anormali. Come collocare, in questo contesto di problemi, le idee contenute nella nozione gramsciana di “egemonia”, che ha tanto attratto buona parte degli storici italiani?
Ma sto divagando. Chiediamoci piuttosto – a questo punto – se abbia un senso l’idea che si possa pensare di azzerare o ridurre al minimo quella alterità del rappresentante rispetto ai rappresentati, che riproduce nella democrazia contemporanea la distinzione – di stampo, questa, piuttosto eternizzante – fra governanti e governati. Questo non metterebbe in gioco la essenza stessa di ciò che viene detto “politica” ? In altre parole, nella libertà del rappresentante, in democrazia, come già nella età liberale, non sono implicati, oltre a problemi di propensione o meno al rispetto di un codice etico, e di interesse personale, anche problemi di cultura, di volontà innovativa, di intuizione, di lungimiranza, di creatività? E qui però ci imbattiamo certamente in uno dei più grandi problemi della democrazia, un grande campo di tensioni. Sia nella età liberale (che possiamo considerare tocquevillianamente avviata alla democrazia ma non ancora “politologicamente” democratica) che in quella post-fascista, la storia italiana è piena di tensioni di questo tipo. Si pensi al trasformismo e ai fenomeni recenti o anche meno recenti (ad esempio al primo centro-sinistra) che si può essere tentati di mettere in analogia con la tradizione trasformista italiana.
Tutte le insoddisfazioni che possono nascere – e sono nate nel corso della storia della democrazia in Italia e altrove – dalle aporie, vere o presunte, della “alterità rousseauiana”, tendono apparentemente a sboccare, o a farlo, per lo meno, in prima battuta, in un rifiuto all’esercizio del diritto di voto, in un discredito della specifica sfera stessa della “politica”, a causa della sua “separatezza”. Ma il fatto è che tendono inesorabilmente a sboccare in politica esse stesse. Più o meno, però, sboccano in una forma di politica che vuole negare o correggere le regole della democrazia, ovvero nutrirle di farmaci. Ma il doping – si sa – può uccidere.
5.
E qui vengo a un altro punto che avevo prima lasciato in sospeso. Al telaio a maglia larga che ho cercato di tracciare relativamente agli equivoci semantici, da un lato, e ai problemi reali, dall’altro, che danno vita ai campi di tensione della democrazia, mancherebbe qualcosa di importante, per la frequenza con la quale si presenta, se non facessi cenno a un uso del termine democrazia che fuoriesce sia dalla accezione che ho chiamato sociologica (lo stato democratico della società) sia dalla accezione propria della politologia contemporanea. Si tratta dell’uso che riscontriamo in formule come quella di “democrazia plebiscitaria” o di “democrazia populista”, oppure in quella famosa di Talmon che intitola un suo saggio alla “democrazia totalitaria”. L’avere postulato una nozione di “democrazia come stato della società”, nel senso di Tocqueville, permette però di comprendere il senso di queste espressioni. In esse , per sostenerle o per criticarle, sono individuate, infatti delle formule politiche che aspirano a soddisfare in forme diverse dalle procedure della democrazia rappresentativa le esigenze che nascono dalla “società democratica”, cioè dalla società la cui ribalta non è più riservata a minoranze elette. E, in cui – ricordo qui alcune espressioni ricorrenti – “premono le masse”, “la gente si vuol far sentire”, “si svegliano le maggioranze silenziose”. E così via. Le formule cui si ricorre per affrontare queste insoddisfazioni postulano modi diversi da quelli della democrazia procedurale: postulano una maggiore personalizzazione dell’interlocutore politico, una identificazione semplificata del “rappresentante”. Su questa strada si può andare lontano. Si può cominciare in un modo e finire in un altro. Ma io credo sia importante osservare che una considerazione di queste istanze e di queste realtà fatta col solo metro di giudizio offerto dalla democrazia procedurale sarebbe fuorviante: esse sono espressioni della società democratica, nel senso che ho chiamato tocquevilliano, e perderlo di vista sarebbe sbagliato, anche dal punto di vista dello storico. I fenomeni di crisi della democrazia – crisi della democrazia rappresentativa e liberale – fanno parte integrante della storia della democrazia, della età della democrazia. In essi il “demos” non è assente, è presente. Si muove in maniera disillusa o irrazionale, ma è lui, è soggetto. Può diventare oggetto di qualcuno, ma, in qualche modo, in maggioranza, o in forte minoranza, con o senza un disorientato rifugio nella astensione, lo vuole.
6.
Concluderò la mia escursione problematica ponendomi la domanda, se la riflessione teorica sulla democrazia offra spunti che permettano di valutare in modo meno drastico e pessimistico quella che ho chiamato la “alterità rousseauiana” fra rappresentanti e rappresentati, e che possano suggerire qualcosa allo storico.
L’attenzione deve portarsi a questo punto su due grandi questioni. La prima è quella della natura della competizione politica e della efficacia delle sue forme. La seconda riguarda le forme di intermediazione fra le due aree, che poi sono quella dei cittadini della democrazia e quella degli operatori della politica. Credo che il lavoro degi storici che si occupano di storia politica o di storia sociale, in aspetti che hanno molta contiguità con la storia politica, coinvolga in gran parte temi che hanno a che fare con questi due ordini di questioni.
Accenno alla prima. Si tratta di una problematica che, per taluni suoi aspetti, è stata molto discussa in Italia in tempi recenti. La democrazia rappresentativa, e l’effettivo potere dei rappresentati, funzionano se la democrazia è competitiva, nella misura in cui è competitiva. Una delle obiezioni più forti alla teoria rousseauiana del “giorno unico” è che se i rappresentanti vivono il loro mandato tutti i giorni nell’ansia continua di non essere più scelti , quel giorno del potere del rappresentato non è più unico. Ma perché quella scelta diversa sia possibile deve concretamente esserci, non basta che sia sulla carta, bisogna che la competizione sia reale. Ma quale è più reale, la competizione fra due, o la competizione fra molti? La prima si presenta in termini di alternativa radicale. La seconda può sfilacciare i termini di scelta, favorire coalizioni, cambi di posizione e di campo di gruppi di rappresentati una volta eletti, addirittura sospingere verso una distribuzione di poteri e di ruoli di tipo “consociativo”. Di qui la enunciazione di quello che è stato chiamato il “modello Westminster”, il modello a due partiti principali e contrapposti. Di contro a questi starebbe il modello che Lijphart ha chiamato “consensuale”, in cui ogni elettore, invece di arrendersi all’aut-aut di una scelta strettamente binaria (che però accresce il suo potere), preferisce massimizzare la sua convergenza, il suo consenso attraverso una affinità più stretta con un gruppo o partito tagliato su misura, per così dire, sulle proprie preferenze. Più ampio, allora, si fa però, lo spazio di manovra dei rappresentanti e dei loro gruppi rispetto alla scelta originaria di chi ha espresso il mandato.
Quanto alle forme di intermediazione e comunicazione fra rappresentati e rappresentanti queste esistono e anche la politologia le registra. L’eroica ricerca dele regole per il perfetto funzionamento della democrazia procedurale deve arrendersi di fronte alla loro empirica e variabilissima importanza. Ricordo le più rilevanti: i partiti politici, le associazioni , l’opinione pubblica. E’ in questi spazi che si attiva il rapporto fra rappresentati e rappresentanti nella democrazia rappresentativa, ed è qui che può essere veramente falsificato il teorema rousseauiano sul “giorno unico”, quello del voto, come unico giorno veramente democratico di una democrazia rappresentativa. E’ qui che la realtà di una democrazia può essere riconosciuta e ciò può farlo, però, solo una ricostruzione di tipo individualizzante, storiografica, perché una formalizzazione rigida di che cosa siano , come operino, con quale efficacia. queste strutture di intermediazione è, più che impossibile, conoscitivamente depauperante. E’ chiaro che partiti politici, associazionismo, opinione pubblica sono teste di capitolo – anzi di libro – e io ne accenno solo per ricordare dove questi temi vengono a collocarsi nella problematica delle tensioni della democrazia. Si tratta di strutture che sono sostanzialmente indipendenti, nella loro formazione, consistenza, qualità, dalle pure e semplici regole procedurali della democrazia. E tuttavia è da esse che dipende il funzionamento di questa. Da esse dipende l’esistenza stessa, la qualità, lo spessore di un rapporto fra rappresentanti e rappresentati, fra politica e società. Se qualcuno di questi canali è troppo fragile, nonostante ogni perfetta costituzione, la democrazia è debole. Se qualcuno di questi canali degenera è il momento, allora, per la democrazia, di suonare l’allarme. Le forme di queste possibili degenerazioni: ecco dunque uno degli spazi maggiori per una esplorazione dei campi di tensione della democrazia. I partiti, il loro radicamento, le loro elasticità , i loro problemi di sostentamento, le loro subculture. L’associazionismo, la sua diffusione, i rapporti che nelle sue strutture passano fra interessi corporativi e cultura civica. L’opinione pubblica, i livelli di istruzione che la alimentano, le culture che la fanno lievitare, i canali massmediali che la informano e la formano, la pluralità effettiva di questi. La definizione della democrazia come “poliarchia” fa riferimento alla forza molteplice e convergente di questi diversi tessuti, che, insieme, controbilanciano e alimentano i luoghi specifici del potere politico. E’ la tematica della libertà liberale, quella di Constant, la libertà “da” – che, come è stato più volte osservato, è anche sempre libertà “di” – una libertà “da”, che, proprio per questo, è entrata a far parte organicamente del concetto contemporaneo di democrazia, come liberaldemocrazia. Ma, attenzione! Una tensione importante e drammatica – rispetto alla quale l’area liberale spesso si divide – è data, però, dal fatto che al potere politico democratico si chiede, sì, di non prevaricare in proprio, ma si chiede anche di difendere la “libertà di” di tutti i cittadini, “da” quelli che possono essere gli eccessi di potere di “poteri forti”della società: grandi strutture di informazione, grandi imprese, grandi organizzazioni, anche sindacali, anche ecclesiastiche. Non è facile, in questo tiro alla fune dalle due parti , evitare che l’una approfitti in proprio dei limiti che riesce a porre all’altra.
Ciò rimanda, dunque, ancora una volta, i problemi della democrazia alle articolazioni e alla robustezza della società democratica, alla sua cultura, a quel “civismo” che, a suo tempo, Salvemini trovava, per esempio, carente in Italia.
Ho iniziato dicendo che speravo di aiutare la discussione a non andare fuori strada. Concludo augurandomi di non avere conseguito l’effetto opposto.