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D’Amico-Schwartz

Giovanna D’Amico, I siciliani deportati nei campi di concentramento e di sterminio nazisti 1943-1945, Presentazione di Bruno Vasari, Palermo, Sellerio, 405 pp., € 20,00

Gli studi sulle deportazioni – politica, razziale, militare, per il lavoro – hanno conosciuto un considerevole aumento nel corso degli ultimi decenni. Il tema è stato affrontato sotto molteplici aspetti, che vanno dalle dinamiche dell’internamento e della deportazione alle reazioni delle vittime, allo strutturarsi della memoria pubblica della guerra ed al suo rapporto con i tanti vissuti individuali. Con questa varietà di questioni, opportunamente intrecciate tra loro, si confronta lo studio della D’Amico che affronta la questione attraverso un’ottica regionale. L’interrogativo di partenza riguarda la natura e i numeri della deportazione dei siciliani e – contestualmente – i motivi che hanno determinato una generale disattenzione per il fenomeno; come se la questione avesse riguardato solo ed esclusivamente le popolazioni del Nord e del Centro. Un totale di almeno 761 «siciliani», ovvero di cittadini italiani nati in Sicilia, finirono a vario titolo nelle maglie del sistema concentrazionario nazionalsocialista: una deportazione «atipica», con pochissimi individui che la subiscono per motivi razziali (appena 4) e poche donne. L’autrice identifica innanzitutto le diverse tipologie di soggetti coinvolti, nonché i mutevoli contesti in cui si articolò il vissuto dei deportati. Passa poi a ricostruire le vicende del ritorno e della reintegrazione psico-sociale, politica e culturale. Infine un ultimo capitolo è dedicato al tema della memoria, o meglio delle censure e dei condizionamenti che contrassegnarono il modo in cui i ricordi individuali potevano inserirsi in un quadro socio-culturale più ampio. Seguono due lunghe appendici, di quasi duecento pagine: la prima è composta da tabelle, grafici ed elenchi nominativi, la seconda da dieci interviste. Il volume è completato ed arricchito da una vasta bibliografia. La mole di dati prodotta è notevole e da questo punto di vista il lavoro ha certo un suo valore. C’è da chiedersi però quanto abbia senso questo tipo di ricerca, quanto cioè sia utile aggregare i dati sulla deportazione in base alla provenienza regionale e non in base al luogo di arresto. Lascia inoltre perplessi l’insistito riferimento alla categoria della «rimozione». Il termine, di evidente derivazione psicoanalitica, è stato spesso usato per descrive le dinamiche della memoria della guerra, e della deportazione, sia in Italia che altrove. Tuttavia storici avveduti – come per esempio Peter Novick (The Holocaust in American Life, Boston, Houghton Mifflin, 1999) – non hanno mancato di metterne in discussione la valenza euristica ai fini di una vera e propria storia della memoria. Il concetto freudiano di rimozione implica infatti l’idea della riemersione: il trauma subito sarebbe in una prima fase occultato per poi riemergere prepotentemente. Siamo sicuri che sia questo procedimento psicologico, e non altri meccanismi storici e politico-culturali, a determinare i tanti e lunghi vuoti di memoria del dopoguerra cui sono poi seguite le tracimanti piene di commemorazione odierna?

Guri Schwarz

Lettera di Giovanna d’Amico in merito alla recensione di Guri Schwartz

Il recensore prende l’avvio parlando di: “studi sulle deportazioni – politica, razziale, militare, per il lavoro -” che avrebbero conosciuto un notevole sviluppo negli ultimi anni. Non può non sorprendere la riduzione di fenomeni vasti e complessi ad un unico comune denominatore, ignorando che da parecchi anni la storiografia si sforza di introdurre distinzioni tra deportazione in KL, internamento militare e lavoro coatto atte a non fare di ogni erba un fascio. Schwarz propone inoltre che i deportati vengano studiati sulla base del luogo di cattura e non del luogo di origine; a parte il fatto che ciò significherebbe ritenere irrilevante gran parte degli studi esistenti sul tema, va considerato che solo la messa a fuoco sia dei luoghi d’origine, sia del percorso concentrazionario (di cui il luogo d’arresto è soltanto il punto di partenza) permette di trasformare meri nomi e cognomi in persone dotate di una storia e di un vissuto. Si tenga altresì presente che la Sicilia, come la Sardegna, ecc. non patì l’occupazione tedesca, cosa che aveva permesso il diffondersi di un senso comune per cui la deportazione era cosa del Centronord. Dimostrare che 761 siciliani finirono in Lager spezza quella che ha rappresentato una indubbia rimozione. Per ovvi motivi ciò era realizzabile soltanto prendendo in considerazione la loro origine e non prendendo le mosse dai luoghi d’arresto, peraltro estremamente vari e geograficamente spesso tra loro assai distanti. Inoltre, chi voglia leggere il volume vi osserverà una lunga riflessione sui motivi politico, sociali e istituzionali che hanno indotto in loco all’oblio della memoria della deportazione, fenomeno definibile perciò come rimozione, termine che non mi pare debba essere necessariamente inteso, come sembra pensare il recensore, in chiave strettamente “psicoanalitica freudiana”.