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Daniele Ceschin

Dottore di Ricerca, Università di Venezia
La categoria di “straniero interno” nell’Italia del ’900

Quella dello “straniero interno” o, più in generale, del “nemico interno” è senza dubbio una di quelle categorie che, anche da sola, può fornire un quadro interpretativo della storia d’Italia. Dal punto di vista storiografico, il concetto è sicuramente sfuggente ed infido, poiché si può prestare a tutte le strumentalizzazioni del caso. Il punto di partenza è rappresentato dalla definizione sociologica di “straniero” data da Georg Simmel, dove “lo straniero è un elemento del gruppo, la cui posizione immanente e di membro include contemporaneamente lo stare «al di fuori» e «di fronte»”. Da questo punto di vista “lo straniero interno non sta oltre il confine, entra nella dialettica della vicinanza e della distanza, sta nel nostro spazio significativo, appartiene alla nostra comunità”. È un elemento che rafforza la nostra identità, ci fornisce una legittimazione a sentirlo altro rispetto a noi e al nostro gruppo pur facendone parte.

La mia ricerca sul nemico interno durantela Grande guerra è nata dall’interesse per la specificità del socialismo italiano che, a differenza di altri casi – su tutti quelli francese e tedesco – si oppone con forza alla guerra. Ma il motivo d’interesse si sposta poi a quei socialisti, sindacalisti rivoluzionari, repubblicani, persino anarchici, che abbandonano presto il fronte del pacifismo e del neutralismo per diventare interventisti e quindi in un certo senso “collaborazionisti” con un’idea altra rispetto al guerra di quella che avevano ad esempio nazionalisti e liberali. Per la classe dirigente questi “ex” saranno sempre visti con sospetto per la loro provenienza, identità, percorso e per i loro sforzi di apparire più interventisti degli altri. Saranno anche loro visti come dei nemici interni, affidabili ma fino ad un certo punto.

Mi pare che ci sia almeno un altro caso molto emblematico in cui il nemico interno tradizionale accetta una forma di collaborazionismo con la classe dirigente con un’idea altra rispetto alla patria, allo Stato, alla società, ed è quello dell’antifascismo all’indomani dell’8 settembre, in particolare dell’antifascismo comunista che dopo la svolta di Salerno accetta, come noto, di collaborare con la monarchia, il governo Badoglio e poi Bonomi. Un collaborazionismo che non è fine a se stesso, ma che parte da un’idea molto precisa di quella che deve essere l’Italia del dopoguerra. Un collaborazionismo che l’ex (e futuro) nemico interno paga a caro prezzo, sacrificando non solo ideali e speranze, ma anche aspetti concreti. La formula togliattiana del “partito nuovo”, lungi dall’essere uno slogan propagandistico, è un percorso praticabile che si regge sulla volontà di dar vita, fin dalla svolta di Salerno, ad un partito nazionale, democratico e di massa. Gli sforzi del leader comunista saranno volti, almeno fino al maggio del ’47, proprio in questa direzione e ne sono una prova le numerose occasioni in cui Togliatti stesso asseconda una politica fin troppo moderata, nel tentativo di accreditare il partito come una forza affidabile.

Il punto di partenza della mia possibile relazione sarebbe ovviamente il ruolo che lo “straniero interno” ha assunto all’interno dei processi politici che hanno interessato la Grande guerra e che ne sono scaturiti. Nel parallelismo con il periodo 1944-1947 proverei a dimostrare come questa appartenenza conflittuale – da qualunque parte la si consideri o la si esamini – rappresenta un tratto comune e persistente nei cleavages della storia d’Italia.