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Discendiamo dai Mongoli?


di Alessandro Barbero

(da La Stampa, 12 marzo 2001)

E’ un peccato che ai dieci del Grande fratello fosse proibito tenere carta e penna. Altrimenti si sarebbe potuto chiedere loro, per ingannare il tedio delle serate invernali, di scrivere il documento ministeriale sui nuovi curricoli di storia; ne sarebbe uscita certamente una proposta più giudiziosa di quella prodotta dalla commissione di esperti. Parecchi storici si sono già pronunciati nel merito in queste settimane, ma siccome il testo del documento continua a circolare immutato e anzi da pochi giorni è stato addirittura stampato in un aureo libretto, vale la pena di ritornarci. Il nocciolo della faccenda sta, com’è noto, nell’impegno di suddividere fra tre anni scolastici, gli ultimi tre dell’obbligo, l’intero contenuto della storia mondiale prima della rivoluzione industriale; ed è qui che un qualunque gruppo di italiani presi a caso avrebbe certamente lavorato meglio degli esperti ministeriali. Intanto, nessuno avrebbe pensato di scrivere «il processo di ominazione» anziché «la comparsa dell’uomo sulla Terra», che vuol dire la stessa cosa, solo in modo meno pomposo; ma qui forse la colpa non è soltanto della commissione, questa specie di neolingua di plastica alligna già da tempo nelle paludi del pedagogismo. Quel che più conta, a nessuno sarebbe mai venuto in mente di riservare l’intero primo anno allo studio dell’età della pietra e dell’età del bronzo, e di concentrare nel secondo, con fantastica galoppata, la Grecia, Roma, il Cristianesimo, l’Islam e la civiltà araba, l’Europa medievale e l’America precolombiana, nonché, per buona misura, la storia dell’impero mongolo, dell’Africa subsahariana e dell’Oceania prima della colonizzazione europea. Intendiamoci: che la scuola debba insegnare ai ragazzi che la civiltà occidentale, anche se ha conquistato il mondo, non è l’unica e nemmeno la migliore è pacificamente riconosciuto da tutti. Ma al tempo stesso, non dovrebbe forse la storia insegnare ai futuri cittadini a decodificare la società in cui vivono, che è quella occidentale; a capire come si sono formati i suoi valori e le sue leggi, le sue istituzioni e la sua religione, fra l’altro proprio per non subirli passivamente ma per viverli in modo critico e aperto? E per far questo, non sarà forse meglio, in un paese come l’Italia, riservare più spazio ai Romani che agli Assiri, alla diffusione del Cristianesimo piuttosto che all’impero mongolo, al millennio medievale piuttosto che ai pur coraggiosi navigatori polinesiani? Pare di no, nelle indicazioni ministeriali sulle finalità delle discipline non c’è traccia di questo fine che è poi l’unico, o quasi, per cui si studia la storia. Paiono tutti convinti che le esigenze di un’educazione multiculturale impongano di non sapere nulla su come si è formata la nostra cultura; con l’inevitabile risultato che i naziskin continueranno a crederla la migliore e imporla agli altri col manganello. Cosa dire? Fino a un po’ di tempo fa si temeva che col prossimo avvento di Buttiglione al ministero la storia studiata a scuola si sarebbe ridotta a storia del Cristianesimo; ora tocca riconoscere, non senza un po’ di sgomento, che sarebbe ancora il meno peggio.