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Emilio Franzina

Università di Verona

 Confini / Grenzen

Convegno di studi / Studientagung

Bolzano-Bozen, 23-25 settembre/ 23.-25. September 2004

“Varcare i confini”: viaggi e passaggi degli emigranti. Il caso italiano e le teorie transnazionali*

* versione provvisoria e priva di note

1. In un’opera dedicata alle “molte diaspore” degli italiani, importante e ricca di intelligenti provocazioni, ma spesso anche pericolosamente schematica (Gabaccia 2003), Donna Rae Gabaccia individua nella loro storia un deficit di coscienza nazionale piuttosto elevato e comunque superiore alla media di altri popoli “migratori” (irlandesi, greci, polacchi ecc.) nonché destinato , inevitabilmente, ad avvalorare alcune peculiari propensioni italiche (localismo, scarso senso civico, atavica sfiducia nello Stato, familismo ecc.) e a rafforzare dunque il tasso di transnazionalismo insito in un “modo di vivere”, quello degli emigranti,che normalmente – si pensa,e noi stessi pensiamo – “lega assieme famiglia,lavoro e consapevolezza di avere più di un territorio” di riferimento (Gabaccia 2003, Introduzione ,106-107 e passim). In Italia insomma,assai più che altrove, l’emigrazione avrebbe dato vita a una decisiva “economia internazionale della famiglia” (ivi,123 e ss.) e avrebbe reso il transnazionalismo, tipico dei secoli XIX e XX, “una dimensione normale di vita per molte famiglie di lavoratori” configurandola , per dirla con parole di Arjun Appadurai, come “un’etno-fuga dalle origini antiche” (1). Benchè non sfugga, all’autrice, la centralità del ruolo svolto dagli Stati-nazione ,e quindi anche dal Regno d’Italia fra età liberale e fine del fascismo, nell’organizzazione e nella direzione della vita umana in un’epoca di “transnazionalismo diffuso” , c’è forse un eccesso di semplificazione e di pessimismo nelle sue tesi quanto meno rispetto al fatto , su cui non mi posso intrattenere più di tanto in questa sede benchè sia stato qua e là suggerito persino “dal basso” (2), che l’emigrazione italiana per un lato abbia dato luogo a un lungo susseguirsi di “diaspore” e soprattutto,per un altro, che gli abitanti della penisola di rado si siano sentiti parte, sin quasi ai giorni nostri,“in patria o all’estero, di una nazione di italiani”. L’indubbio ritardo culturale e l’analfabetismo prevalenti nella gran massa dei lavoratori rurali, migranti e non migranti, il loro classismo così come il loro stesso conservatorismo non impedirono, già nel corso del periodo postunitario, ossia durante i decenni cruciali del nostro nation building, ma anche di debutto dell’emigrazione di massa, che si diffondesse e s’irrobustisse, ad esempio, l’uso dell’”italiano popolare”, che infatti era parlato e inteso da gran parte degli stessi contadini (Bruni 1992) e quanto ai processi indotti dall’opera di acculturazione nazionale dello Stato (leva, istruzione elementare, educazione popolare ecc.) sarebbero tutti da vederne e anzi da rimeditarne gli effetti già a far data dalle principali emergenze , belliche in specie, d’inizio secolo XX (Franzina 2001 e 2004). Segnalati questi dubbi e ferme restando tali perplessità, rimane assai vero ciò che Gabaccia dice invece del transnazionalismo espresso o riflesso dalle scelte e dai comportamenti concreti della maggior parte degli emigranti in un’età che forse anticipò, come hanno ben intuito Suzanne Berger, Ercole Sori e vari altri autori (Franzina 2004 in corso di stampa), quella odierna della globalizzazione planetaria liberista e nella quale già “l’economia mondiale in espansione ben pochi confini nazionali” (Gabaccia 2003,72). Revocati in vita da un mercato internazionale della forza lavoro in cui la mobilità dei capitali reclamava e incrementava appunto su scala mondiale la mobilità territoriale delle donne e degli uomini chiamati ad alimentarlo, anche gli emigranti ,con le loro pratiche di vita e nei loro spostamenti, si uniformavano a una tale regola: “La disciplina familiare – attesta la stessa Gabaccia – la sicurezza economica , la procreazione, le eredità, le storie d’amore e i sogni superavano i confini nazionali e allacciavano tra loro i continenti.” L’irrilevanza dei confini nella percezione corrente dei singoli emigranti, secondo una prospettiva ben nota e suggerita tra i primi da Giovanni Levi (Levi 1993), non elimina tuttavia la loro funzione o l’esistenza di ostacoli, di barriere e di “frontiere” con cui fare i conti e cioè da “cercare”, da “valicare” ovvero da “varcare”. Nei canti popolari di emigrazione in auge fra Otto e Novecento (Franzina 2001,537-562) se ne trova una traccia cospicua e formalizzata che talvolta sembrerebbe rinviare alla classica, ma un po’ scolastica distinzione fra emigranti “continentali” ed emigranti “transoceanici”. Nei “lamenti” che prendono a interlocutrice per lo più la moglie o l’amata i primi,ad esempio, sono spesso ritratti nell’atto di raggiungere i confini d’un qualche paese straniero (“Cara moglie di nuovo ti scrivo/che mi trovo al confin dela Francia/e anche quest’anno c’è poca speransa/di poterti mandar dei danè” – “Cara Rita ti devo lasciare/me ne vado a cercare i confini/Ti raccomando i miei cari bambini/che mi distrugge doverli lasciar”(3) ), mentre l’infausta sorte di alcuni dei secondi , il naufragio e la morte per mare, viene talora contrapposta alla comune speranza indotta dall’emigrazione e dal mito dell’America (come accade nel più celebre degli epicedi marittimi di un anonimo cantastorie che nel 1906 modula così l’incipit del proprio componimento dedicato al “tragico affondamento del Sirio”: “E da Genova/il Sirio partivano/per l’America/a varcare i confini/e a bordo cantar si sentivano/tutti lieti del suo destin”(4) ) . Naturalmente bisognerebbe serbare riguardo ai diritti della periodizzazione e ricordare quanto poi mutino, col passar del tempo, sia i dati di fatto che le già ricordate “percezioni” soggettive del confine con i contorni e con le fattezze stesse dei migranti. Allo scadere quasi di un ciclo emigratorio secolare ,il sarcastico motivo corale che Dario Fo ,nel 1962, sceglieva di utilizzare per dar forma a una sua celebre edizione televisiva ,poi censurata, di “Canzonissima” – in tempi in cui,come si sa, ancora vivacissimo era l’andirivieni ,soprattutto in Europa, di lavoratori italiani (Romero 1991 e 2001,397-414) – introduceva un nuovo genere di distinguo e più o meno, cito a memoria, recitava: “Facciam cantare gli esuli/quelli che passano le frontiere/assieme agli emigranti/che fanno i minator” , dove, quantunque motivata anche da esigenze metriche, la differenza fra “quelli che passano le frontiere” e gli emigranti “che fanno i minator”, essendo Schengen di là da venire, Marcinelle ancora tragicamente vicina e il processo di unificazione europea appena avviato (5), verrebbe la tentazione di vedere affermato un principio distintivo che collegava la figura del migrante italiano a ruoli professionali e lavorativi ben definiti o comunque prevalenti e acclarati. Sebbene il “mestiere d’emigrante” – il “mestiere per partire” di Patrizia Audenino e di molti altri studiosi della mobilità anche preindustriale (Bade 2001, Sanfilippo 2003) – non costituisse certo una novità nell’Italia dei primi anni sessanta del Novecento , la permeabilità e la ridefinizione di confini e frontiere frattanto intervenute , assieme a un diverso ( e accresciuto) senso di appartenenza nazionale avranno ,dico, giocato un loro ruolo. E tuttavia oggi sappiamo, se non altro grazie alle meritorie incursioni di un brillante giornalista divulgatore come Gianantonio Stella (Stella 2003,167-184), che la drammatica stagione degli ingressi clandestini di emigranti italiani in Francia , in altri paesi europei e persino, ancora, a bordo di navi e di piroscafi in rotta per le ultime volte verso l’America o l’Australia,nel 1962,non era ancora del tutto o propriamente conclusa : all’inizio esatto di quell’anno, l’anno della “Canzonissima” or ora ricordata di Dario Fo, risale l’emblematica e sventurata fine del ventiseienne panettiere di Bagno a Ripoli Mario Trambusti tradito forse da un qualche passeur (magari calabrese o ligure, Biamonti 1991) e perito sfracellandosi in un dirupo al Passo della Morte , uno dei punti di transito clandestino più frequentati dai nostri “fenicotteri” appena sorpassata Ventimiglia e a breve distanza da Mentone (ancora Stella ,cit.172, segnala del resto come Trambusti fosse ufficialmente l’ottantasettesimo italiano morto nel tentativo di “varcare illegalmente” di là il confine franco italiano). Anche i nessi tra confini e loro attraversamento illegale risuonano qua e là, in musica, nella cultura popolare italiana (com’è in alcune canzoni della Val Seriana riferite a esperienze di fine ottocento e raccolte da Mimmo Boninelli dove si parla dello “scavalcamento” furtivo di colline e montagne che causerà l’arresto dei migranti, scettici già in partenza ossia fin dal primo verso sulle proprie chances:”Come faremo girare la Francia/sensa i carte,sensa i carte/de la nostra nasiòn ,Boninelli 1996 ) e tuttavia la menzione che si è fatta , di certo non per caso, dei “passaggi clandestini” sottende, nella storia dell’emigrazione italiana (e non solo, va da sé, italiana) alcuni problemi dai quali occorrerà, adesso, ripartire. Il primo di tali problemi concerne intanto il fatto che le dimensioni storicamente assunte, di periodo in periodo ma con una progressione accertata già ai primi del novecento (Frescura 1904) ,da un fenomeno come quello delle emigrazioni clandestine, a volte imponenti, ma sempre di sicuro consistenti (Borruso 2001,141-161), mettono in guardia contro la tentazione abbastanza spontanea di sorvolare sulla natura e sulle ragioni della propensione psicologica ,palese in pressoché tutti gli emigranti,massime se “temporanei”, a conferire scarsa importanza alla questione dei confini “di Stato”. In effetti se si prendano in considerazione , com’è giusto e come anche noi qui faremo, le testimonianze dirette dei protagonisti e le loro reazioni di fronte all’ostacolo rappresentato dalla presenza di barriere che, per quanto a lungo porose, costituivano un intralcio al libero movimento delle persone risoltesi ad emigrare e a vivere e a lavorare all’estero, non riesce difficile accorgersi di quanto esiguo fosse per un verso il valore simbolico annesso dalla stragrande maggioranza di costoro al gesto dell’espatrio ed alta invece,nonché assai concreta, la loro preoccupazione rispetto alle sue possibili conseguenze nel caso esso dovesse avvenire (o fosse avvenuto) oltrepassando senza i documenti “prescritti” le frontiere: la loro mancanza, come minimo, incrementava presso l’opinione pubblica dei cosiddetti “paesi ospiti”, il consolidarsi di pregiudizi e di opinioni negative nei confronti dei lavoratori stranieri in genere e non solo verso quelli di loro che vi avessero fatto ingresso eludendo le verifiche e i controlli delle autorità locali (non a caso tra i nomignoli spregiativi con cui nel corso del novecento furono più e più volte definiti in USA gli italiani si segnala in rilievo il termine Wop, sigla, secondo alcuni, del sintagma “without official papers”). Anche tra gli immigranti, del resto, era abbastanza viva la consapevolezza del non secondario particolare come attestano un po’ tutte le fonti popolari scritte sul tipo,solo per citarne una, de Les Memoirs di Luigi Ravina, Il Cavaliere con la fisarmonica. Nella sua autobiografia scritta in francese dopo una vita passata nel paese transalpino divenuto la sua patria di adozione, ma relativa a un primo periodo di permanenza in Argentina all’inizio del secolo, questo operaio piemontese con la passione della musica, narra, al pari di tanti altri,la trafila burocratica (6) della preparazione dei documenti necessari all’espatrio, da lui fatta “a Dogliani presso il rappresentante di un’agenzia marittima” e il proprio imbarco, avvenuto a Genova il 4 novembre del 1907, su un piroscafo diretto a Buenos Aires. Il viaggio, “inizialmente tranquillo” si animò “dopo lo scalo a Barcellona…quando un imprevisto ruppe la monotonia delle giornate” dello scrivente: “il capitano – ricorda Ravina – scoprì a bordo trentadue clandestini; ma non essendo probabilmente consuetudine gettarli in mare, li destinò alle comandate fino all’arrivo… ”(Ravina 1992,38-39). Anche Pietro Riccobaldi, l’antifascista spezzino di Manarola, che nel 1924 si arruola come marittimo su di una nave da carico in partenza da Palermo per New Orleans con la precisa intenzione di entrare negli Stati Uniti aggirando i provvedimenti di quota e a dispetto delle altre restrittive norme di legge (7), coronando il suo sogno,sbarca al nuovo mondo appunto da clandestino e da clandestino vivrà per tutti gli anni Venti in America,vero ”straniero indesiderabile” (Riccobaldi 1988,94) anche se “regolarmente sposato ad una cittadina americana”. Altre volte, com’è nel caso di Antonio Margariti (Margariti 1979,73),il superamento illegale dei confini e la clandestinizzazione degli emigranti precedono via terra (il che per Margariti comporta un percorso complicato dalla Calabria a Milano a Chiasso e quindi dalla Svizzera , sino a Le Havre) il momento dell’imbarco per l’America, implicando partenze “preordinate” da porti stranieri (Havre,appunto, Marsiglia, Amburgo, Brema, Glasgow ecc.) le quali assorbono,per molti anni, una discreta percentuale del nostro traffico passeggeri transoceanico (Franzina 1998,57).

2. Ritorneremo più avanti sui confini “liquidi” delle traversate nel classico tragitto marino degli spostamenti compiuti dagli emigranti (e dagli emigranti “pendolari” e/o di ritorno) per raggiungere in nave le loro mete transoceaniche misurandosi inevitabilmente con almeno qualcuno di quei simboli metaforici del “passaggio” al “nuovo mondo” (rigenerazione, rinascita, battesimo, rituali carnevaleschi ecc.) che erano ancora “sensibili” o in auge tra la fine dell’ottocento e la metà del secolo successivo. Per il momento,nonostante,come si è visto, la clandestinità marcasse anche i viaggi per mare tra l’Europa e l’America , il quadro di riferimento più appropriato rimane quello offerto dalle migrazioni cosiddette continentali e di tipo temporaneo dove sin dalla fine del settecento sono intanto le fonti popolari scritte dai protagonisti a certificare, per dir così, “in prima persona” , l’inessenzialità simbolica dei confini dal punto di vista dei migranti. La serie non ancora cospicua,ma comunque rappresentativa dei diaristi, degli epistolografi e infine degli autobiografi spinti o sollecitati a scrivere di sé dall’emigrazione (8), dal ligure Andrea Gagliardo ai molti friulani a cui hanno prestato spazio e attenzione prima Ludovico Zanini, poi vari linguisti (Faleschini,Pellegrini ecc.) e oggi, con competenza e acume, Javier Grossutti, Francesco Micelli e Giorgio Ferigo (9) , documenta in questo senso il riproporsi di una estraneità al problema dei confini da parte degli emigranti che si attenuerà o che varierà soltanto con il variare dei contesti storici e con l’incedere,ad esempio in Veneto, Carnia e in Friuli (Ferigo e Fornasin 1997,Ferigo 2002) dei processi già ottocenteschi di acquisizione,da parte degli emigranti, di un qualche barlume di coscienza nazionale o più semplicemente di un qualche embrione di consapevolezza delle diversità intercorrenti fra i sudditi dello stesso Impero asburgico: processi, sia detto, generati quasi sempre dalla concomitante esperienza della coscrizione militare o di eventi bellici e rivoluzionari coevi. Paolo Colavizza, il lavoratore osovano autore di una indicativa Discrisione della vita passata all’estero (in Bosnia, in Dalmazia,in Lombardia e in Svizzera come soldato e in Carniola,in Carinzia e nel Salisburghese in veste di emigrante) ovvero di una autobiografia in cui ostenta sovrana indifferenza per le frontiere che si trova a traversare e che dovrebbero tenere rigorosamente separati i popoli gli uni dagli altri, comincia poi a distinguere nel suo racconto “li italiani” da “li Austriaci”, senza mai parteggiare peraltro né per gli uni né per gli altri, allorché ne vede in azione le differenti compagini durante i moti milanesi di marzo e in generale durante i fatti più e meno cruenti del 1848 (Ferigo 2002,41). Ma non diversamente da lui , stando alle loro parole, reagiscono dinanzi alla leva e alla necessità di emigrare ,che portano entrambe a contatto con il problema dei limiti o dei confini, anche molti altri soggetti esposti, sempre di più dopo la metà dell’ottocento, alla influenza e all’azione formativo pedagogica di due Stati e di due monarchie (prima l’Impero asburgico e quindi il Regno d’Italia) di cui si trovano ad essere, in tempi diversi, sudditi e cittadini. I vari Giacomo Brollo di Gemona, Andrea Franz di Moggio (la cui vita fornisce oggi la trama di una avvincente affabulazione teatrale di Ascanio Celestini) o gli stessi Antonio De Piero di Cordenons e Bortolo Belli di Oderzo – i quali prenderanno solo alla fine la strada delle Americhe facendo il proprio apprendistato emigratorio in Europa e portandosi all’estero per la prima volta attraverso alcune “porte” distintamente individuate nel ricordo (De Piero,1994,25 a “Cormons,confine doganale a quell’epoca”, Belli 2003,115 “a Udine ch’è la città di confine nostro”) e via via gli altri già scrutinati o citati a suo tempo anche da chi scrive (Franzina 1992 passim), testimoniano tutti, qual più qual meno, una dimestichezza affatto speciale con i viaggi a piedi o in ferrovia che macinano centinaia di chilometri e valicano frontiere su frontiere. L’attraversamento delle quali da parte degli emigranti, sia quando avveniva per la prima volta sia dopo, comportava insomma patemi o difficoltà solo se legato a un eventuale difetto di documentazioni e di “carte” ossia a una mancanza che tradiva anche, e tradì a lungo, la loro parallela estraneità ,se non addirittura la loro ostilità, ai “pubblici poteri”. La comparsa tra fine settecento ed età napoleonica (Heindl e Saurer 2000) di nuove forme di controllo statuale sugli individui (intesi come forza lavoro occupata, occupabile o, più spesso, disoccupata e “vagante” (Sernini 1982,212-214) ) – forme che si rifacevano contemporaneamente all’elemento spaziale della territorialità e alle più diverse esigenze di vigilanza sulla ”sicurezza pubblica” o di stabilizzazione dell’ordine sociale da parte del potere monarchico – avevano già segnato, indubbiamente, un trapasso significativo verso la modernità dopo l’epoca dei salvacondotti, delle “permissioni” principesche e delle “lettere patenti” a cui pure si potrebbero riferire alcune delle più precoci esperienze di tipo emigratorio professionale che , quantunque “malfamate”, contrappuntarono in Italia, fra sette e ottocento (Porcella 1998 e 2001), le ben più comuni e antiche pratiche repressive della girovaganza e del vagabondaggio di vecchio regime (Meneghetti Casarin 1982). L’entrata in vigore dell’obbligo di munirsi, per valicare un confine o semplicemente per spostarsi da una località ad un’altra poste sotto la medesima giurisdizione, di libretti di lavoro, di carte di riconoscimento, antenate della futura carta d’identità, e soprattutto, ovviamente, di passaporti (Torpey 2000), nel momento in cui stavano per iniziare,verso la metà del secolo XIX, i primi movimenti migratori di massa soprattutto dall’arco alpino , aveva abituato già da tempo le popolazioni a convivere con simili misure. Ma si trattava, va da sé, di una convivenza al tempo stesso “pacifica” e piuttosto virtuale destinata a complicarsi al contatto con alcune scelte trasgressive quali la diserzione militare , di cui sono stati poco studiati gli effetti e i nessi con l’emigrazione (9), e il contrabbando La relativa indifferenza di un Colavizza e la scarsa emozione con cui i “normali” emigranti stagionali, periodici o transfrontalieri dell’Italia settentrionale, dal Piemonte al Friuli, ricordano nelle loro memorie ovvero esprimono nelle loro lettere a casa – ripetiamolo, sin dalla fine del settecento (10) – il raggiungimento e il passaggio delle frontiere destinati ad immetterli nel contesto lavorativo di paesi come la Francia o come “le Germanie” (quantunque già molti di loro usassero spingersi ben più in là,tra l’area danubiano balcanica , la Russia e l’Oriente o il Nord Africa), rimandano entrambe a un tipo di cultura che aveva dunque incorporato del tutto a suo modo la nozione di confine (Ossola, Raffestin e Riccardi 1987) . Le vie del “foresto” percorse e ripercorse da generazioni di cramari (o cramars, cromeri ecc.) e di lavoratori o commercianti trentini e asiaghesi, carnielli e friulani, tesini e valsuganotti (11), implicavano la conoscenza del termine e dell’oggetto sotto vari punti di vista. Quello sopra evocato di sfuggita dei traffici illegali riassunti nella pratica assai diffusa del contrabbando vantava,nelle valli alpine, una annosa e ben nota tradizione (Preto 1987) che si sarebbe a tratti confusa, passata la metà dell’800, con quella nascente degli espatri clandestini per motivi di lavoro mentre altri, sovente più trascurati, avrebbero anch’essi preso prima o poi a interferire, in qualche modo, con la storia delle grandi migrazioni transoceaniche prodottesi sul finire dello stesso secolo: in certe zone di cerniera fra il Dominio di Terra della Serenissima e l’Impero Asburgico (Pase 1997,14-26), destinate a tornar “di frontiera” solo nel 1866 dopo un cinquantennio di dominazione austriaca sul Veneto e su gran parte del Friuli, le secolari liti di montanari, pastori e malghesi per l’uso di pascoli e di alpeggi, tra la Valle del Brenta e la Valsugana, tra la Valsugana e l’Altipiano dei Sette Comuni, tra la Valdastico e gli altipiani di Lavarone e di Folgaria ecc. (12), pur promanando da evidenti ragioni d’interesse economico “privato” o comunitario propri di diversi soggetti, appunto perché le linee confinarie comunali venivano a coincidere con quelle di Stato,non solo avevano tenuto occupati e preoccupati per secoli, inevitabilmente,i Provveditori ai Confini veneti e le autorità imperiali e tirolesi, ma avevano anche finito per ripercuotersi sulla mentalità e sulle reciproche (sc. poco amichevoli) attitudini di gruppi umani locali destinati magari a ritrovarsi uniti,abbastanza di frequente negli anni ’70 e ’80 dell’ottocento, a bordo dei vascelli in rotta per le Americhe e persino geograficamente di nuovo vicini tra loro nei più remoti paesi di destinazione e d’insediamento coloniale come nel sud del Brasile. Dove, peraltro, si noti, venivano sperimentate e scoperte nuove linee di demarcazione destinate per qualche tempo a rafforzare divisioni e distinzioni etnico-linguistiche – ma poi anche politiche per quanto concerne le nazionalità – senz’altro preesistenti (e tuttavia a malapena percepite in patria anche qualora a ravvivarle o ad acuirle fossero stati, di tempo in tempo, contrasti e contenziosi sul genere di quelli contemplati nella casistica appena accennata delle liti confinarie in zone europee di frontiera) mentre, come pure si sa, mutava radicalmente in molti luoghi , per i coloni immigrati, la nozione stessa di “frontiera” divenuta ben presto anche per loro, nell’accezione turneriana e in genere americana del termine, sinonimo di espansione e di conquista di suoli o di “terre libere”(13) Anche l’identità dei migranti trasferitisi in pianta stabile all’estero, a dire la vero, se messa alla prova della quotidianità dei bisogni, dei lavori e degli affetti risulta essere, a propria volta, quasi per definizione,e lo ha ben argomentato di recente Sonia Floriani , una “identità di frontiera” in cui l’impressione ricorrente di stare come sospesi “nel tempo e nello spazio” dei soggetti determina in essi “un senso frantumato di sé”, vissuto intimamente come oscillazione “fra un qui e un altrove via via più sfumati e meno distinguibili o fra un prima e un dopo via via più distanti e inconciliabili”,ma percepito anche dagli osservatori esterni (tra cui sociologi e storici) “come un senso di sé i cui frammenti sono sparsi fra coordinate spazio-temporali diverse” (Floriani 2004,66) e per i quali una possibilità di rapida ricomposizione non sembra né facile da realizzarsi né, appunto, a portata di mano in tempi brevi. Rispetto invece a quella degli emigrati “trapiantati” in America o comunque fissatisi in via pressoché definitiva lontano da casa, la condizione dei migranti periodici o stagionali appare caratterizzata da un tasso superiore di equilibrio e di stabilità garantito se non altro dal fatto che i loro punti di riferimento fondamentali, e in modo non simbolico,bensì concreto e quasi granitico stavolta, restano sempre le famiglie e i villaggi di origine o di appartenenza. Ciò non toglie che anche costoro siano poi uomini (e donne allorché comincerà a prender piede l’emigrazione femminile) compiutamente “di frontiera” , avvezzi cioè a misurarsi con le insidie e con la relativa imperatività dei confini. La stessa imperatività elusa o sottaciuta del resto a fine ottocento, per il versante orientale delle Alpi, dai geografi e dai compilatori di guide atte a favorire l’escursionismo d’alta montagna (Lioy ,Brentari,Cainer,ecc.). Anche costoro nel descrivere sentieri e itinerari “suggestivi” a tutto beneficio dei primi turisti borghesi (Di Mauro 1982,369-428,Pastore 2003) – com’è in Veneto quando il loro discorso cade ad esempio su vette e su cime verso cui “concorrono i confini del Vicentino, del Veronese e del Trentino” (Brentari e Cainer 1887,123) – raccontano uno spazio geografico quasi del tutto depurato da interferenze politiche perché le Guide , di norma, identificano quei luoghi “più come spartiacque tra i diversi bacini idrografici che come elemento di separazione tra Stati. Il percorso indicato dalla sequenza delle località, infatti, talvolta sconfina, per poi rientrare in territorio italiano” senza che mai i testi lo segnalino tanto da far sospettare o da potersene dedurre che “l’impatto del confine sul paesaggio” fosse allora per tutti ,senza ombra di dubbio, “quasi inesistente”: e ciò non solo, sembra di capire, a causa del ricordato e provvisorio venir meno, dal 1813 al 1866, di una netta separazione fra i territori della Serenissima e quelli del Tirolo austriaco. Essa,infatti, era stata sì archiviata relativamente a lungo prima dell’annessione,ma poi era stata tosto ripristinata e resa di nuovo operante inibendo almeno in linea teorica “i collegamenti e gli scambi attraverso i numerosi passi, bocche, selle segnalate su queste montagne dagli itinerari. I mandriani avevano però continuato a praticare sentieri e valichi d’alta quota indipendentemente dai cambiamenti politici , che avevano fatto riprendere vigore al contrabbando.” (Vantini 2003,173) Benché si disponga per l’Italia fra otto e novecento di una serie sufficientemente ampia di prove e di testimonianze dirette d’un tale stato di cose che implicava, come pure s’è visto, a ridosso dei confini orientali , la coesistenza di figure (e quasi di ruoli “misti” e abbastanza consolidati) in moto assiduo su e giù per le frontiere – villici e pastori, malghesi ed emigranti, disertori e contrabbandieri, spesso unificati e interpretati appunto da un’unica persona – non credo vi siano al riguardo descrizioni più convincenti e avvincenti di quelle solo in parte “inventate” per noi lettori d’oggidì da Mario Rigoni Stern nella sua Storia di Tönle. (14) Tönle Bintarn non è dunque un personaggio immaginario e la sua vita, al tempo stesso normale e avventurosa, comincia ad Asiago nel segno degli Asburgo sotto le cui insegne egli presta un lungo servizio di leva in Boemia da alpino zappatore e da “soldato scelto nella landwehr” conservando sino alla fine dei propri giorni, come se fosse una specie di succedaneo del passaporto (di cui, divenuto “italiano” nel 1866,mai si sarebbe munito),il foglio di congedo dall’esercito di sua maestà imperiale Francesco Giuseppe. La sua prima carriera lavorativa “in patria” ( o quasi in patria) è di pastore e di contrabbandiere , ma s’interrompe bruscamente a causa di uno scontro con le guardie di finanza regnicole in zona di confine che gli costa dapprima una denuncia e quindi una condanna a molti anni di prigione: una carcerazione che Tönle riuscirà ad evitare , sino all’amnistia ottenuta in età ormai avanzata, autocostringendosi a una latitanza parziale, intermittente e prolungatissima che prende da subito i colori o i sembianti dell’emigrazione, una forma di vita e di lavoro a cui egli si era del resto precocemente allenato sino almeno dal tempo in cui aveva preso a girare il mondo, “prima come ragazzo porta-acqua nelle miniere, poi come eisenponnar sulle strade ferrate in costruzione, o anche da militare.” Il mestiere di emigrante riprende dunque per lui in società con un venditore di stampe tesino con cui batte le strade e i villaggi del Tirolo, della Svizzera, del Voralberg,del Salisburghese, della Boemia e della Baviera e insomma, per dirla alla friulana, delle “Germanie” di cui apprende o affina lingue e dialetti e da cui rientra clandestinamente, “varcando i confini”, quasi ogni anno, sino a misurare più volte di persona i cambiamenti che a fine secolo intervengono nella composizione e nell’orientamento dei flussi migratori alpini:

Il tempo, intanto, segnava i visi dei famigliari e degli amici, accadevano cose nuove e nuove idee circolavano anche tra la gente delle nostre contrade. Ormai erano in tanti che andavano a lavorare fuori dai confini dello Stato; partivano in primavera, a gruppi, con gli arnesi del mestiere dentro la carriola e a piedi si avviavano per l’Asstal e il Menador fino a Trento, dove chi aveva soldi poteva anche prendere la strada ferrata. A volte, a questi gruppi, si accompagnavano anche dei ragazzi che avevano appena terminato la scuola elementare, e al confine del Termine le guardie dell’una e dell’altra parte li lasciavano passare senza alcuna formalità, tutt’al più chiedevano se avevano in tasca il certificato di battesimo. Ma chi riusciva, lavorando prima in Prussia o in Austria Ungheria, a mettere insieme i soldi occorrenti per pagare il bastimento emigrava nelle Americhe. Laggiù, scrivevano, era tutta un’altra cosa: lavoro ce n’era sempre e le paghe erano più alte che in qualsiasi altro paese…”

Senza trascurare le piccole schiere dei geografi e dei primi turisti borghesi i quali, come si è detto, pur amanti della cartografia oltreché della montagna,davano anch’essi mostra di ignorare la valenza politica dei confini (meno forse quella militare come attesta nel romanzo l’aneddoto riferito a un infaticabile e dotto camminatore boemo , il dottor E. von Paul, con cui Tönle stringe anche amicizia e che rientrato nel 1913 in Austria si scoprirà essere poi un ufficiale della I.R. artiglieria sin troppo interessato alle fortificazioni, alle strade e alle sorgenti al di qua del “Termine” e della sua celebre Osteria) sono uomini sul tipo di Tönle a incarnare il disincanto proletario e della gente comune dinanzi alle barriere disegnate a tavolino su una mappa. Rigoni Stern immagina non a caso per il proprio protagonista , pastore ex clandestino ed emigrante in congedo, assieme a una morte singolare in tempo di guerra, radicali scelte di campo classiste. Nella rudimentale dialettica fra “noi”, i paesani e i montanari del suo stampo, e “loro”, i borghesi, quelli che nel 1915 inneggiavano alla patria e alle superiori ragioni del conflitto,s’insinua a un certo punto, e cioè alla vista di uno stormo d’aerei da combattimento subito paragonati da Tönle a dei volatili pasciuti,una lucida considerazione che potremmo definire, con facile gioco di parole, “terra terra”. Tönle aveva visto

quei grossi uccelli volare con rumore sopra l’Ass, era la prima volta, e allo stupore si accompagnava il dispetto: erano pur sempre marchingegni diabolici per fare la guerra e chissà quante lire costavano e quanta farina per polenta si sarebbe potuta comperare per sfamare la gente, o quante pecore. E se per loro c’erano i confini a che cosa servivano se con gli aeroplani potevano passarci sopra? E se non c’erano confini in aria perché dovevano esserci sulla terra? E in questo ‘per loro’ intendeva tutti quelli che i confini ritenevano cosa concreta o sacra; ma per lui e per quelli come lui , e non erano poi tanto pochi come potrebbe sembrare ma la maggioranza degli uomini, i confini non erano mai esistiti se non come guardie da pagare o gendarmi da evitare. Insomma se l’aria era libera doveva essere libera anche la terra..”

Non era molto distante il vecchio Tönle del 1915 da quell’anonimo anarchico italiano esule (o emigrato ,chi lo sa ?) in Inghilterra la cui frase lapidaria sui “confini inesistenti” ( “Per noi non ci sono frontiere”) , pronunciata durante un processo a suo carico tenutosi a Londra nel 1894, ha molto impressionato e affascinato in anni più vicini a noi Donna Gabaccia che spesso la cita e che avrebbe voluto usarla come titolo per gli atti di un convegno da lei stessa promosso e curato assieme a Fraser Ottanelli (15). I punti d’intersezione e di contatto fra transnazionalismo e internazionalismo proletario ,sino alla Grande Guerra e anche oltre, non dovettero essere pochi, ma resta il fatto che soprattutto i grandi eventi bellici del novecento, mettendo a dura prova lealtà politiche in formazione e fedeltà ideologiche rimaste a lungo “multiple” o fra loro compatibili sia in patria che all’estero,contribuirono a dare o a ridare ai confini di Stato quel senso e quel profilo più netto e stringente di elemento separatore che gli si attribuirà, in genere, nel corso del novecento dispiegato e al cui insorgere o risorgere accenna ancora Mario Rigoni Stern nel proprio racconto descrivendo prima la stasi e quindi il blocco definitivo, allo scoppio della guerra europea, delle libere girovaganze pastorili, del contrabbando e ,a maggior ragione, degli esodi periodici e temporanei di lavoratori e di alpigiani emuli dell’ormai vecchio Tönle:

“Per la prima volta, dal 1866,in quell’estate non si fece contrabbando tra le nostre montagne e la Valsugana, né gli emigranti presero la strada dei menadori ora che i tirolesi che una volta davano loro ospitalità nelle pause del viaggio, erano mobilitati nei battaglioni degli standschtzen che difendevano i confini. Era quindi impossibile passare dall’uno all’altro Stato perché i soldati e le pattuglie sparavano, e non erano certo come i finanzieri e i doganieri dai quali per una lira si poteva comperare il passaggio; per un niente ora c’era solo da morire. Anche a pascolare verso i confini era interdetto e per la prima volta da secoli una decina di malghe non vennero monticate

All’occhio sempre attento del protagonista (e del narratore) simili cambiamenti,così corposi e subìti di contraggenio dal popolo degli emigranti montanari,non potevano certo sfuggire così come non gli erano sfuggiti, a suo tempo, lo si è accennato,la gradualità e la progressione per stadi, spesso corrispondenti al passaggio di più confini europei, di quella sorta di “marcia di avvicinamento all’America” che aveva riconvertito molti flussi tradizionali sul finire dell’ottocento in forza del volgersi di molti emigranti continentali e “temporanei” alla drastica opzione in favore di un espatrio che preludeva e anzi traguardava al “ trapianto” definitivo al di là dell’oceano. Tale opzione contemplava un altro genere di superamento delle frontiere e, avvenendo fra Mediterraneo e Oceano Atlantico necessariamente in nave, ridislocava il momento del “transito” e dell’attraversamento dei confini per lo più nei porti di partenza (nonché di sosta e di arrivo) pur lasciando spazio ,talvolta, a sensazioni e a impressioni comuni sull’abbandono di un mondo vecchio per uno nuovo a lungo separati – più che non collegati – dallo speciale e smisurato tramite di onde e di acque e le cui suture potevano ben rifarsi , lo si è pure anticipato qui sopra, a miti e a riti in molti sensi “di passaggio”

3. Non è certo il caso di complicare un modesto quadro discorsivo come il nostro laddove si giunga a far parola anche dei viaggi per mare in rapporto ai confini perché molto è stato scritto in proposito o, meglio, soprattutto in tema di traversate (Franzina 2003). Esse, di tanto in tanto, potevano anche trasformarsi – sebbene non sia il caso di esagerare o di semplificare come talvolta succede (Stella 2004) – in vere e proprie odissee (Molinari 1988 e 2001,Piccin Corteze 2002) a lungo in effetti trascurate , queste, dagli storici. Ma la bibliografia per così dire “marittima” (Candela 1986,Friedland 1989,De Courten 1989, Doria 1990, Nugent 1992,Scartezzini et alii 1994, Franzina 1998 ecc.) come quella sui risvolti più propriamente relativi all’immaginario di emigranti e viaggiatori fra sette e novecento (Sollors 1990, Leed 1992 e 1996, Franzina 1992,Núñez Seixas 2002) non sembra al giorno d’oggi troppo carente (16). Sicché rinviando ad essa per le cornici di fondo sarà meglio continuare a concentrarsi , anche per ragioni di coerenza (non solo espositiva), su quelle fonti primarie – popolari o comunque private – che si sono volute privilegiare sin qui. Neanch’esse, si badi, sono esenti da limiti o prive qua e là di contraddizioni. Inoltre non difettano certo di modelli e di riscontri, di imitazioni e di riprese in campo romanzesco e lirico ovvero letterario e, soprattutto, paraletterario in un gioco fatto di reciproci e insistiti rimandi: basti pensare, per l’Italia, all’opera grande di un Edmondo De Amicis (Franzina 1996,30-39) e alla lunga serie dei suoi epigoni , comprensiva di autori in verità per lo più modesti (narratori, novellisti, romanzieri ecc. del tipo a cui riserva da anni molte cure e intelligenti attenzioni Sebastiano Martelli (17) ) , e pure di qualche originale cultore ed esperto di studi emigratori come la sociologa e pubblicista, anche altrimenti nota alle cronache culturali d’inizio novecento,Amy Allemand Bernardi (18). Tuttavia per completare o integrare un ragionamento ampiamente introdotto e avviato qui sopra riesce davvero preferibile rifarsi ai diari e alle testimonianze epistolari in presa diretta dei protagonisti così come, con appena qualche cautela in più, alle loro scritture autobiografiche e alle loro memorie. Nelle quali, in particolare, risalta però una prima differenziazione legata visibilmente ai diversi percorsi marini e alla durata media dei viaggi: di periodo in periodo, s’intende, anche se il tornante cronologico decisivo, in tale fattispecie, rimane sempre uno solo ed è rappresentato , passata la metà dell’ottocento, dalla sostituzione della vela col vapore. Ciò non toglie che anche più tardi rimanessero in funzione,sino alla fine del secolo XIX, delle forme di propulsione miste ossia alternate a ragion veduta dai capitani di vascelli e di clippers o che , fissandosi ben presto nei canti popolari , si desse per davvero l’eventualità, talvolta, di traversate lunghe trenta o quaranta “giorni di macchina a vapore” (19). Ma dopo quella d’ordine tecnologico ed economico per quanto concerne i trasporti,la distinzione principale, per ciò che qui più importa, sembra essere legata in realtà alle diverse rotte atlantiche. Gli emigranti diretti in USA e in Canada, quali che fossero i porti da cui salpavano le loro navi (e a maggior ragione se questi si affacciavano già sull’oceano come nella Francia settentrionale da Havre a Bordeaux o come in Gran Bretagna e in Germania), puntavano infatti alla propria meta con la ragionevole prospettiva di poterla raggiungere nel giro di dieci giorni o poco più perché la rotta nord atlantica per l’America “inglese” implicava un tragitto più breve e senza scali: unica eccezione quella dei casi in cui si fosse scelto di viaggiare su navi mercantili come il cargo che portò a Boston in 61 giorni il giovane molfettano Constantine M.Panunzio, l’autore di The Soul of an Immigrant (New York 1921) consentendogli di mettere piede sul suolo statunitense il 4 luglio del 1902! (una simile e beneaugurante coincidenza calendariale, va detto però,potrebbe essere dipesa dalla forzatura simbolica del racconto se torna anche altrove come nella “biografia di un padre” Tra due continenti fresca di stampe, ma redatta intorno al 1960, dove l’autore ritrae “Don Pasqualino dell’Irpinia”, l’emigrante di cui appunto egli è figlio, al suo arrivo a New York nel luglio del 1901 “un paio di giorni prima della festa dell’Indipendenza…estatico” davanti alla Statua della Libertà e dinanzi “alle, per lui incomprese espressioni di giubilo e di allegria popolo Americano” ( De Clementi 2004,51) ). Tolte poi le descrizioni assai comuni e frequenti delle burrasche e delle paure procurate dai rischi di naufragio o dalla vista di enormi squali e cetacei (come accade già nei resoconti epistolari precoci,anno domini 1843 e seguenti, dell’emigrante ladino Andrea Lezùo (Banfi 1996) ) che assieme alla scoperta iniziale delle “immensità marine”già segnano un punto di passaggio importante ovvero il superamento di un confine non tanto geografico e politico, quanto, soprattutto per i contadini migranti, psicologico e culturale, ciò che colpisce maggiormente nei resoconti anche più dettagliati e puntuali è l’attenzione riservata alle condizioni fatte in nave ai passeggeri di terza e alle loro divisioni sociali e di classe oppure campanilistico regionali che molto si fanno sentire anche a bordo (per le seconde e per i contrasti ricorrenti fra meridionali e settentrionali qualcosa si dirà più avanti , mentre per le prime,sfidando l’anacronismo,mi sentirei di sfruttare una immagine molto riuscita di Francesco De Gregori:“La prima classe costa mille lire, la seconda cento, la terza dolore e spavento/ puzza di sudore dal boccaporto e odore di mare morto…” vale a dire , per molti anni, carenze igieniche, sovraffollamento, separazione degli alloggi tra maschi da una parte e femmine con i bambini dall’altra,vitto e qualità del vitto a volte scadenti,nascite e morti notevoli ecc.) e il poco spazio riservato invece da loro – e da chi parla di loro – al viaggio e alle sue peculiarità in termini di “valicamento”. Un valicamento che in accordo con alcune visioni più radicate peraltro in culture diverse da quella italiana – dove l’emigrazione, tutt’al più, veniva equiparata alla diserzione e ,lugubremente, alla morte (Franzina 1996,59-61) – equivaleva metaforicamente a un “trapasso” rigeneratore, visto che c’era una linea colta e abbastanza antica che parlava a questo proposito di morti e di rinascite, di immersioni in un novello fiume Lete e di purificazioni battesimali per tutti coloro che si trovassero a dover attraversare l’Atlantico in traccia dell’America (20) ). Quel che conta per gli emigranti ,ad ogni modo, è sempre e solo la meta: l’America del Nord,insomma, i cui approdi,e specialmente quelli newyorkesi di Castle Garden prima e di Ellis Island poi, sono il vero banco di prova per l’emigrante all’arrivo, un arrivo che segna di fatto il raggiungimento dei confini “al nuovo mondo”. Visite e controlli, per quanto sbrigativi, scandiscono qui, nelle varie “isole della quarantina”, i tempi e i modi dell’ingresso in USA. Ma il viaggio in sé, ripetiamolo,non dà luogo, nella stragrande maggioranza dei casi, a riflessioni o a descrizioni troppo insistite . Dai primi esempi ottocenteschi – insigne a modo suo quello fornito da Adolfo Rossi su una traversata svoltasi pressoché in contemporanea ,nel 1879, con la traversata, certo più celebre,di Robert Louis Stevenson , Amateur emigrant , (Franzina 1992,21-23) – ai casi novecenteschi più e meno noti di Pascal D’Angelo, Pietro Greco,Carmine Biagio Iannace o degli stessi Antonio Margariti,Tommaso Bordonaro , Antonio De Piero,Giacomo Fabian ecc. , pur nella ovvia diversificazione dei toni e benché non ne manchino qua e là riscontri simili anche per le rotte del Sud Atlantico di cui diremo fra poco, quello che si ripete invariato è uno schema narrativo piuttosto telegrafico. La stringatissima sintesi di Samuele Turri scovata anni fa da Paolo Cresci potrebbe ben fornirne il modello: “il 3 febbraio 1912 partito con 5 amici dei miei contorni…io Samuele Turri dalle Havre frencia con piroscafo la Provence. Forse rammenterete fu vittima di guerra il nostro viaggio in mare 7 giorni e 7 notti. Solo 2 giorni è notte di tempesta. Chi non avuto esperienza come io credevo di non rivare alle terra dei $ dollari…” (Cresci Guidobaldi 1980,25-27). Anche i componimenti “poetici” di alcuni emigranti come il contadino lucchese Antonio Andreoni o le strofe commissionate a certi versificatori popolari, per altro “competenti” come Giovanni Flumiani, ce ne danno conferma. Delle oltre trecento ottave distribuite in quattro cantiche messe assieme con sagacia toscana dall’Andreoni , ad esempio, sono solo tre quelle che toccano o,meglio, che sfiorano l’argomento dei “confini al porto” :

Io ne ringrazio il ciel di tutto cuore

che ormai quela burrasca era passata

Credo fosse virtù del Creatore

e della madre sua immacolata

che avea calmato l’impeto e il furore

e la calma del mar ci ha ridonata;

sicché noi tutti con gioia e conforto

di Nuova York ben si giunse al porto

Porto, sarai da me sempre chiamato

di gaudio di conforto e di allegrezza,

che ormai è giunto il giorno desìato,

che posto ha i naviganti in sicurezza.

E quando il bastimento fu ancorato,

dier di piglio a scalare con prestezza

tutti i bagagli e io ne andai a dormire

e mi svegliai del giorno all’apparire

Verso le sette ci fanno scalare

E tutti là in dogana ce ne andammo,

che la rivista ci convien passare

delle valigie come a tutti fanno.

Su lo stimbotto poi ci fan montare:

oh, allora sì che mi venne l’affanno!

Si naviga e si arriva al territorio

Di Castel Garde, all’interrogatorio (21)

Ancora solo un paio su oltre cento terzine stese in friulano accennano alla questione dei controlli e delle visite mediche ne La Traversade ossia nel poemetto che descrive il viaggio di un gruppo di emigranti da Tiveriacco di Maiano (Udine) a Le Havre e quindi a New York ai primi del novecento. In esso,Giovanni Flumiani da Villanova di S.Daniele nel Friuli,umile scrivano/compositore ed emigrante a sua volta,mette in versi nel 1913 il manoscritto della vicenda consegnatogli qualche anno prima da alcuni dei suoi protagonisti:

Ecco l’ore che sune: la int a si disbarchie nessun a pass di marcie lè bon di chiaminà

Ma chi dovìn spetà dute la confusion sieräs in t’un salòn pe visite dal Miedi (22)

4. Aspetti di natura diversa del problema dell’attraversamento si scorgono, per dir così, sullo sfondo delle migrazioni transoceaniche allorché le rotte dell’Atlantico meridionale battute dalle navi che hanno per destino i porti dell’America del Sud o anche,più in là, dell’Australia, impongono varie fermate tra il Mediterraneo e i remoti punti di approdo. Ad essi, in materia di soste “sui confini”e, appunto, di attraversamenti, si aggiunge infine un “passaggio” celebre , e assai celebrato folklore marinaro europeo (23),come quello dell’Equatore,lo stesso che un emigrante di fine secolo XIX registrava sobriamente a suo modo notificando ai parenti rimasti in Friuli: “all’ultimo dell’anno – 1878 – abbiamo strapassato la linea il locatore” (Franzina 1979,89-94). Più che non la brevità tacitiana della sgrammaticata informazione vale la pena di osservare come il superamento della “metà del mondo”, anche qui dunque un “limite” o un confine da passare , trovi posto nella lettera di un mittente incolto o “semicolto” dalla relativa competenza linguistica,ma avvezzo all’uso dell’”italiano popolare” e, saltuariamente, alle pratiche della scrittura. Con la complicità dei molti scali resi inevitabili dalle necessità di rifornimento (acqua e carbone di norma), ma anche, sulle navi italiane e francesi, di ulteriori imbarchi d’emigranti d’altre nazionalità (il che avveniva per lo più a Barcellona e lungo le coste spagnole), i viaggi per mare di chi si dirigeva al Brasile e all’Argentina o anche ai paesi andini del Pacifico e all’Australia (con più frequenza per questa meta nel secondo novecento, ma anche allora con riscontri invariati sin quasi all’ultimo sullo scadere cioè della decade 1960 (24) ) sembra che avessero la forza,un po’ per la loro maggior durata e un po’a causa di questo avvicinamento alla “Merica” realizzato in “stadi” successivi, di stimolare la fantasia, ma anche lo spirito di osservazione e la voglia di prendere appunti degli emigranti. Quelli di loro che lo facevano in forma o in funzione diaristica ed epistolare al pari di coloro che più tardi lo avrebbero fatto sul filo del ricordo e quindi in veste di memorialisti e di autobiografi non di rado concordano e convergono nel sottolineare sempre o quasi sempre , e ciascuno a proprio modo,gli scali principali,intesi però come tappe,appunto,di un passaggio progressivo attraverso più confini verso il destino che li attende al nuovo mondo. Le prime annotazioni di questo tipo,per la verità, riguardano un po’ dappertutto, e quindi anche fra i migranti diretti in America del Nord, le città e i porti d’imbarco tra cui spicca sempre Genova. Tuttavia , accantonando la questione ,per quanto interessante e non destinata ad esaurirsi a Genova, dell’occasionale vocazione al “turismo” dei migranti (che per manifestarsi non sempre attende età vicine a noi e che non è del tutto fuori dall’orizzionte mentale dei contadini di fine ottocento), occorre ribadire come sia ,sin dalle sue prime battute,l’”avanzamento” della traversata a suggerire gli appunti in sequenza sui diversi “altrove” sfiorati navigando. L’anonimo emigrante veneto (25) che comunica a casa le sue impressioni di viaggio e che scrive ormai da Pinheiro,la lontana località paulista di destinazione , il 25 novembre 1891, ci tiene a precisare: ”Carissima Moglie…In questo foglio ti do la biografia del viaggio da Genova a Rio de Janeiro” e prosegue quindi per pagine e pagine su tale falsariga “giunto a Marsiglia a ore 12 pomeridiane,visitato passeggiando Marsiglia vidi una città stupenda ed un porto di mare per venti volte più grande di quello di Genova e poi l’ho detto anche in cartolina. Marsiglia lasciata il 29 a ore 5 pom., giunto a Barcellona il 31 , bella città pur questa che costeggia il mare…partito da Barcellona il 31 a ore 7 di sera giunto a Malaga il 2 di novembre a ore 10 di mattina; in barca mi portai in città e trovai una cittadella rassomigliante a Padova però a piè del monte e costeggia il mare che fa parte dell’effetto, l’uva malaga sublime da noi mai sentito l’odore…..”

La scelta di narrare nelle prime lettere spedite ai parenti dall’America meridionale, o nel loro corpo o in una serie di fogli allegati,tutte le fasi della traversata è abbastanza comune (26) e si traduce spesso in“cronache” o in “diari” intitolati così anche dai loro estensori i quali danno prova di sensibilità e, non di rado, di acume descrittivo nei riguardi delle “stranierità” incontrate senza intrattenersi più di tanto sulle peculiarità “politiche” dei luoghi fatti oggetto di racconto. Di Gibilterra, ad esempio, in bilico fra Spagna e Africa, non si segnala quasi mai l’appartenenza ai domini del Regno Unito, quantunque non sfugga la sua configurazione militare.

“Gibilterra – scrive l’anonimo citato – pur essa a piè del monte costeggiata e circondata da forti è magnifica posizione difficilissima da prendere da qualunque siasi forte nemico, la sua posizione pittoresca è incantevole e desta la meraviglia di qualunque che abbia un po’ di gusto…”.

Gioele e Dina Gordi, i due coniugi bresciani che in anni considerati da molti il terminus ad quem della grande epopea transatlantica migratoria europea (27), mandano notizie di sé il 14 novembre 1933 appena arrivati a Oliva (Córdoba) in Argentina, si rivolgono grati e riconoscenti per lettera a una parente che aveva loro pagato il viaggio e gliene forniscono in allegato, sotto forma di “Diario”,un resoconto minuzioso di quattro pagine:

“Giorno 6/10 – Ieri sera abbiamo passato lo Stretto di Gibilterra, abbiamo goduto una vista magnifica, tutta la costa illuminata, faceva un effetto bellissimo, ma siamo state di nuovo prese dal mal di mare…Giorno 18/10 – Questa notte alle 2 siamo giunti a Las Palmas e siamo ripartiti alle 10; ora per 10 giorni non vediamo che cieloe mare. Las Palmas è un posto molto pittoresco, le case non sono come da noi coi tetti ma al loro posto anno le terrazze; i monti, le colline non sono verdeggianti, ma sembrano tanti ammassi di sabbia. Gli abitanti sono quasi tutti neri o meticci. Bisognava vederli,sembrano tanti gatti; con le loro imbarcazioni vengono sotto il piroscafo a vendere merci le più svariate; frutta, uccelli, cagnolini, tovaglie, centri, tappeti ricamati così bene, e poi collane,portasigarette ecc. Ecco facevano proprio compassione a vederli contrattare loro in basso e la gente su in alto… In fine c’erano dei ragazzi dai 10 ai 15 anni, appena con le mutandine da bagno che si facevano gettar giù i soldi , ma non glieli gettavano nella barca, ma bensì nell’acqua e loro si tuffavano sott’acqua e vi rimanevano per un bel po’ finché avevano afferrato la moneta, poi ritornavano nelle loro barche facendo vedere la moneta trovata…”

Anche Giuseppe Nicolè , che dalle Nove di Bassano si reca per lavoro in Perù nel 1907 redige una “Cronaca” abbastanza conforme in coda alla missiva con cui ragguaglia i parenti sull’andamento delle proprie cose in America. L’accenno che egli fa di sfuggita alle “pratiche” richieste per poter far sosta alle Canarie e per consentire la salita a bordo di alcuni venditori locali, è l’unico segno, indiretto per giunta, dei risvolti burocratici previsti o imposti da uno scalo del piroscafo italiano in terra straniera. Ma l’interesse del mittente, come al solito, è rivolto altrove ossia alle caratteristiche antropiche, paesaggistiche e ambientali dell’isola al cui porto si è attraccato ed in cui ci si ferma soltanto per poche ore:

“Finalmente veniva la sera da noi tanto desiderata…alle 2 e1/2 si sentì l’urlo del Piroscafo che ci annunciava il prossimo arrivo a Santa Cruz di Tenerife. Appena chiaro ci siamo alzati per vedere questa isola detta delle Canarie. Terminate le pratiche incominciarono a entrare i Mulati venditori ambulanti di Chitare,sigarette, abiti ricamati per signora, canarini e altre cose. Tenerife è una cittadella fabbricata in antichi tempi; e la sua miglior industria è il raccoglimento del carbone perduto caricandolo nei altri vapori che si riforniscono…” (28)

Simili descrizioni di “parte popolare”, realizzate di persona da emigranti che erano qualcosa di più che non semplici “testimoni oculari” e assai meno infrequenti o difficili da reperire di quanto non si pensasse in passato fra gli storici, meriterebbero di essere messe a confronto con i modelli e con le vulgate di stampo giornalistico e letterario sul viaggio per mare a cui talora qualcuna di esse magari si rifà dando l’impressione di averne subito, come che sia, l’influenza . Paradigmatica in materia per il caso italiano, sul versante più propriamente romanzesco,è senz’altro, a vantaggio di una folta schiera di emuli e di epigoni come già s’è detto, la versione o la “lezione” offerta dal ricordato Edmondo De Amicis il quale forte dell’esperienza (anche lui da “testimone oculare”) fatta su un vascello transatlantico, il “Nord America”, salpato nel 1884 da Genova per l’Argentina – dove lo scrittore era stato invitato e dove si sarebbe fermato qualche mese – realizzò e pubblicò, cinque anni più tardi, quel capolavoro riconosciuto che è Sull’Oceano. (29) Un capolavoro in cui si alternano tuttavia, come facilmente si evince dai possibili paragoni non con altri romanzi, bensì con le fonti popolari scritte, momenti e intuizioni di assoluta attendibilità a interpretazioni e a letture altamente opinabili e dettate quasi tutte dall’estrazione e ancor più dal ruolo “pedagogico” scelto per sé dallo scrittore,uno che su patria e nazione, su sovranità e confini aveva, come si sa, idee sufficientemente chiare. Benché passate al vaglio della conoscenza di prima mano fatta in giorni e giorni di navigazione con una onesta osservazione partecipante che si dipartiva peraltro dal ponte di prima, altre idee od opinioni di De Amicis, ad esempio sul brulicante coacervo regionale di contadini agglomerati a bordo,appaiono oggi, a dir poco, preconcette se non anche prevenute. La sfiducia di fondo nei riguardi della massa degli emigranti rurali istintivamente percepita come ingenua e incapace di valutazioni proprie (nei confronti dell’immensità del mare,del suo fascino e delle sue bellezze o nei riguardi delle località costiere intraviste così da distante come da vicino ed equiparate a mondi terribili e misteriosi ecc.) ,deriva da un lato dalla concezione deamicisiana del popolo inteso come infante o bambino bisognoso di essere dirozzato e meritevole di essere tutt’al più compreso (e compatito), anche se da un altro non inficia poi l’acutezza e la credibilità di molti rilievi compiuti dall’autore in veste di cronista. Illuminanti, a tale proposito, appaiono le considerazioni e le osservazioni che De Amicis consegna alle pagine di un capitolo sul “passaggio dell’Equatore” a cui ,se ve ne fosse lo spazio, sarebbe giusto riservare maggiore attenzione sia per come si aprono e sia, soprattutto, per come si concludono. Ma basti, ai nostri fini, parlando di confini, tenerci all’incipit che, lo si vedrà, ricorda subito una citazione testuale tratta da una “lettera contadina” del 1878

“Il giorno dopo, fin dalla mattina presto, non si parlava d’altro a prua che della novità del bambino e del passaggio dell’equatore: dell’aquatore, dell’iquatore, del quatore, di lu quatuore, poiché storpiavano la parola in cento modi…”

5. Grazie all’avvincente racconto dell’allegria diffusasi un po’ in tutte le classi per l’imminente festeggiamento di cui si vociferava tra gli emigranti da un paio di giorni, sono numerosi anche in Sull’Oceano gli spunti realistici di sicura “autenticità” a cominciare da quelli con cui De Amicis registra l’eccitazione della “ragazzaglia” in impaziente attesa dei fuochi d’artificio promessi dal capitano e la “premeditazione d’una ubriacatura serale” da parte di una folla, specie maschile, che “s’era come indomenicata”:

“Non importa – si potrebbe ripetere con l’autore – il passaggio dell’equatore era una festa per tutti, specialmente per la distribuzione straordinaria ch’era stata annunziata, di tre litri di vino per rancio; ed anche perché, avendo il comandante dato l’ordine di aprire la stiva e di lasciar pigliare i bagagli, era per molti una vera gioia di potersi rifornire di roba e rimestare un poco i propri cenci….”

La gioia per un briciolo di autonomia riacquistata e l’aspettativa di un rancio migliore, anche perché arricchito dal vino, si sposano ben presto con la soddisfazione procurata dalla ripresa, a bordo, di un tipico rituale carnevalesco senza che se ne possano tuttavia percepire, com’è d’uso, le valenze in ultima analisi tanto propiziatorie quanto consolatorie. Se dalla narrazione di De Amicis si passa infatti a quelle stese di proprio pugno dagli emigranti, la sostanza di molto non cambia sebbene l’interpretazione, non di rado, diverga. La dinamica della messa in scena pressoché teatrale con tritoni e nettuni imbellettati e fatti “interpretare” quasi sempre agli emigranti, gli scherzi e i giochi d’acqua, le “confessioni” estorte ai passeggeri sospettati di trasgressività (specie sessuali) con l’imposizione di penitenze giocose scandiscono e suggellano in effetti il passaggio “della linea” che segna il confine con un nuovo mondo in cui anche le stelle e l’assetto del cielo sono diversi.

Ma si tratta ,come s’è già detto, di cosa che si ripete più o meno invariata da secoli: John Nicol, il marinaio scozzese la cui storia di vita raccolta e pubblicata in Inghilterra negli anni trenta dell’ottocento discorre a un certo punto, per la fine del settecento, della più bella festa da lui veduta in occasione del passaggio dell’Equatore, dopo avervi appena accennato commenta quasi scusandosi:”non descriverò la cerimonia per non stancare il lettore, dato che è stata spesso descritta da altri.” (30) ).

Noi sappiamo che il rito marinaro durò in vita sui bastimenti degli emigranti sin che questi solcarono l’Atlantico o il Pacifico con il loro carico umano e che esso,anzi, tuttora sopravvive, qua e là, ma con ben altre motivazioni ,sulle navi da crociera e per diporto dei giorni nostri: Franco Luperi, emigrante nel 1959 e autore di un testo autobiografico, L’avventura brasiliana, pubblicato ch’è poco (Luperi 2004,81) riproduce anche il “diploma” consegnatogli dopo la cerimonia in cui egli aveva impersonato la parte del “delfino” di vedetta a bordo di un transatlantico francese: “Nous, Neptune fils de saturne, Frère de Jupiter et de Pluton, Roi de la Ligne,Prince des Zones Équatoriales….”.non dissimile da quello rilasciato qualche anno prima a Carmelo Caruso l’autobiografo siciliano partito per l’Australia nel 1950 e autore di un’altra minuta descrizione del passaggio equatoriale appena lasciata Ceylon nelle acque dell’Oceano Indiano: “Noi Sua Maestà Augusta, re dei sette mari e dio delle sfere, la nostra amata regina e la nostra corte siamo venuti qui dal nostro palazzo nel profondo dei mari per visitare la vostra buona nave e darvi il nostro regale benvenuto…” (Caruso 1998,126).

Benché le traversate che immettono nell’emisfero australe contemplino quasi sempre l’osservanza del rito, la sua percezione da parte degli astanti è spesso oscillante nel corso del tempo.Vincenzo Raponi un emigrante ciociaro dell’ultima leva, la stessa più o meno di Luperi e Caruso, nelle sue memorie Dall’Italia al Canada passando per il Brasile si limita ad annotare in modo scabro che “a metà viaggio l’equipaggio fa una grande festa con tanti giochi. Io vinsi quello della corsa nel sacco: 5 bottiglie di birra: eravamo in cammino da nove giorni e sembravano già nove mesi.” (Raponi 1988,121); mentre Antonio del Bove, diretto in Australia nel 1961, annota anche lui sinteticamente con una chiusa di velata malinconia:

“Oggi con il passaggio della nave Roma all’equatore, si è fatta una festa, quella cioè del dio dei flutti, Nettuno e la regina Eufrita, con la corte uniti sul ponte lido, gremito di passeggeri. Si è trattato di comandare un gruppo di passeggeri che secondo la corte avevano da scontare una pena. Tutti sono stati consenzienti a pagare la pena, ed è stata veramente una mezz’ora di baldoria e di allegria sopra questa nave dove si sorride assai poco.” (Dal Bove 1991,100-101)

Dopo oltre trent’anni d’ininterrotto susseguirsi delle nostre ondate emigratorie verso l’America Latina, era stato del resto Bernardino Frescura ,un geografo di professione del gruppo di coloro che riconoscevano in De Amicis il proprio maestro e in Sull’Oceano l’archetipo dei tentativi da essi fatti per eguagliarlo (31), ad osservare come agli albori ormai del novecento ci si trovasse di fronte a un declino forse irreversibile della celebre usanza:

“Le solite feste – scrive nel 1908 in Sull’oceano con gli emigranti (Impressioni e ricordi) (Frescura 2000,70-71) – in tutte le classi ricordano il passaggio della linea. In quel giorno anche gli emigranti sono a tavola, e si godono tranquillamente il loro pranzo, arricchito d’un piatto di più e innaffiato da un buon bicchiere di vino. Ma ormai i viaggi sono divenuti rapidi e frequenti; l’emigrazione si è trasformata in temporanea, e perciò rimangono addirittura un lontano ricordo le strane cerimonie degli antichi naviganti universalmente conosciute. Il sciampagna non si spreca più a battezzare i passeggeri, che per la prima volta passano da un emisfero a un altro, ma si beve, e come se si beve! E certo passerebbe un brutto quarto d’ora chi – camuffato da Nettuno – si disponesse a gettare un secchio d’acqua sulla testa di qualche emigrante. Storie vecchie e divertimenti rancidi!”.

Più o meno nello stesso torno di tempo e a convalida dell’annotazione, che noi sappiamo “provvisoria”, di un letterato come Frescura, il popolano Giuseppe Nicolè, già citato qui sopra,così riferisce nella sua “Cronaca”:

“Ora per non rendermi troppo noioso unirò il periodo di 9 giorni cioè della traversa dell’Oceano Atlantico, che consiste dal 17mo al 25mo giorno. In questo periodo di giorni facemmo la traversata del Grande Oceano Atlantico il quale si presentò a noi più buono di quanto si sperava, perché avemmo un mare calmissimo che ci turbò solo vicino a Trinidad. In questi giorni non ci fu nulla d’importante altro che una festiciuola da ballo che si fece nel giorno 19 per festeggiare la metà dell’Oceano. Ed anche noi fummo invitati facendo da cavaglieri alle Signore, e più che tutto al mangiare e al bere …”

Può darsi che al debutto dell’emigrazione di massa e sino alla svolta di fine secolo XIX i rituali di cui stiamo parlando fossero stati in effetti più seguiti e sentiti o che al mutare delle condizioni di viaggio (velocizzato questo e migliorate di gran lunga quelle), le cerimonie a bordo subissero un ridimensionamento e più d’una (provvisoria) battuta d’arresto. Ma il senso attribuito dai naviganti e accolto dagli emigranti di celebrazione d’un passaggio non di confini politici,bensì di status (diventare d’un tratto da paesani europei , “americani”), ciononostante si conservò e spesso anzi finì per consolidarsi. Esso, certamente, era meglio attestato nelle testimonianze italiane più precoci ossia quelle ottocentesche, ma non aveva mancato, anzi, di fare la propria comparsa già prima ed altrove, ad esempio nelle traversate degli emigranti nordeuropei dagli anni quaranta del secolo XIX sino almeno allo scoppio della Grande Guerra..

In quella che per convenzione gli storici considerano se non la prima, senza dubbio una delle prime “spedizioni” di contadini padani al Brasile,iniziata nel dicembre del 1875 sull’”Anna Pizzorno”, nelle parole del postumo cronista ed autobiografo Enrico Secchi, un maestro elementare concordiese loro conterraneo,gli emigranti vengono paternalisticamente ritratti alla De Amicis come tutti storditi e infantilmente presi da un evento della cui eccezionalità avevano appreso appena qualcosa dai marinai:

“Già si stava parlando del passaggio della Linea, cioè dell’Equatore, e i membri dell’equipaggio stavano studiando la cerimonia da farsi in quella occasione. Si diceva che si doveva fare il gran salto…dall’emisfero Nord a quello Sud e che bisognava armarsi di grande coraggio…E poi che bisognava ricevere un nuovo battesimo e che sarebbe comparso, in quell’occasione, Nettuno, re del Mare, per assistere a quella cerimonia…Sparse queste notizie tra gli emigranti, molti di questi vennero a consultarmi a rispetto molto sorpresi di quanto si vociferava: ‘E lei ci crede a queste notizie…Ed il gran salto? aggiunsero….Salteremo come hanno fatto gli altri . Intanto preparatevi. Faremo una bella mascherata e come in quel giorno avrete una doppia razione di vino, starete allegri e così faremo il gran salto senza che ce ne accorgeremo.’ Dice uno: ‘Al diz ben siòr,a farem acsì’”.

Venuto il momento, il primo a far le spese degli scherzi è un bracciante mantovano, Ferdinando Miglioli, precipitato dal Nettuno di turno in una botte piena d’acqua marina:

“Ed il gran salto? Erano le sette pomeridiane ed il Comandante informò che la Linea era stata oltrepassata durante la cerimonia del battesimo. Gli emigranti informati del fatto si misero a cantare allegramente ‘La violetta la va la va’ e ‘La marianna la va in campagna’ ecc. ecc. Indi ballarono fino alle nove di sera tutti soddisfatti e si ritirarono nei loro dormitori ,considerandosi ormai americani.” (32)

A bordo delle navi tedesche, se stiamo a ciò che ne riferisce nel suo bel diario Il mio viaggio a Lima Giovanni Soldi, un enologo monferrino partito nel 1897 per il Perù con un clipper germanico, il passaggio era festeggiato con grande impegno ancora a fine secolo e infatti viene narrato qui con dovizia di particolari sotto la data del 20 ottobre 1897 dove, a mo’ di conclusione, l’autore osserva inoltre come il “costume antico…del battesimo Equatoriale si ancora a bordo dei vapori inglesi e tedeschi per noi si è perso l’uso e non si fa più che a bordo delle navi da guerra fra marinai Ufficiali e Comandante.” Il “costume” in questione avrebbe dato luogo ,sui “grossi postali germanici” a una vera e propria “festa di carnevale” con una squadra fissa “di 10 o 12 suonatori i quali concerto” per tutta la durata del “battesimo” (Croci e Bonfiglio 2002,187). Che l’uso non fosse in via di estinzione in modo irreversibile nemmeno in Italia s’è già veduto,ma merita d’essere sottolineata forse un’altra circostanza e cioè che in determinati momenti come ad esempio negli anni fra le due guerre quando spesso l’emigrazione economica “da lavoro” si confuse con quella politica di un antifascismo popolare oggi stolidamente sottovalutato e messo addirittura in dubbio, l’attraversamento di quel confine ideale e non solo geografico che si fissava per convenzione antica all’Equatore poteva essere interpretato in maniera del tutto difforme dagli emigranti a seconda delle fedi ideologiche di cui erano portatori e che si portavano appresso anche andando in America. Durante una traversata del 1927 , racconta Pasquale/Pascual De Simone, futuro medico in Argentina e autore di una complessa autobiografia, Del arado al Bisturì, che di recente Camilla Cattarulla ha provveduto a riesumare e in parte ad antologizzare, ma che citerò qui dall’originale da lei stessa cortesemente trasmessomi alcuni anni fa (De Simone 1955,125-127), avvicinandosi la nave all’Equatore successe un fatto del tutto imprevisto. La festa era già iniziata in prima e in seconda classe dove in via eccezionale erano state ammesse a partecipare , della terza, soltanto le donne,certo “per aumentare il divertimento”. Nei dormitori degli emigranti, invece, i maschi potevano udire, eseguiti da cento voci allegre,canzoni e motivi del regime allora dominante in Italia sinché, punti sul vivo, alcuni passeggeri di terza non decisero di reagire cominciando a intonare dal canto loro gli inni proletari del socialismo e la Marsigliese. L’effetto sulla nave fu esplosivo e innescò una gigantesca rissa trasformando il ponte di coperta degli emigranti ‘en un verdadero ring’: “Esto – continua De Simone – dió lugar a que la fiesta se suspendiera, pues la oficialidad se vió obligada a intervenir para restablecer el orden.” Dato il livello di sovreccitazione delle due fazioni, una evidentemente filo e l’altra anti fascista, l’intervento delle autorità di bordo era inevitabile. Seguirono alcuni arresti, ma la “nota mas desagradable” provenne in realtà da un gruppo di emigranti i quali, urlando e schiamazzando , avrebbero preteso dal capitano che fossero castigati severamente ed anzi che fossero fatti sbarcare (dove esattamente non si comprende) quanti si erano azzardati a cantare quegli inni proibiti. A questo punto De Simone riproduce a memoria ( e senz’altro inventando qualcosa, compreso forse l’esito irenico di tutta la vicenda) il discorso imbastito all’indomani dal comandante della nave che , liberati dal carcere i detenuti e radunati i passeggeri, li arringò con un sermone di cui sono significativi i passi iniziali e finali resi così nella traduzione della Cattarulla:

“Signori passeggeri, ciò che è successo fra connazionali che attraversano questo grande oceano in cerca di fortuna e di una vita migliore è molto lamentabile. Siamo tutti italiani. Alcuni la pensano in un modo, altri la pensano in maniera diversa, però tutti ci dobbiamo un reciproco rispetto..Avendo attraversato l’Equatore, ci troviamo già dall’altra parte della terra e noi, quelli del Vecchio Mondo, ci stiamo avvicinando al Nuovo. Da adesso in avanti tutti i passeggeri hanno la stessa libertà e lo stesso diritto di cantare, ridere e godere di questa magnifica traversata.” (Cattarulla 2003,119)

L’idea di essere tutti italiani, specie in viaggio “varcando i confini” e più tardi all’estero, con l’accoglimento di una prospettiva rasserenante e interclassista, non sempre poteva però far breccia nella mente degli emigranti anche ove non fossero, come questi della citazione, fortemente motivati proprio perché in partenza politicizzati. Prima che la Grande Guerra e l’ascesa al potere del fascismo avessero contribuito a instaurare in Italia un clima serpeggiante di guerra civile radicalizzando le ragioni di un confronto destinato sempre di più a trasformarsi in scontro, non erano mancati, sui treni e sulle navi che conducevano lontano da casa lavoratori d’ogni provenienza regionale, i motivi di riflessione e gli interrogativi sui diversi destini di chi poteva sembrare accomunato dal fatto di varcare le frontiere. Naturalmente è più facile andare in caccia di esempi adeguati nella pubblicistica e nella memorialistica politicamente anch’esse ispirate dei militanti o dei simpatizzanti socialisti fra otto e novecento,ma non è che ne manchino del tutto nemmeno altrove. Diego Morandi, un emigrante cremonese di Torricella del Pizzo socialisteggiante, ma nutrito di caldi sentimenti patriottici ,dopo aver abbandonato la carriera militare e aver trascorso l’anno seguito al congedo pensando solo all’America, si trasferì in Brasile nel 1911, vi fece un po’ di fortuna, si sposò (con una cugina) e mise al mondo due figli consolidando man mano la propria posizione d’immigrato di (modesto) successo. Nel maggio del 1916 , tuttavia, entrò a far parte del gruppo non folto quantunque significativo di quelli che tornarono dall’estero in Italia per arruolarsi volontariamente e per andare a combattere sul Carso. Il fatto che poi se ne pentisse, abbastanza scontato in realtà (Franzina 2001,117-118), non va collegato con particolari inclinazioni sovversive (di destra o di sinistra) frattanto maturate, ma semmai con una visione del mondo e delle cose che pur inframmezzata dal ricordato suo patriottismo originario aveva già avuto modo di emergere durante la traversata fatta emigrando in Brasile. Giunti in vista della baia di Rio de Janeiro, sulla nave che lo portava al nuovo destino, come in quella del De Simone, scoppiò improvvisa e inaspettata una zuffa descrivendo la quale nelle sue memorie (Morandi 1991,79-80), l’emigrante cremonese mette quasi in scena la rappresentazione mista di una discreta varietà di confini, che superati quelli geografici e simbolici del mare Oceano, continuavano a far sentire i propri effetti ormai al nuovo mondo:

“Zitti, si odono delle grida! E’ un milanese nella stiva che fa a cazzotti con uno spagnolo, i contendenti da 2 diventano 10-50-100 i marinai arrivano colle pompe potenti, la lite internazionale è sedata. S’improvvisa un concerto di 5 minuti ed intonano l’Inno di Garibaldi, cento voci accompagnano, l’allegria è generale. Questo c’infonde maggior spirito, riunisco una trentina di ex militari, armati di bastoni, scope ed ombrelli; s’improvvisa una bandiera con scialli di donne meridionali, la musica suona la Marcia Reale noi presentiamo le armi al sacro vessillo fra gli applausi di tutti gli astanti. Francesi, spagnoli, svizzeri, austriaci, guardano con un viso da meravigliati! Oh bella! La cosa viene saputa nelle classi di lusso ed il capitano ci fa chiamare perché desidera che ripetiamo la cerimonia. Qualche altro s’unisce al gruppo,i musicanti diventano 10 siamo in 49 e ci portiamo in un sontuoso salone. Maledizione! Anche in mare il ricco ha trovato il mezzo di rendere meno disagiata la vita. Tappezzerie di velluto, poltrone imbottite, specchi dorati, basta avrei voluto vendicarmi privandoli della vista della nostra cerimonia, ma poi il sentimento di italianità mi vinse e fra un silenzio degno, ripetemmo il patriottico saluto.”

L’accenno alla bandiera nazionale improvvisata intrecciando gli scialli “di donne meridionali” rimanda a un altro confine, “fra italiani” e infraetnico stavolta ossia riferito alle divisioni perduranti anche a bordo tra emigranti del nord ed emigranti del sud di cui v’è traccia pure in Morandi (cit. 64: “…una vecchia volpe di marinaio più assetato di mance che di vino si offre per insegnarmi un buon posto; figuriamoci è un Napoletano!”). Non che sul piano degli incidenti mancassero mai risse, litigi e incomprensioni del tutto indipendenti dall’origine regionale dei passeggeri (“ a prua – annota Cesare Malavasi l’autore de L’Odissea del Piroscafo Remo (Malavasi 1894,17) – sorse di nuovo una forte questione di meridionali con meridionali”), tuttavia è un fatto abbastanza ricorrente quello delle contese o delle reciproche diffidenze che non impiegavano molto a convertirsi in esternazione di sentimenti razzisti soprattutto da parte degli emigranti del nord. Maggior comprensione e tolleranza sembrerebbero riscontrabili presso i loro colleghi del sud i quali non di rado, come ricorda Carmine Biagio Iannace (Iannace,126-127), riuscivano a comprendere le ragioni e a compatire le sorti di altri compagni di avventura più mediterranei e “meridionali” di loro come i greci giunti a Napoli su barche di fortuna per potersi imbarcare di lì alla volta dell’America): “Ora che si sono imbarcati i napoletani – scrivono viceversa senza tentennamento i citati coniugi Gordi – i pranzi si fanno in due gruppi, i napoletani sono del primo gruppo, noi gente civile siamo del secondo” .

6. Assieme alle frontiere geografiche e politico statuali, come più volte si è avuto modo di accennare, esistono dunque e intervengono spesso ,nei viaggi di terra e di mare, anche altre linee di demarcazione spesso più volatili e precarie. Esse rimandano ad esempio alle strutture sociali e comunitarie per cui in generale la paura di una violazione dei confini che le delimitano (confini etnici, ma anche , in età contemporanea, politico ideologici) esprime ad un tempo la preoccupazione di un gruppo per la propria sopravvivenza o per la tenuta, più sovente, della propria identità. Delimitare e caricare di valenze simboliche i confini, indicando similitudini e differenze e segnalando i rischi di una loro dissoluzione o di un loro superamento, da un punto di vista antropologico culturale (Douglas 1970,Cohen 1985), rappresenta il modo corrente per autoriconoscersi ben al di là di quanto prescrivano o reclamino,nella logica dello Stato nazione, i detentori del potere costituito e i depositari della sua retorica ufficiosa e ufficiale (intellettuali, giuristi, pubblicisti, letterati ecc.). Nel “varcare i confini”, per scelta individuale o per soddisfare bisogni essenziali in cerca di stabilità economica e di lavoro, gli emigranti di estrazione popolare, incuranti delle frontiere di Stato, operano comunque, rendendosene conto, un attraversamento multiplo di barriere etniche, geografiche e persino, come suggerisce con chiarezza la casistica dei battesimi mimati e da loro fatti propri sui bastimenti in navigazione australe, esistenziali. Se tale attraversamento è necessario per fondare una nuova interazione fra differenti universi mentali, ma anche e soprattutto concreti, a maggior ragione quello che esso innesca è un meccanismo di tipo comunicativo (Barth 1969) destinato virtuosamente a mettere in relazione e in contatto fra loro mondi diversi, ma non sempre capace di risolvere tanti problemi e tante contraddizioni preesistenti d’ordine infraetnico, sociale e di classe. Di qui la persistenza fra gli emigranti , sia in navigazione e sia dopo il loro arrivo nei paesi di più e meno liberale accoglienza, di idiosincrasie e di divisioni che non devono essere, sia detto in conclusione, dimenticate o sottaciute e che non possono essere nemmeno risolte nè fatte decantare da appelli volonterosi sul tipo di quello rivolto dal comandante dell’”Almirante Betollo” ai litigiosi compagni di viaggio, fascisti e antifascisti, di Pasquale De Simone. Nel caso infine degli emigranti politicizzati in senso socialista ovvero quasi al punto d’intersezione fra il loro classismo e internazionalismo da un lato e il loro transnazionalismo obiettivo da un altro si collocherebbero numerosi esempi significativi sui quali non vale la pena d’insistere qui, ma sulla cui evocazione penso si possa concludere infine questo intervento attingendo ad una testimonianza ,domestica e familiare per chi scrive, in cui, volendocelo scorgere, è come se prendesse forma il presagio d’una nota canzone dei giorni nostri (per la cronaca La locomotiva di Francesco Guccini). Autore ne è un oscuro militante socialista , “di base” come un tempo si diceva,che in forma di lettera a un giornale del proprio partito fissa anche lui le proprie Impressioni di viaggio (Marzetto 1898) all’inizio di un percorso d’emigrazione temporanea destinato a portarlo dapprima in Francia e quindi in Egitto:

“ A Verona dal mio sportello di terza classe vedo passarmi davanti un treno di lusso così detto – Vienna-Nizza – Dio! Che contrasto! In quello signori e signore che mangiavano, bevevano, giocavano nei vagoni trasformati in salon-restaurant, vagoni a letto, sale di lettura,caloriferi, comunicazioni interne con tutto il treno, camerieri di servizio e forse anche cameriere; nel mio povero scompartimento di terza classe, invece, un freddo cane, quattro assi di legno sverniciato servon da sedile, un’aria frizzante nel viso che mi veniva da una finestra della quale non era possibile rialzare il vetro perché , otto, dieci sacchi di bagaglio di alcuni poveri contadini che andavano ai lavori in Svizzera e buon per noi che la giornata era buona, altrimenti in quelle carovane che sono i vagoni di terza classe, se avesse a piovere ci si rinfrescherebbe per benino. Il treno di lusso ha la precedenza sul nostro, che riprende la sua corsa con mezz’ora di ritardo. Eh già! La è questione di classe, direbbe un …capo…stazione.”