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Europa e Stati Uniti. Il difficile rapporto tra storie diverse e tra diversi paradigmi storiografici

Anna Maria Martellone

Anna Maria Martellone, (Università di Firenze)

Bologna, 12 maggio 2000, Dipartimento di Politica, Istituzioni e Storia
Pubblichiamo in questa pagina il testo dell’intervento tenuto dalla Prof.ssa Anna Maria Martellone all’Incontro SISSCO-AISNA: (Bologna, 12 maggio 2000, Dipartimento di Politica, Istituzioni e Storia), ringraziando l’autrice per avercelo concesso.

(da non citare senza il consenso dell’autrice)

Due millenni orsono Platone osservò che la storia è raccontata da chi tiene in mano il potere. Voleva forse dire che il racconto della storia è inevitabilmente gestito dai vincitori, dai cosiddetti “grandi uomini che hanno fatto la storia” per perpetuare la memoria delle loro vittorie, della loro condizione egemone. E non a caso nella rotonda della Library of Congress a Washington sta inciso su marmo che “History is the biography of great men” (Nash 2000, 23). Saltando a tempi più recenti, Walter Benjamin osservava, in una critica severissima dello storicismo, che il risultato finale della narrazione dell’emergere e dell’affermazione del progresso, così come prescritta dallo storicismo, altro non era che la costruzione di una storia dei vincitori (Thomas 1991, 33). Certo che nel raccontare, gli storici hanno un bel tessere, da trama e ordito, una tela più o meno variegata, il risultato è stato quasi sempre una tela in cui la scelta dei fili da utilizzare rispecchia l’ethos dei vincitori. E’ così che nasce la tela della storia nazionale, anzi la nazione stessa, o per meglio dire l’invenzione della nazione. Gli storici professionisti, che appartengono a una “comunità di competenti” che è autorizzata a porgere insegnamenti, negli scritti e nelle scuole e nelle università, selezionando i fili da utilizzare, scartandone altri, contribuiscono con i vincitori a costruire la memoria della nazione, di cui sono anche i custodi autorizzati e ascoltati. Come disse lo storico progressista Carl Becker gli storici appartengono di diritto alla “antica e onorevole compagnia di saggi della tribù, di bardi e narratori di storie, menestrelli, di indovini e di sacerdoti” ai quali è affidata la conservazione di quegli “utili miti” che armonizzano insieme passato e presente, miti in cui la tribù, la nazione, o l’intera umanità si riconoscono e alla luce dei quali giudicano le loro azioni e formulano le loro speranze per il futuro. Questa è una definizione immaginosa e bella del ruolo mitopoietico dello storico nella invenzione della nazione, e per questo mi piace citarla; anche se mi rendo conto che Becker non si interroga sul rapporto tra saggi, bardi, menestrelli, indovini e sacerdoti da una parte con il capo-tribù, dall’altra con il fatto “come è realmente accaduto” di rankiana memoria. Vale a dire che egli ignora sia il rapporto dello storico con il potere, sia quello con i doveri che allo storico impongono l’appartenenza, più che a una banda di menestrelli, bardi, e via discorrendo, ad una “comunità di competenti”, che praticano una scienza a livello professionale (Haskell 1998, 63).
Uso quindi Becker soltanto come si userebbe un riflettore su una scena, per concentrare l’attenzione, in queste brevi note, su un tema molto pregnante, quello del rapporto tra storico e nazione negli Stati Uniti. A me sembra che la pratica storica negli Stati Uniti, così come venne a definirsi dagli anni Settanta dell’Ottocento, cioè dal momento in cui, dopo la Guerra Civile, si sente la necessità di “rebuild – reconstruct – the nation” non ha mai cessato di occuparsi della nazione, di affaticarsi sulla definizione e ri-definizione di una identità nazionale, quando affermandone l’esistenza e porgendone la normativa senza dubbi e remore, e prescrivendone con baldanzosa sicurezza la continuità nel futuro, quando percependone la mutevolezza e dichiarando addirittura una propria incapacità di cogliere e descrivere la nazione di fronte all’insorgere di esigenze particolaristiche di vario tipo. Ricordiamoci come negli ultimi venti anni molti storici americani hanno levato grandi lamenti sulla impossibilità di dare unità e coerenza alla storia nazionale, di darne una narrazione che non fosse soltanto una giustapposizione di parti non interrelate, la registrazione della sconfitta del concetto stesso di nazione di fronte alla montante frammentazione che si accompagnava alle affermazioni del multiculturalismo, affermazioni che inducevano lo storico a parcellizzare la storia nazionale in storie di etnie, o di gender, o di classe. A tali lamenti si potrebbe obiettare sbrigativamente: “ebbene, che c’è di male? Chi ha detto che una nazione debba essere espressa in una narrazione coerente e unitaria?” anzi, in fondo, che bisogno c’è di scrivere una storia nazionale, o di insegnarla nelle scuole? Ma così facendo si finirebbe con l’ignorare il fatto inconfutabile che l’identità nazionale, la costruzione della nazione, è stato il tema più perseguito dalla pratica storiografica americana fin da quando i primi storici puritani cominciarono a scrivere l’autobiografia della giovane America.
Persino il controverso rapporto che nel 1991 stese la Commissione dello stato di New York per individuare il nuovo quadro di riferimento degli studi sociali, rapporto ampiamente criticato perché auspicava la promozione massiccia del multiculturalismo, fece propria l’idea che “l’insegnamento della storia della nazione, delle nostre tradizioni e dei nostri valori nazionali, e di una comune fedeltà alla nazione [loyalty] sono finalità comunemente accettate come appropriate per gli studi sociali” (Nash 2000, 15). L’importanza della storia appare strettamente connessa alla sua capacità di suscitare e nutrire il senso civico, di contribuire a formare cittadini istruiti e consapevoli. Non è qui possibile ripercorrere l’iter del rapporto tra professione storica e idea di nazione dal 1870 ad oggi; comunque mi sembra di non generalizzare troppo affermando che dall’anglosassonismo dei primi storici professionisti, alla svolta turneriana, all’ethos democratico degli storici progressisti, alla storiografia del consenso degli anni Cinquanta, all’emergere delle reinterpretazioni della Nuova Sinistra, la pratica storica statunitense non ha mai cessato di occuparsi della “American nation”, sia che si ponesse ancora l’interrogativo di Crèvecoeur, che cos’è l’Americano, sia che cercasse di codificare processi di americanizzazione atti a formare “veri americani” dagli immigrati.
“National character” e “Americanization” dominano il panorama storiografico americano che ha per tema la “nation” almeno fino all’inizio degli anni Settanta. E’ una terminologia che fa riferimento a una concezione degli Stati Uniti piuttosto fissa e statica, in cui gli Stati Uniti vengono percepiti come una nazione con un ben definito carattere, che accoglie volentieri i nuovi venuti purché si conformino a un pattern ben stabilito di “americanità”. Alla fine degli anni Sessanta, tale concezione venne in aperto conflitto con la glorificazione del pluralismo e della diversità che fu uno dei maggiori risultati dei sommovimenti di quel periodo. A proposito di “national character” vorrei notare come sia stato sempre molto difficile, per storici e scienziati sociali, usare questo concetto nel discorso sugli Stati Uniti senza cadere nella trappola di asserire l’eccezionalismo americano. La vaghezza dell’espressione “national character”, l’assenza di una definizione epistemologica di “nazione”, la vastità stessa del paese e la presenza al suo interno di differenti connotazioni sezionali, tutti questi elementi contribuirono a formare una varietà di generalizzazioni impressionistiche e descrittive che svariavano dalle analisi del sistema politico a dati “culturali” basati di volta in volta su razza, ambiente, fattori economici, consapevolezza dei cambiamenti indotti dalla modernità e, più di recente, dalle nuove esigenze del decostruzionismo post-moderno. L’elemento unificante che emergeva da tutte queste descrizioni, era la presenza di fattori che rendevano gli Stati Uniti diversi dalle altre nazioni del mondo occidentale, fattori che molti ritenevano presentassero grandi potenzialità per renderli in effetti un paese non solo diverso ma migliore degli altri, soprattutto se la specificità americana veniva individuata in un ethos democratico estraneo alla cultura politica di altri paesi. Già Tocqueville aveva istituito una relazione tra l’eccezionalismo americano e l’assenza di una “gradation of ranks”. L’eguaglianza delle condizioni sociali era la vera fonte della democrazia americana. Da Tocqueville in poi l’assenza del conflitto di classe era stata invariabilmente presentata come la radice della diversità americana. Quasi invariabilmente, perché il conflitto di interessi presentato dalla interpretazione economica di Beard apri in realtà una frattura tra radicali e conservatori, una conflittualità interpretativa che durò fino alla storiografia del “consenso”. Gli storici del consenso proposero un’interpretazione della storia degli Stati Uniti come l’ininterrotto progresso di una nazione cui fu affidata ab origine la missione di propagare la democrazia. La missione stava nel cuore più profondo della nazione, anzi, c’era una nazione in quanto c’era una missione. La vitalità dell’ethos democratico negli Stati Uniti era meglio garantita da una società in cui l’esistenza di conflitti di classe era negata ogni momento e dove la mitologia del consumismo soddisfatto e della democrazia espansionista imperavano. Nel secondo dopoguerra, la prosperità economica e lo status di superpotenza rinforzarono la visione degli Stati Uniti come di un perfetto esemplare di società liberal-borghese, “raccolta intorno a un centro Lockeano”, come disse Hofstadter (1968, 47), dove le porte della prosperità e dei valori della classe media erano ben spalancate. Politicamente, questa società si situava al centro dello spettro politico, al “centro vitale”, come lo definì Arthur Schlesinger Jr (1949). In un mondo diviso in due blocchi, le intuizioni di Tocqueville, sulla unicità e inimitabilità americana sembrarono acquisire nuova verosimiglianza. Per tutta la loro fama come esponenti più importanti della “consensus history”, le spiegazioni fornite da Hartz e Boorstin dell’unicità e inimitabilità americana non raggiungono la straordinaria consonanza con le idee politiche allora prevalenti (quali, in politica estera, la dottrina Truman e il Piano Marshall) che caratterizza l’analisi di David Potter in People of Plenty.
Il libro di Potter, a mio avviso, fu il primo tentativo, probabilmente non consapevole da parte dell’autore, di decostruire la missione. La decostruzione dell’idea di una nazione intrinsecamente democratica e “missionaria” andò guadagnando terreno negli anni Sessanta e Settanta, anni nei quali gli storici della nuova sinistra si adoperarono con successo a scoprire errori e omissioni nella storiografia del consenso, a portare alla luce nuovi soggetti che la storiografia americana aveva allora pressoché ignorato: neri, donne, minoranze, etniche, lavoratori, socialisti, anarchici. Ma accanto ai meriti innegabili del “movement” protestatario e della storiografia della New Left dagli anni Sessanta in avanti, non vorrei che venisse dimenticato il passo veramente rivoluzionario compiuto da una parte importantissima delle istituzioni, cioè dalla Corte Suprema degli Stati Uniti nel 1954, con la sentenza Brown vs. Board of Education of Topeka, che proclamando l’incostituzionalità delle segregazione razziale nelle scuole innestò la lotta per i diritti civili dei neri.
Dopo gli anni Sessanta e Settanta, la storiografia americana non ha più immaginato gli Stati Uniti come un’entità nazionale culturalmente definita una volta per tutte, cui i nuovi venuti dovevano assimilarsi, ma come un paese di “unstable pluralism” e gli Americani come un popolo la cui identità nazionale era soggetta a continua ri-negoziazione e ri-definizione ad opera delle molte etnie presenti nel paese, e di vari gruppi fino ad allora non considerati dalla storiografia, ciascuno pronto a rivendicare un posto nel caleidoscopio nazionale per la propria cultura, oltre che a pretendere aiuti governativi a vario livello non solo per garantirne la sopravvivenza ma anche per assicurarle adeguati riconoscimenti nel panorama culturale del paese. Non mi soffermo sulle “culture wars”, le guerre tra le varie culture ognuna tesa a rivendicare non solo un posto, ma una centralità nel discorso nazionale. Abbiamo molto sentito parlare di “culture wars” nei dipartimenti d’inglese di alcune importanti università e di allargamento del canone letterario, Il “canone” storico, non è stato da meno nel seguire il cambiamento – al posto di vari dwem (dead white European males)che fino ad allora avevano primeggiato nel pantheon nazionale, hanno assurto rilevanza indiani, neri, donne, minoranze rivoluzionarie contestatrici, diversi di ogni genere, a cui si è rivolta l’attenzione degli storici, ai quali, negli Stati Uniti come in altri paesi, si sono aperti nuovi e fertili campi di studio, anche nella scelta di nuove tematiche d’indagine, quali il folklore e l’arte popolare, tanto da riuscire a renderli parte integrante della cultura americana, ipotizzando che gli influssi culturali potessero procedere non solo dall’alto in basso ma anche dal basso verso l’alto.
Per moltissimi storici, intellettuali ed educatori, ciò è fonte di soddisfazione. Per tanti altri è vero il contrario, anche se si rallegrano che altri paesi, la Russia, la Germania, il Giappone, abbiano profondamente rivisto i loro testi di storia così che gli studenti apprendano anche i lati negativi della storia nazionale. L’atteggiamento di conservatori e liberali riguardo alle rivendicazioni del multiculturalismo è molto diverso, e riflette la contrapposizione degli approcci politici. I conservatori temono naturalmente il venire meno del controllo delle élites sulla scrittura della storia, quella che è stata chiamata l’apertura della mente americana (in contrapposizione alle tesi espresse da Allan Bloom sulla chiusura della mente americana dovuta all’abbassamento degli standard culturali). Già nel 1962 lo storico Carl Bridenbaugh, nel suo discorso al congresso annuale della American Historical Association, lamentava che ormai coloro che si accostavano come apprendisti a Clio provenissero dalle classi medio basse e fossero di origine straniera, e come tali sottoposti a frustrazioni che ne condizionavano la resa sceientifica: “le loro emozioni”, scriveva, “non infrequentemente ostacolano la corretta ricostruzione storica… Essi si ritrovano, in un senso molto reale, stranieri al nostro passato e si sentono lasciati fuori. Tutto ciò non è certo colpa loro, ma è vero” (Nash 2000, 54) Niente è più indicativo del divario delle posizioni tra conservatori e liberal del lungo e furioso dibattito che ha accompagnato l’elaborazione da parte di una commissione nazionale dei National Standards for History, cioè delle guidelines per l’insegnamento della storia nei dodici livelli scolastici pre-college (Nash 2000).
Nelle recenti “guerre culturali” l’obiettivo dei conservatori è stato quello di agire sulle emozioni della gente elencando le esagerazioni del “politicamente corretto” (esagerazioni che indubbiamente esistono) e i pericoli di un “revisionismo” denigratore dell’America e di “multiculturalismo balcanizzante”. L’accusa dei conservatori al multiculturalismo è che a causa delle spinte multiculturali un paese unito è diventato disunito, perché è stata fatta a pezzi la trama che la storiografia aveva tessuto per raffigurare una nazione. Tipico delle tematiche dei conservatori è il seguente passo tratto da un intervento televisivo del noto commentatore e opinionista Rush Limbaugh:
When you bring [students] into a classroom and you teach them that America is a rotten place, and they don’t have a chance here …you have a bunch of embittered people growing up, robbing and stealing and turning to crime because they have been told all their young lives that there’s no future for them … This country does not deserve the reputation it’s getting in multicultural classrooms, and the zenith of this bastardization of American history has been reached with new standards that have been written as part of goals 2000 to standardize history (Nash 2000, 5).

Un esempio significativo di come idee simili penetrino nella coscienza anche di persone tutt’altro che sprovviste di bagaglio culturale può essere quel che mi disse un collega storico di una università del Mid-West quando un paio di anni orsono in una scuola di Columbine, Colorado, dei ragazzi si dilettarono a far fuori parecchi dei loro compagni (un fatto del genere, sia pure in scala minore, si era verificato l’anno precedente da qualche altra parte del paese). A me, che chiedevo “Ma cosa gli raccontano a scuola a questi ragazzi?” egli rispose malinconicamente “non è tanto quello che gli raccontano, piuttosto quello che non gli raccontano”, accennando a come si era modificata la visione della storia nazionale nelle scuole. Non è da ritenere tuttavia, io credo, che il prestar meno attenzione ai dwem a scuola, e di più a natives, blacks, immigrants, women produca episodi orrendi come quello della Columbine high school, c’è piuttosto da interrogarsi sulla anacronistica permanenza nella costituzione degli Stati Uniti del secondo emendamento, che gli interessi congiunti della American Rifle Association e dei fabbricanti e commercianti di armi rende intoccabile, per non parlare della violenza diffusa senza controllo alcuno dai media.
Da parte liberal, non si da grande ascolto alle geremiadi sulla presunta “bastardizzazione” o quanto meno “balcanizzazione” dell’America ad opera delle armate multiculturali, e neanche a quelle sull’imperversare di quella che è stata chiamata “la cultura del piagnisteo” praticata dalle minoranze in cerca di riconoscimento(Hughes 1993) mentre ha trovato ascoltatori attenti il dubbio espresso da storici di diverse tendenze e di diversi orientamenti disciplinari circa la possibilità di poter ancora presentare un’immagine unitaria della storia nazionale in una narrazione unitaria, coerente e equilibrata. La questione, insomma, della “nation and narration” (Bhabha 1990), di come ricostruire l’intero dalle parti è stata dibattuta anche tra storici di tendenza liberal. Da tutto il dibattito dell’ultimo decennio, quel che emerge sul fronte liberal è l’asserzione che le pluralità e le diversità messe in luce dalle varie branche della storia sociale possono essere ricanalizzate nel mainstream di una storia nazionale da riscrivere con occhio nuovo, focalizzando sulla storia non di un ethos democratico infuso ab origine nella nazione e trionfalmente in marcia ad opera di “grandi uomini”, ma sulla continua battaglia combattuta da uomini e donne di ogni razza, colore e ceto per realizzare nella concretezza della quotidianità gli ideali di libertà, giustizia ed eguaglianza iscritti nei documenti fondanti della nazione americana. Questa nuova narrazione della nazione americana raggiungerebbe coerenza e coesione dalla ricostruzione del cammino verso il raggiungimento della piena dignità umana da parte di individui e gruppi che hanno sofferto discriminazioni, sfruttamento, ostilità, ma hanno saputo ribellarsi e abbandonare passività e rassegnazione per sfidare i loro sfruttatori, combattere per i propri diritti, abbattere le barriere razziali, e in tale battaglia inverare il credo americano dell’eguaglianza naturale degli uomini. E’ questa una storia difficile da sintetizzare e costruire, ma non mancano tentativi in tal senso che possono ritenersi positivi, anche se non privi di omissioni a danno di questa o quella minoranza, di questo o quel gruppo: tra i più riusciti, è certo da menzionare il recente The Story of American Freedom di Eric Foner, che sta uscendo anche in edizione italiana.
E’ certo positivo che nella scrittura di manuali per le scuole e per i colleges si sia passati dal trionfalismo di titoli esaltanti la nazione quali The Great Republic, Triumph of the American Nation, e America: the Glorious Republic, a titoli come America Will Be, A More Perfect Union, A People and a Nation, che si riferiscono alla nazione come a “work in progress” cui tutti possono contribuire.
Riferimenti bibliografici

Bhabha, Homi K. (a cura di), Nation and Narration, London and New York, Routlege, 1990.
Bloom, Allan, The Closing of the Anerican Mind, New York, Simon and Schuster, 1987.
Foner, Eric, The Story of American Freedom, New York and London, Norton and Co., 1998.
Haskell, Thomas L., Objectivity is not Neutrality. Explanatory Schemes in History, Baltimore and London, The Johns Hopkins University Press, 1998.
Hofstadter, Richard, The Progressive Historians: Turner, Beard, Parrington, New York, Knopf, 1968-
Hughes, Robert, La cultura del piagnisteo. La saga del politicamente corretto, tr. it., Milano, Adelphi, 1994.
Levine, Lawrence W., The Opening of the American Mind: Canon, Culture, and History, Bostib, Beacon Press, 1996
Nash Gary B., Charlotte Crabtree, Ross E. Dunn, History on Trial. Culture Wars and the Teaching of the Past, New York, Vintage, 2000.
Potter, David, People of Plenty: Economic Abundance and the American Character, Chicago and London, The University of Chicago Press, 1954.
Schlesinger, Arthur M. Jr, The Vital Center. The Politics of Freedom, Boston, Houghton Mifflin, 1949.
Thomas, Brook, The New Historicism, and Other Old-Fashioned Topics, Princeton, N. J., Princeton University Press, 1991.