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Fonti sensibili e fonti riservate: un’agenda

Raffaele Romanelli
Quaderni I/2001
SEGRETI PERSONALI E SEGRETI DI STATO.
Privacy, archivi e ricerca storica

a cura di Carlo Spagnolo
Parte I
Privacy e codice deontologico

A nome della “Società italiana per lo studio della storia contemporanea”, la SISSCO, ringrazio l’ISLE, nella persona del suo presidente, il senatore Pieraccini, non solo per le parole che ha appena pronunciato, ma anche per il sostegno dato alla nostra iniziativa insieme alle autorità del Senato della Repubblica che la ospitano. Entrambe, sia la sede, sia l’istituto col quale abbiamo preso questa iniziativa, sottolineano il carattere istituzionale del tema che oggi discutiamo. Infatti nelle due parti di questa giornata di lavoro ci occuperemo non tanto di fonti per la ricerca storica contemporanea quanto di un tipo particolare di fonti, quelle prodotte dagli apparati istituzionali dello Stato, nonché delle politiche pubbliche che riguardano la conservazione e la tutela dell’accesso, e dunque del ruolo che le istituzioni di un paese democratico, di un moderno Stato di diritto devono avere nella cura e nella preservazione della memoria storica di un paese. Sono convinto che appartengano ai valori di una autentica democrazia, e forse anche semplicemente di un paese civile, la cura gelosa non soltanto del passato storico del proprio paese ma anche degli strumenti perché quella memoria sia conservata ed elaborata con l’attenzione critica che la tradizione storiografica ha raffinato nel corso del tempo.
Politiche di conservazione e critica delle fonti sono altrettanti filtri che difendono la conoscenza storica dalle manipolazioni e dagli usi impropri che inevitabilmente se ne fanno; esse creano quella distanza necessaria tra l’osservatore e i fatti, distanza che non è necessariamente data dal tempo o dalle idee e dai convincimenti, ma è la distanza data dalla ragione, dalla capacità di analizzare con spirito critico i fatti. Ora, ai pericoli di manipolazione e di distorsione sono soggette le carte di tutte le epoche del passato, anche del passato molto remoto, alle quali il dibattito politico ha sempre fatto ricorso per legittimare questo o quell’orientamento; basti pensare all’uso della storia romana o medievale nel dibattito politico contemporaneo. Ma per l’età contemporanea, per delle fonti cioè che riguardano eventi e persone del nostro presente, il pericolo di distorsione e quindi l’esigenza del distacco pongono problemi specifici. Per usare dei termini che ricorrono spesso in questa materia: i dati contemporanei non sono inerti, sono “sensibili”.
In questa giornata parliamo di due tipi particolari di “sensibilità ” e di “riservatezza”. La prima riguarda la sfera intima personale del soggetto, quella che viene chiamata privacy e che è oggetto di una tutela tipicamente moderna, figlia della contemporanea età dei diritti individuali. La seconda è una riservatezza per nulla moderna, elemento forse intrinseco al potere dall’ogni tempo ma che presenta tratti arcaici, e cioè la segretezza nella quale agiscono gli apparati pubblici di comando. Entrambe queste riservatezze riguardano valori, principi e istanze organizzative essenziali per l’ordine collettivo e tuttavia intimamente contraddittorie e problematiche. Infatti gli apparati degli Stati contemporanei sono molto penetranti ed invadenti, tendono a regolare e a disciplinare ogni aspetto della vita individuale e associata. Lo Stato democratico di diritto vorrebbe però che quell’invadenza fosse sempre motivata, trasparente e puntuale, nel senso che essa dovrebbe toccare la sfera intima o segreta delle vicende individuali e collettive per subito ritrarsene, con un “tocco” leggero, strettamente limitato alle funzionalità operative dell’atto amministrativo e privo di tracce ulteriori. Enfatizzando, si potrebbe parlare di una società “totalitaria” di tipo nuovo, una società che tutto sa e su tutto interviene, ma che non ha segreti e nulla ricorda, e che non accumulando memoria non ha passato né storia, e dunque nega proprio l’esigenza di conservazione e tutela della memoria e del passato che è una delle caratteristiche precipue della dimensione storica della civiltà moderna. Questo è infatti il problema che affrontiamo qui: quale deve essere la sorte di documenti prodotti nel corso dell’intervento “pubblico” (fosse anche soltanto quello conservativo di carte private) nella sfera “privata”? Fino a che punto deve valere il diritto alla conoscenza e alla storia e fino a che punto invece deve essere tutelato il diritto alla riservatezza?
A questa tensione tra valori e principi organizzativi, sono dedicate le due parti della nostra giornata di lavoro – ché tale l’ abbiamo concepita, non come un convegno che deposita relazioni dotte, ma come concreto laboratorio, che trasforma materia prima e, possibilmente, produce un manufatto. La materia prima è data in questo caso da eventi istituzionali ben precisi che hanno reso attuale ed anche urgente la discussione intorno a entrambe le questioni, quella che discuteremo durante la mattinata e quella che affronteremo del pomeriggio.
Due parole su quella della mattina: l’evento istituzionale a cui mi riferisco è il decreto 281 del 30 luglio 1999 che attuando la legge del “96 disciplina il trattamento dei dati personali per finalità storiche, statistiche e di ricerca scientifica. Mi riferisco dunque a materiale, a norme, articoli, interventi – elaborati, tra l’altro, anche da studiosi, funzionari e autorità qui presenti – che la SISSCO ha messo a disposizione del pubblico. Nel suo sito WEB, in un apposito “dossier” documentario, sono da oggi consultabili tutti i materiali relativi alle questioni che qui si discutono.
Le norme che disciplinano il trattamento dei dati personali fanno distinzione tra finalità storiche, statistiche e di ricerca scientifica. Qui ci interessiamo alla ricerca storica, che naturalmente è concetto assai sfuggente. Si noti che nel decreto in questione, mentre la definizione delle finalità statistiche e scientifiche è risolta in modo tautologico – le finalità statistiche attengono alla raccolta statistica di materiale, le finalità scientifiche alla raccolta scientifica di materiale – si dice che le finalità storiche attengono ai fatti riguardanti il passato, ciò che nasconde una sia pur vaga e discutibile definizione della storia. Siamo in ogni caso in presenza di un problema specifico: come debbano essere tutelati i dati personali a fini di documentazione storica.
Si apre così una prima questione: cosa si debba intendere per dati personali. Sembrerebbe che qui ci si riferisca a ciò che gli storici chiamano “dati nominativi”, riferendosi a documenti che vengono elaborati e riportati senza depurarli dei nomi di persona, come invece fanno le discipline statistiche, o le scienze mediche, alle quali è permesso l’accesso anche a dati molto sensibili a condizione che si siano resi anomini. Si tratta di vedere se ciò è possibile nel caso della disciplina storica. Lo è, certamente, in quei settori della ricerca che sono più prossimi all’approccio sociologico, o economico, e lavorano su dati quantitativi, o seriali. E tuttavia succede anche agli storici sociali quanto pure accade ai demografi, ai sociologi, agli statistici, i quali tradizionalmente lavorano rendendo anonimi i dati, ma che nuovi orientamenti disciplinari spingono invece a individuarli, come succede ad esempio nelle analisi prosopografiche, nell’analisi delle strutture relazionali degli individui, e così via. In questi casi anche la storia sociale torna ad essere, come la storia in generale, disciplina classicamente idiografica, che per definizione lavora su dati nominativi (ed è questa del resto l’interpretazione che sottostà al concetto di storia del nostro legislatore quandall’egli pensa a “fatti e figure””).
Insomma, agli storici interessano i nomi e i volti. Senonché nel riferimento ai “dati personali” avviene un evidente slittamento tra la dimensione che ora ho chiamato “nominativa” ed una dimensione diversa, che riguarda invece la sfera intima, individuale del soggetto (o, in alcuni casi, della sua famiglia e dell’intimità domestica), che è cosa assai specifica, ed appunto individua la sfera della riservatezza della quale oggi parliamo come valore proprio elaborato dalla civiltà europea nel corso degli ultimi due secoli.1 Ora, se si torna in questa prospettiva alla legge del 1996, si ha una definizione dei dati personali sensibili, cioè verso i quali la tutela è maggiormente necessaria, che è quantomeno assai problematica. Se vista con l’occhio dello storico la norma appare redatta con ben scarsa sensibilità storiografica e perfino, in alcuni tratti, con una certa sciattezza, soprattutto laddove si parla di “dati personali idonei” “a rivelare l’origine razziale ed etnica, le convinzioni religiose, le opinioni politiche, le adesioni a partiti, sindacati, associazioni, organizzazioni di carattere religioso, filosofico, politico, sindacale nonché i dati personali idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale degli individui”.
Da un punto di vista storico ha un certo interesse questa sintesi definitoria della sfera della privacy, in cui ci sono molte cose di origine e provenienza diversa. Intanto, sorprende che in un testo legislativo si faccia uso del concetto di razza – che è un concetto che non ha alcuna validità scientifica. Ma poi fa specie l’accostamento della sfera della privacy nel senso della privatezza che attiene alla sfera dei sentimenti e della sessualità , individuata dalla cultura borghese come un valore sensibile da tutelare, con le opinioni politiche o addirittura l’adesione a partiti politici, che nella sfera della società democratica e liberale si presentano come quanto di più aperto e trasparente debba esserci. Naturalmente si risente qui l’eco di società dispotiche nelle quali, la partecipazione ad associazioni politiche essendo pericolosa o proibita, l’informazione su di essa poteva esser considerata elemento riservato. Come si vede, sulla natura e sui confini della riservatezza lo storico ha molto da dire. Per il momento tuttavia prendiamo atto del fatto che testi legislativi hanno già disposto in materia, e vediamo in che modo si può favorire, ed eventualmente indirizzare, gli ulteriori passi da fare, e quindi l’applicazione della legge. Il problema che ci troviamo di fronte è infatti “de iure condendo”: lo stesso decreto prevede entro un certo tempo l’adozione di codici deontologici che contribuiscano a regolare l’accesso ai dati sensibili per finalità di ricerca storica. Sorvolerò qui sui tempi imposti dal legislatore per questa adozione-emanazione (lo studioso è a volte perplesso sul contrasto strutturale tra la formale tassatività dei tempi – in questo caso, sei mesi – e la concreta elasticità – che a volte allarga il tempo fino a raggiungere le fatidiche calende greche, che mai vi furono).
Ciò che qui conta è appunto l’emanazione del codice. Prima di lasciare la parola ad altri, più di me competenti, su questo argomento, segnalerò alcuni problemi che mi sembra non potremo eludere. Infatti, se le finalità storiche costituiscono un valore degno di tutela, tale da permettere lo studio di documenti delicati (a patto che un codice di condotta sia stato accettato e sottoscritto), ne conseguono, a mio parere, alcuni imperativi: occorre 1. definire la ricerca storica e chi la conduce, ovvero dire chi sia “lo storico” in oggetto; 2. stabilire chi dovrà sottoscrivere il codice di condotta; 3. dire quali saranno le sanzioni previste per chi quel codice infrange. Tutti problemi di difficile soluzione, mi pare, sui quali ascolterò con grande curiosità ed interesse gli specialisti qui convenuti.
Chi è dunque lo storico, o la storica? Converrà prima sgombrare il campo da un possibile equivoco. Alcuni sostengono che nel caso della consultazione degli archivi lo storico si identifica con l’utente, ovvero con chiunque sia ammesso agli archivi. E, salvo impedimenti specifici, tutti gli “utenti” hanno eguale, libero accesso agli archivi. E’ questa una visione democratica e di grande legalità , ma che ha poco a che fare con il problema di oggi. Oggi infatti vogliamo parlare di un codice che offra la possibilità di accedere a fonti riservate, normalmente sottratte alla libera consultazione.
Di qui nasce l’esigenza di definirne l’ambito di applicazione. Certo, gli archivisti ci potranno aiutare a capire chi di fatto sia l’utente medio degli archivi italiani, e ci diranno se è giusta la nostra sensazione che rispetto a quello di altri paesi il profilo dell’utente italiano sia più vicino a quello dello studioso, dell’accademico. così almeno tendiamo a figurarcelo, immaginando che lo storico-utente degli archivi sia rappresentato da professori, studenti e assistenti, laureandi e dottorandi. Ora, non sarebbe nemmeno ipotizzabile restringere a queste categorie l’accesso agli archivi; la legge stabilisce altrimenti, e nessuno lo vorrebbe. Ma è invece ipotizzabile che a determinate categorie di ricercatori in qualche modo istituzionalmente riconosciuti o garantiti sia riservato il maggior favore che la legge prevede in tema di accesso a documenti particolarmente delicati?
L’attenzione si sposta allora sulla configurazione delle responsabilità . Ferme restando, come è ovvio, le responsabilità penali e civili, quale specifico tipo di responsabilità “professionale” possiamo configurare? Il che vuole dire anche: quali regole deve contenere il codice deontologico? Chi lo dovrebbe firmare? Quali saranno le sanzioni per una sua trasgressione? Circa i contenuti del codice, non è difficile fissare generiche norme deontologiche; del resto, esistono già dei precedenti ai quali ispirarsi. Ma si tratta di stabilire dove va collocata la maggiore densità di potere regolamentare, se nel Garante, che fissa regole rigide, se negli archivisti che poi applicano le regole e concretamente ammettono e non ammettono, se, infine, nell’utente, che, una volta superate alcune condizioni minimali, diventa lui, o lei, eticamente responsabile di come interviene nelle carte. Una cosa intanto mi pare certa – anche se forse non è evidente a tutti: che non esiste, né può esistere, qualcosa di simile ad un “ordine professionale” che definisca il profilo professionale dello storico e che amministri le eventuali sanzioni, come accade nel caso di altre professioni regolate, come ad esempio quella dei medici o dei giornalisti. Nel caso della ricerca storica non esistono dei “corpi intermedi” che possano agire da filtro tra il singolo studioso e l’ archivio. E’ dunque difficile immaginare che le associazioni culturali, come ad esempio la Sissco, firmando il codice deontologico assumano funzioni regolative. Saranno i singoli studiosi a firmare il codice, nel momento in cui saranno ammessi alla consultazione. Parliamo infatti di deontologia professionale, non di disciplinamento della professione.
E’ dall’altra parte difficile immaginare la natura delle sanzioni che sarebbero da applicare a chi contravviene le regole sottoscritte. Già oggi leggiamo agli ingressi delle biblioteche, magari attaccati con vecchi scotch cadenti alle vetrate dall’ ingresso, piccoli ukase che espellono da tutte le biblioteche della Repubblica individui responsabili di gravi contravvenzioni alle norme dall’accesso, persone che hanno rubato, o danneggiato dei volumi. Segnalano, quei foglietti ingialliti, tutta la difficoltà di formulare delle sanzioni, e forse l’inutilità . L’intero nostro discorso mira del resto a dettare le norme morali, di buona condotta e di civiltà , che siano fatte proprie dagli studiosi e che si affermino per virt๠propria. Che insomma facciano parte di un codice etico e culturale condiviso, e non di un sistema repressivo. Perciò dianzi ritenevo utile riflettere sulla natura della riservatezza così come è stata ritagliata dal legislatore. Personalmente, ammesso ad indagare su dati personali attraverso le normali procedure burocratiche, avrei un ritegno personale e culturale a riferire senza enormi cautele sui dati personali presenti in un fondo dall’ archivio qualora questi riguardassero la sfera della intimità sessuale, affettiva, clinica, mentre non avrei alcuna esitazione etica e deontologica a riferire sull’adesione a partiti o sulle convinzioni politiche di soggetti operanti sulla scena pubblica. In questo caso il mio agire non risponderebbe allo spirito della legge, e il fatto che io – o una associazione della quale facessi parte – avessi firmato il codice difficilmente costituirebbe per me un ostacolo. E non vedo quale sanzione potrebbe essere efficace. Ma forse alla fine dei nostri lavori avrò le idee più chiare.
Note
1- Ho espresso meglio questi concetti in altra sede, dove si affrontava la medesima questione che qui si discute. Cfr. il mio Scripta volant.., “Passato e presente”, XVII, 2000, n. 50, pp. 35-42.