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Gli archivi e la storia sovietica

Andrea Graziosi, Università di Napoli “Federico II” [1

Il Mondo visto dall’Italia Convegno della Sissco

Milano, Università cattolica, 19-21 settembre 2002

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Introduzione

Proverò a fare due cose: a) fornire un panorama critico del contenuto degli archivi che sono stati aperti –certo non completamente ma sostanzialmente– dopo il 1991; b) discutere sommariamente, ma sulla base di qualche esempio concreto, di come questi archivi hanno mutato la nostra immagine e le nostre interpretazioni della storia sovietica, indicando in nota le pubblicazioni recenti di maggiore interesse (un elenco più dettagliato lo si può trovare nella bibliografia tematica di storia sovietica da me curata, disponibile in rete sui siti del Davis Center for Russian Studies e di H-Russia (http://daviscenter.fas.harvard.edu/ e http://www.h-net.org/~russia/teach/graziosi.html).  Nelle conclusioni cercherò infine di fare qualche riflessione sull’impatto di questi mutamenti su alcune categorie e indirizzi storiografici nonché sulla loro lezione e le loro possibili conseguenze per il nostro paese, un tema ripreso anche nell’introduzione ai lavori della sessione e che è stato al centro del mio intervento nella tavola rotonda che ha concluso il convegno [3] .

1. Gli archivi

Comincerò da una breve rassegna degli archivi principali, che non comprende quelli di politica estera –di cui non parlerò anche perché se ne occupa Pons– e si concentra su quelli centrali, una scelta dettata dalla natura della mia esperienza (ho sempre lavorato a Mosca), ma in parte giustificata dalla loro assoluta preminenza sugli archivi “locali”, inclusi quelli delle varie repubbliche, in un sistema centralizzato come quello sovietico (anche se non intendo con questo sottovalutare l’importanza degli archivi locali, con cui ho purtroppo poca familiarità).

Questi archivi, descritti con cura insieme ad altri archivi ex-sovietici nell’utilissima ArcheoBiblioBase: Archives in Russia (http://www.iisg.nl/~abb/index.html) curata da Patricia Kennedy Grimsted, sono:

  1. Gli “archivi” presidenziali (APRF), già del Politbjuro sovietico. Le virgolette sono necessarie perché non si tratta di archivi in senso proprio. Essi non riuniscono infatti la documentazione prodotta da una determinata amministrazione, ma hanno raccolto nel corso del tempo le carte più importanti (o più imbarazzanti) provenienti da varie amministrazioni, usate dalla dirigenza sovietica nella decisione di questo o quel problema e per questo –pare– riunite tematicamente. La loro importanza è ovvia, ma il loro accesso è severamente limitato.
  2. Gli ex archivi del PCUS. Due istituzioni (RGASPI e RGANI) si sono divise i documenti del partito su base cronologica, con il 1952-53 come discrimine. Poiché il partito era l’anima dello stato, su cui aveva la preminenza e di cui ricalcava la struttura (di qui il noto parallelismo istituzionale sovietico), si tratta di archivi di straordinaria importanza.
  3. L’archivio di stato (GARF), ricchissimo, dove sono conservate le carte delle varie amministrazioni, tranne di quelle che sono riuscite a conquistare il diritto –per la loro potenza o la delicatezza dei loro incarichi– di non riversarvi i propri documenti. Il già ricordato parallelismo del sistema sovietico fa sì che spesso vi si trovino materiali (copie di rapporti della polizia politica, di documenti mandati al Politbjuro ecc.), altrimenti ancora “secretati”. Da questo punto di vista, il parallelismo si è rivelato una preziosa risorsa per gli storici.
  4. Gli archivi di stato dell’economia (RGAE), che conservano la straordinaria –per quantità e talvolta anche per interesse– massa di carte relative al settore pubblico dell’economia che, come è noto, si estendeva in URSS a coprire la quasi totalità delle attività legali.
  5. Gli archivi militari relativi al periodo precedente il 1939 (RGVA), che conservano materiali di grandissimo interesse soprattutto sulla guerra civile e gli anni formativi dello stato sovietico.
  6. Quelli della polizia politica (AFSB), con dati, inchieste ecc. relativi a –pare– circa 25 milioni di individui, oltre ai rapporti sullo stato d’animo di questo o quello strato della popolazione o di questa o quella regione ecc. Si tratta di archivi quasi chiusi (ad eccezione delle carte personali, che possono essere richieste dai parenti dei perseguitati), da cui sono però cominciati a uscire, grazie a dei progetti di ricerca russi e internazionali, dei documenti di grande interesse, come i rapporti sulla situazione nelle campagne (1918-1939), quelli sulla situazione nel paese (molto interessanti soprattutto per gli anni della NEP), e –ma in minor misura– sugli anni della seconda guerra mondiale. Nel 1989-1991 sono stati divulgati anche alcuni documenti relativi agli anni Sessanta-Ottanta, inclusi alcuni dei rapporti annuali del KGB al segretario generale del partito [4]

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Oltre a variare da un archivio all’altro, il grado di apertura di questi archivi è variato nel tempo, e la situazione continua ad evolvere in modo contraddittorio. Carte un tempo accessibili vengono sottratte alla circolazione, talvolta perché devono essere “ufficialmente” desecretate da commissioni che lavorano spesso lentamente. Ma la declassificazione fa anche passi avanti: di recente, per esempio, parti importanti del fondo Stalin, prima all’APRF, sono state riversate al RGASPI, che ne consentirà la consultazione. Interi settori e periodi, come la politica estera o militare o la seconda guerra mondiale, sono di difficilissimo accesso, e in generale –malgrado la legge parli di materiali consultabili dopo 30 anni– gli anni Sessanta e Settanta sono relativamente chiusi, con le importanti eccezioni costituite, ancora una volta, dai documenti emersi negli anni della crisi dello stato sovietico, quando un ministro degli interni, Bakatin, permise a un ex-dissidente come Bukovskij di fotocopiare parte degli archivi del KGB, vennero divulgati numerosi documenti in occasione del processo al PCUS, e studiosi come Volkogonov e Pichoja riuscirono ad ottenere livelli di accesso oggi difficilmente immaginabili. Abbiamo così i verbali del Politbjuro sulla crisi polacca o l’invasione dell’Afghanistan, oltre ad eccezionali materiali sulla perestrojka, come le memorie dei suoi protagonisti, tra cui quelle di Černjaev e Jakovlev sono forse le più importanti, e i documenti conservati nella Fondazione Gorbačev [5] .
Molto è stato fatto nel campo della valutazione critica di queste nuove fonti, anche se numerosi ne sono stati gli usi impropri, alcuni dei quali hanno avuto ampia eco anche in Italia. Tra le pubblicazioni principali ricorderò il numero speciale dei Cahiers du monde russe (1-2, 1999), quelli di Diplomatic History (2, 1997) e Communisme (42-44, 1995); il lavoro di P. Kennedy Grimsted, Archives of Russia seven years after: “Purveyors of sensations” or “Shadows cast to the past” (http://www.iisg.nl/archives_in_russia/seven2.pdf) e vari saggi apparsi sul Bulletin del Cold War International History Project, CWIHP, liberamente disponibile su http://wwics.si.edu/. Abbastanza utile è anche il sito Research in former Soviet archives (www.soviet-archives-research.co.uk). I documenti selezionati da N. Werth e G. Moullec per Rapports secrets soviétiques (Gallimard 1994) forniscono una buona idea del tipo di fonti oggi disponibile. In Italia, purtroppo, non è stato possibile pubblicare nulla del genere, malgrado la grande importanza scientifica di questi materiali e il precedente grande interesse politico apparentemente suscitato dalla storia sovietica (l’impressione che questo paradosso celi singolari fenomeni sociali e psicologici è confermato dalla difficoltà che incontra oggi chi cerca di far tradurre e pubblicare libri, anche interessantissimi, sulla crisi dell’Urss [6] , un fatto che sembra incredibile se ci si ricorda quel che si riusciva a pubblicare alla fine degli anni Ottanta su Gorbačev).Il primo ingresso in questi archivi suscitò, e non solo in chi scrive, impressioni indelebili. A colpire era la grandiosità delle loro dimensioni, che riflettevano l’estremo statismo del sistema sovietico e le innumerevoli ramificazioni burocratiche su cui era costruito e con cui era gestito. Sorprendentemente, ma solo a prima vista, anche i crimini dello stato vi erano registrati con dovizia di incartamenti, ma solo se e in quanto prodotti di regolari decisioni amministrative (come nel caso delle grandi purghe o della deportazione di intere popolazioni). Come vedremo, non vi si possono infatti trovare atti conseguiti a decisioni extra-burocratiche (e quindi extra-legali), di cui specie, ma non solo, il periodo del dispotismo staliniano fu pieno.Ma colpivano anche il grande ordine in cui erano tenuti, e la qualità del loro mantenimento e del personale che vi era addetto, in parte sicuramente legata al loro essere ancora in parte archivi di uso burocratico corrente in un sistema diventato col tempo molto conservatore e attento alla ricerca del precedente nella risoluzione dei problemi (da questo punto di vista, gli archivi testimoniavano non solo della enormità dello sforzo burocratico sovietico, necessario a tenere in piedi un sistema assai poco razionale, ma anche della trasformazione di questo sistema da rivoluzionario-extralegale a burocratico-formalistico, sia pure sempre con forti elementi extralegali).Colpivano infine i molteplici livelli di segretezza, la presenza di fondi segreti paralleli a quelli ufficiali della cui esistenza lo stesso personale archivistico, tranne che nella sua parte autorizzata, non era all’inizio a conoscenza. Toccavamo qui la forza della konspiracija, il sistema di regole basato su quello della clandestinità pre-rivoluzionaria e perfezionato negli anni del potere, con cui il partito-stato nascondeva la sua natura e le sue iniziative extralegali. Ma toccavamo anche la paura e il conservatorismo di un sistema che allungò sempre più l’area sottoposta al segreto (ed ai suoi diversi tipi), con effetti esiziali alla sua stessa capacità di funzionamento, rallentata e quasi soffocata dalla lentezza di circolazione delle informazioni, e dai limiti ad essa posti.Non insisterò sulla tante volte sottolineata ricchezza della documentazione resasi disponibile, anche perché argomenterò in seguito il mio dissenso da chi ha teso a ridimensionare l’impatto innovativo dei materiali cui abbiamo avuto accesso. Vorrei ora piuttosto attirare l’attenzione sui problemi che questa ricchezza ci pone, una volta riconosciuto che di essa è impossibile fare a meno.Va prima di tutto notata la diversa qualità dei vari tipi di fonti, e la sua notevole variazione a seconda dei periodi. Se pensiamo per esempio ai documenti della dirigenza sovietica, o ad essa relativi, non possiamo ignorare che i cosiddetti fondi personali (ličnye fondy), normali o segreti che siano, sono spesso il risultati di una costruzione casuale, compiuta dagli archivisti in periodi diversi, e non la raccolta delle carte così come essa venne fatta da questo o quel dirigente, con tutti i problemi che ciò pone. Più in generale, abbiamo a che fare, in forme ingigantite al di là dell’immaginabile, con il problema posto in generale dalle fonti burocratiche: abbiamo per esempio i protocolli di innumerevoli riunioni (comprese quelle condominiali, visto che i condomini erano organi pubblici), sempre con ordini del giorno e decisioni prese, più raramente coi materiali relativi ai vari punti, quasi mai con i pensieri, gli interessi, gli scontri, insomma la vita, che attorno a quei punti ruotavano. Persino quando abbiamo dei verbali, pur con qualche notevolissima eccezione (gli anni della guerra civile e della Nep, quelli dal 1953 al 1958 ecc. –torniamo qui alla notevole influenza della congiuntura sulla qualità della fonte), si tratta in genere di documenti “morti”, come del resto sono spesso morti, perché edulcorati, i verbali dei nostri consigli di facoltà. Più interessanti e spesso più vive sono le lettere, comprese quelle –davvero eccezionali– che Stalin spediva dalle vacanze al suo uomo di fiducia a Mosca, Molotov prima e Kaganovič poi, almeno fino alla rottura rappresentata dalle grandi purghe. Ma anche le lettere sono –e quanto relativamente?– “libere” solo fino alla seconda metà degli anni Trenta, quando il prevalere dell’accusa di “doppiogiochismo” portò ad una vera e propria esplosione di nicodemismo. Pensiamo per esempio al Bucharin che chiuso in cella nel 1938 scrive una pietosa supplica all’ “amato” Koba (il soprannome intimo di Stalin) che pure aveva descritto a Kamenev nel 1928-29 come un nuovo Gengiz khan ed a Dan nel 1936 come il diavolo tout court [7] .La memorialistica pre anni Cinquanta è invece spesso deludente: un famoso libro del maresciallo Rokossovskij, pubblicato negli anni Settanta, inizia con un ritorno dalle vacanze del 1940 che è invece il ritorno dal GULag. Molto più interessante è quella degli ex oppositori che riuscirono a rifugiarsi in occidente prima del grande terrore, o dei liberati dai campi dopo il 1953. Ma si tratta di documenti in genere non conservati in archivio. Come è solo raramente reperibile in archivio la memorialistica, questa sì di eccezionale interesse, prodotta da leader che iniziarono a tenere diari grosso modo dopo il 1956, memorialistica poi esplosa con e dopo la perestroika, e di cui le memorie di Čhruščev rappresentano il primo, grande esempio [8] . Per il periodo del dispotismo assoluto (1937-53) abbiamo assai poco (se non, pare, per quanto riguarda gli organi che diressero la guerra, ma la guerra è appunto un’area ancora poco penetrata dagli studiosi), a causa dello svuotamento degli organi formali provocato dal comportamento di Stalin, che amava le riunioni informali, convocate a casa sua la sera, e cui invitava chi voleva, al di là delle cariche. Torniamo qui al rapporto tra tempi e fonti, confermato anche dagli anni successivi quando, alla breve rivitalizzazione legata ai conflitti, alle indecisioni ed alle lotte del 1953-58, seguì una stagione di progressiva quanto stupefacente idiotizzazione dei documenti di un regime che annunciava anche così il suo lento sfacelo. Impressionanti sono a questo proposito i rapporti che un uomo intelligente come Gorbačev inviava a Brežnev negli anni Settanta (per esempio nel già citato Werth e Moullec) ma soprattutto i rapporti annuali del KGB al segretario generale, di cui, come sappiamo, possediamo qualche esemplare. Sempre interessanti sono invece i verbali del Politbjuro, tenuti a partire dalla fine degli anni Cinquanta [9] , e rianimati, come del resto tutti gli altri documenti ed in particolare le fonti “alte”, dalla perestroika (cfr per esempio i brani e i sunti delle riunioni riportati da Černjaev nelle sue memorie). Una gran parte del lascito documentario del sistema, che invade e ne riempie gli archivi, è costituito dai provvedimenti e decreti (prikazy) in cui si è incarnato lo straordinario sforzo burocratico sovietico. Accanto ad essi si trovano spesso i materiali preparatori alla loro emissione e quelli degli uffici di controllo (sektory proverka ispolnenii) cui era affidata la verifica del loro effetto. Abbiamo quindi la possibilità di fare una buona storia amministrativa, che però deve tener conto degli innumerevoli fattori che distorcono l’immagine offertaci da queste fonti, con al primo posto gli interessi delle varie burocrazie, delle tante nazionalità e degli infiniti gruppi potere. Pensiamo per esempio all’OGPU che già negli anni Venti, alla vigilia di riunioni importanti, gonfiava di proposito i dati su complotti politici e criminalità comune presentati al Politbjuro per sventare i tentativi di ridurre i suoi poteri, o ai resoconti, spesso falsati per ragioni simili, del military-industrial complex sovietico, che aveva anche in questo campo molto da insegnare al suo più gracile cugino americano. Ma gli esempi possibili sono infiniti. Vi è poi il problema posto dagli estensori dei documenti, portatori di interessi, individuali e di gruppo, nonché di idee, propensioni e affinità politiche e ideologiche di cui risentivano tanto i rapporti delle varie commissioni quanto i verbali degli organi decisionali, strumenti di potere spesso stilati per favorire questo o quell’interesse o corrente. Anche l’ignoranza, il bassissimo livello culturale, e la pigrizia di tanti funzionari concorrevano a produrre documenti ingannevoli, quando non completamente e ritualisticamente falsi, perché ricavati, per non perdere tempo e non creare e crearsi problemi, da documenti del passato, ricucinati e riserviti senza remore.Tutti questi problemi si ritrovano, pare acuiti, nei documenti militari, dove –come Trockij notava già durante la guerra civile, e come è probabile avvenga in tutti i paesi– si vinceva sempre e quando si era costretti ad ammettere che le cose andavano male, la spiegazione era sempre trovata in forze nemiche assolutamente preponderanti contro cui si erano però moltiplicati gli atti eroici, atti da ricompensare con un’infinità quantità di medaglie, per cui il regime ebbe una vera e propria passione sin dai suoi esordi.Una peculiare fonte di inganno deriva poi dalla struttura dualistica delle burocrazie sovietiche che, come ha notato Terry Martin, è possibile dividere in buone, pubbliche, e cattive, più spesso segrete. Le carte delle prime (quelle degli organi preposti all’istruzione, al lavoro, alle nazionalità, alla salute), che sono state per decenni le uniche disponibili, forniscono un quadro quasi ridicolmente falsato della realtà. L’esempio migliore è quello fatto dallo stesso Martin: a metà degli anni Trenta vari rapporti denunciavano la riduzione “illegale” del numero di scuole nazionali in varie zone dell’Urss, fornendo –al futuro lettore– un’immagine ben strana di una realtà in cui quelle scuole erano chiuse perché i gruppi nazionali che dovevano servire venivano deportati sulla base di ordini del partito e della polizia politica rimasti per decenni segreti [10] .Un caso particolare, e molto interessante, di questo tipo di distorsione è rappresentato da quella che si potrebbe definire l’ “iper-realtà” documentaria prodotta sulla base delle teorie del realismo socialista. L’esempio forse più impressionante è fornito dalla cosciente creazione da parte di Gor’kij di un gran numero di “fonti” dedicate alla storia e al ruolo degli operai nella costruzione del regime (la sua Istorija fabrik i zavodov) e costruite in base alle “aspettative” della teoria. Quando alla fine degli anni Ottanta questi documenti, spesso abbastanza sofisticati (interviste collettive, storie personali di operai che non negavano durezze e sacrifici ecc.), vennero rilasciati nella prima fase dell’apertura degli archivi, non pochi storici caddero nella trappola della perfetta rispondenza dei nuovi documenti, e quindi della presunta “realtà”, con la storia e l’immagine ufficiali del regime staliniano [11] .Come questa storia ci suggerisce, le fonti che riguardano operai, contadini, e ceti popolari sono molto più povere, e problematiche, di quelle relative al potere e al suo esercizio, anche perché sono anch’esse spesso un sottoprodotto di quest’ultimo. Almeno fino alla seconda guerra mondiale, i documenti più importanti a questo proposito, oltre alle fonti giudiziarie, ancora poco sfruttate, sono probabilmente i rapporti riassuntivi (svodki) della polizia politica, chiamata a un enorme lavoro di registrazione delle “opinioni” e dei sentimenti della popolazione. Si tratta di una delle fonti su cui negli ultimi anni più si è discusso ed è impossibile anche solo riassumere la complessità del dibattito. Basti ricordare che c’è accordo sulla relativa affidabilità di questi documenti nei periodi più estremi e polarizzati della storia sovietica (1919-1921, 1929-1933), ma anche sull’estrema problematicità del loro uso. Si tratta infatti di documenti spesso basati sulle informazioni fornite da agenti e delatori, e poi costruiti tagliando e incollando ai successivi livelli della piramide informativa (province, regioni, repubbliche ecc.) quanto prodotto dai gradini inferiori. Ogni momento della loro produzione e compilazione è quindi aperto a distorsioni prodotte da interessi, qualità dei compilatori, desideri di compiacere o compromettere i superiori, utilizzo di categorie ideologiche (quelle del marxismo ufficiale) che spesso impedivano di “vedere” la realtà (cfr infra) ecc. Inoltre il numero e la qualità degli svodki diminuiscono a partire dal 1932-33, quando il regime comincia a sentirsi sicuro della sua presa sul paese ed è quindi meno interessato a conoscere ciò che non teme più. E’ stato poi dimostrato che anche le numerosissime “lettere dal basso” (a giornali, leader ecc.) erano spesso direttamente prodotte dai livelli inferiori del regime su temi e campagne decise dall’alto, e sono quindi –malgrado i titoli di alcuni lavori ad esse dedicati che ne fanno l’espressione di una “voce del popolo”– documenti di notevole complessità e problematicità, che è ovviamente necessario usare, ma solo a patto di averne ben compreso la natura [12] . Soprattutto, vi è la pesantissima carenza di fonti autonomamente prodotte dai ceti popolari. Naturalmente non si tratta di un’assenza completa, ma la loro povertà relativa, rispetto alla situazione nei paesi occidentali, è impressionante. A partire dagli anni venti, non abbiamo riviste, giornali, carte, verbali di organizzazioni indipendenti (sindacati, associazioni religiose, professionali, culturali ecc.). Studiare l’urbanizzazione dei contadini a Mosca è così molto più difficile che studiare quella dei contadini dell’Italia meridionale o della Polonia a New York, con la loro stampa, le loro mille forme associative, i loro rapporti con i luoghi di provenienza ecc. Da questo punto di vista, è possibile dire che l’eredità documentaria del sistema sovietica è ben più totalitaria (o meglio statista) della sua vita reale: anche i contadini russi o ucraini hanno infatti pensato, agito, bestemmiato, proprio come i loro confratelli calabresi, ma della loro attività ci è rimasto molto di meno, al di là delle tracce lasciate nei già ricordati rapporti di polizia.Se la povertà delle carte di produzione non statale è forse la caratteristica principale degli archivi ex-sovietici, una caratteristica che rende la storia sociale molto difficile, se non impossibile, lo stile e l’ideologia burocratici che pervadono i documenti di cui quegli archivi sono pieni rappresentano un’altra delle radici della progressiva degenerazione di un regime sempre meno capace di guardare in faccia la realtà. La burocrazia sovietica ha infatti toccato forse il vertice di quel problem-free discourse e del ricorso sistematico agli eufemismi (le carestie del 1932-33 e del 1946-47, coi loro milioni di morti, diventano per esempio sempre “difficoltà alimentari”), tipico di tutti sistemi burocratici. Dietro questa estremizzazione di un comportamento comune vi è stata certo la paura scatenata da un despota che era arrivato ad annullare un censimento e a far fucilare gli statistici che lo avevano realizzato perché le cifre trovate non corrispondevano a quelle da lui vantate nei discorsi ufficiali, ma ha contato di sicuro, specie dopo il 1953, anche la naturale predisposizione dei burocrati, e l’Urss di Brežnev è stato il paradiso dei burocrati, per questo tipo di linguaggio.All’origine, l’incapacità di leggere la realtà dipese anche dall’adozione di una rozza versione del marxismo, nel cui segno vennero prodotti una gran quantità di documenti, compresi i rapporti della polizia politica. Le sue categorie, estranee alle vicende russe e sovietiche, costituirono una potente lente deformante sin dall’inizio, quando pure il marxismo bolscevico era ancora un’ideologia viva (diciamo fino al 1928-29). I problemi si fecero poi sempre più gravi a causa della sua rapida ossificazione (che non vuol dire affatto perdita di importanza). La ripetitività delle formule, il ricorso a stereotipi obbligatori per interpretare una società in rapido cambiamento divennero la regola. La presenza di un’ideologia ufficiale poco adatta alla realtà, e le cui promesse non potevano tra l’altro essere mantenute, contribuì così alla separazione crescente tra discorso ufficiale e realtà.Gli ultimi due fattori presi in considerazione rappresentano altrettante radici della già ricordata e più generale “stoltificazione” crescente del sistema sovietico e delle fonti che ci ha lasciato, un sistema i cui leader credettero sempre di più alle loro bugie, o meglio si identificarono progressivamente con esse, anche per seppellire sotto la loro coltre un realtà che si preferiva non conoscere. Ripercorrendo l’evoluzione dei documenti sovietici non si può non essere colpiti dalla graduale contaminazione anche dei rapporti segreti, ad uso strettamente interno, da parte della menzogna ufficiale. Specie dopo la morte di Stalin, la propaganda di stato si trasformò così nella verità, anche privata, del regime. Quando dopo il 1991 Solženicyn chiese di vedere i verbali delle riunioni segrete in cui era stata decisa la sua espulsione rimase stupefatto di fronte a documenti che non erano molto diversi dagli articoli a suo tempo pubblicati dalla Pravda [13] . Si è formata così un’altra trappola “documentaria”, per certi versi simile a quella già descritta parlando del realismo socialista, in cui potrebbero cadere storici attratti dall’idea di aver finalmente di fronte le carte più segrete, ma non per questo più vere, del regime. Se i dati demografici prodotti nel corso degli anni paiono nel complesso affidabili, una volta ricostruite le manipolazioni cui erano sottoposti (come nel caso della mortalità infantile), quelli economici pongono problemi particolari e forse insormontabili. Non si tratta in questo caso solo di bugie pubbliche, come quelle relative alla crescita del reddito nazionale, o di falsificazioni private, come quelle prodotte da migliaia di imprese di stato per ottenere più risorse o crearsi dei margini di manovra in nero, falsificazioni poi entrate anche nei piani e nei dati riservati, la cui affidabilità era alla fine talmente scarsa da spingere i riformatori sovietici ad appoggiarsi sulle analisi della CIA, che pure presentavano molti problemi [14] . Non si tratta nemmeno dell’incapacità teorica di cogliere fenomeni come l’inflazione nascosta, o di quella formale di prendere in considerazione l’area dell’economia illegale. E neppure degli effetti, pur rilevanti, delle lacune teoriche del marxismo, come il rifiuto, solo lentamente e mai completamente superato, a prendere in considerazione, nel calcolo economico, anche il prezzo del capitale e della natura (ricordiamo che per Marx solo il lavoro creava ricchezza). Il problema più grave è appunto nella irrilevanza per motivi di principio –colta da Mises sin dal 1922– di quello stesso calcolo economico, fondato su prezzi non significativi e quindi incapace di fornire un’immagine, anche approssimata della realtà. Siamo qui di fronte al cuore della fragilità di lungo periodo del sistema e ad una delle cause fondamentali del suo collasso, che nel nostro caso si traduce in una documentazione economica non solo priva di senso, ma da cui è forse impossibile, per ragioni appunto teoriche, derivare un qualche senso anche col senno di poi (di recente i costosissimi e elaboratissimi sforzi occidentali di ricostruire, a partire dai dati sovietici, la “verità” sullo stato e l’andamento dell’economia sovietica sono stati riassunti nell’efficace formula trash-in, trash-out) [15] . E’ perciò impossibile “adorare” gli archivi e i materiali che essi contengono. E i problemi si complicano se ricordiamo anche ciò che essi non contengono, e la cui assenza pesa sulla nostra capacità di ricostruire la storia sovietica.Non si tratta solo della già menzionata pochezza di fonti di produzione autonoma (non statale), che rende così difficile fare una storia sociale, “dal basso”, del periodo sovietico, una difficoltà che varia grandemente a seconda del periodo che si intende studiare. A mancare è, per definizione, tutta la documentazione legata a pratiche e decisioni che il potere riteneva illegali in base ai suoi stessi criteri. Non credo sapremo mai se Stalin ha ordinato la falsificazione dei risultati delle elezioni per il comitato centrale al XVII congresso del 1934, o ha commissionato l’omicidio Kirov (mentre sappiamo benissimo come e perché si decise di uccidere a Katyn migliaia di ufficiali polacchi). E difficilmente troveremo le registrazioni delle conversazioni telefoniche dei leader bolscevichi, che pure sappiamo Stalin mise illecitamente in piedi sin dagli anni Venti (abbiamo invece le trascrizioni di conversazioni regolarmente approvate, come quelle tra Brežnev e Jaruzelski durante la crisi polacca [16] ).Non abbiamo inoltre documenti relativi al lato informale della gestione del potere. Ma sappiamo che già nel 1923 le riunioni ufficiali del Politbjuro erano precedute da riunioni informali, senza Trockij, che erano però quelle in cui si discuteva davvero e si prendevano le decisioni. Pare che di queste riunioni si tenesse persino una documentazione ufficiosa parallela, poi scomparsa. Alla fine degli anni Venti, incontri dello stesso tipo si tenevano senza la “destra”, e col tempo la preferenza di Stalin per la gestione informale del potere si fece sempre più netta: sulle riunioni nell’ufficio di Stalin e sulle serate a casa sua non abbiamo quasi nulla, eppure le sole Conversazioni con Stalin di Gilas sono sufficienti a farci capire la loro enorme importanza. Abbiamo pochissime testimonianze anche sulle discussioni private ad alto livello tra i dirigenti del partito. La notevole eccezionale di fine 1928, relativa agli incontri tra oppositori vecchi e nuovi e i loro compagni passati nelle file degli stalinisti, ce ne fa capire la straordinaria importanza ed è lecito pensare che, per esempio, anche gli anni tra il 1953 e il 1958 siano stati ricchi di incontri di questo tipo. Qualche registrazione, anche se eccezionale, della polizia politica non basta infine a supplire le sole indiscrezioni giornalistiche, così diffuse in occidente e da cui –sia pure con molti granelli di sale– è possibile farsi almeno un’idea dello stato d’animo privato di questo o quel gruppo dirigente [17] .Anche sulle “voci”, la cui grande importanza in regimi retti da domini personalistici è ben nota, abbiamo ben poco. Eppure di voci si nutrivano persino i membri del comitato centrale lontani da Mosca. Qualcosa, anche in questo caso, è possibile trovarla nelle fonti private (diari, memorie ecc.), ma abbiamo già visto come, con la rilevante (ma in fondo deludente) eccezione di Dimitrov (e quella retrospettiva di Chruščev), gli anni Trenta e Quaranta siano avare di questi documenti [18] .Possono essere infine ricordate le distruzioni subite dal patrimonio archivistico. Alcune di esse, come l’incendio provocato dalla guerra che mandò in fumo gran parte delle carte del commissariato all’Industria pesante, rendendo molto difficile una soddisfacente storia dell’industrializzazione, o come le distruzioni ordinate nell’estate 1941 per paura dei tedeschi, quando fu portato via da Mosca solo l’essenziale e bruciato il resto, non sono affatto tipiche del sistema sovietico. Altre però hanno direttamente a che fare con la sua natura: pensiamo all’ondata di distruzioni di archivi privati nel 1936-38, scatenata sia dalla paura delle purghe che dalle perquisizioni della polizia politica, o alla “purga” permanente cui pare Stalin sottoponesse il suo archivio personale, che è perciò un insieme estremamente problematico, o ancora alle distruzioni ordinate dopo il 1953 (quella delle carte più compromettenti raccolte da Berija, per esempio), o ancora quelle causate dalla destalinizzazione, che portò molti degli stalinisti a disfarsi di quanto poteva essere ritenuto imbarazzante (è per esempio quasi certo che le lettere di Stalin lasciate da Molotov agli archivi siano state convenientemente filtrate). Il 1989-91 costituisce da questo punto di vista una felice eccezione: il collasso fu allora così veloce e imprevedibile da impedire distruzioni massicce, se non forse al KGB, ma sappiamo che persino qui la situazione era tale da permettere a ex dissidenti come Bukovskij di fare fotocopie con l’autorizzazione del ministro degli Interni.

2. La rinascita storiografica: cosa sappiamo di nuovo

Malgrado tutto ciò, la risposta alla domanda di uno dei discussant, se sia cioè possibile sostenere che abbiamo oggi i materiali necessari ad una nuova storia sovietica, è tutto sommato positiva. La necessaria coscienza dei suoi problemi, non può farci scordare né l’estrema ricchezza della documentazione ora disponibile, né l’eccezionale impulso dato dalla sia pur relativa apertura degli archivi dopo il 1991 alla rinascita, inattesa e per qualche anno passata sotto silenzio, della storiografia russa, ucraina ecc., nonché al mutamento di direzione e spirito nella ricerca occidentale, che ha comunque rapidamente perso il suo primato. Due bei libri forniscono un panorama ormai già un po’ invecchiato di quella rinascita [19] , che si è basata proprio sulla pubblicazione, certo non sempre criticamente ineccepibile ma direi nel complesso di eccellente livello, di documenti inediti. Per dare un’idea delle dimensioni del fenomeno, possiamo ricordare che un’ottima bibliografia della pubblicazione di fonti sulla storia russa e sovietica del XX secolo sulle sole riviste tra il 1985 e il 1986 riporta più di 3000 voci. E un interessante, anche se parziale e provvisorio, elenco dei volumi composti da documenti inediti, compilato nel 1998, già comprendeva quasi 300 titoli [20] . Vale la pena di aggiungere che storici e istituzioni italiane hanno avuto una parte attiva e non marginale in questo fenomeno: l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, la Fondazione Feltrinelli, la Fondazione Gramsci, l’Istituto Universitario Orientale hanno sostenuto la pubblicazione di raccolte di grande interesse, alla cui cura hanno collaborato studiosi russi e italiani di più generazioni [21] .I temi toccati sono stati i più diversi, ma con concentrazioni significative su alcuni filoni. Su di essi tornerò dopo aver affrontato una questione cruciale, che è stata assai dibattuta: cosa è cambiato, e quanto, e come nella nostra conoscenza della storia sovietica dopo il 1991? Studiosi seri e importanti, con posizioni diverse, come Richard Pipes e Nicolas Werth, sono stati uniti dallo scetticismo nella valutazione dell’impatto della nuova documentazione. Certo, si è sostenuto, non mancano gli elementi nuovi, ma nelle grandi linee si sapeva già molto, anche perché –e l’argomento è solido– nel XX secolo, coi suoi milioni di rifugiati, emigrati, oppositori, pubblicazioni, testimonianze ecc., era impossibile non sapere. Al massimo si poteva decidere di non voler ascoltare. C’erano inoltre, si aggiunge, documenti e testimonianze di grande importanza la cui accuratezza è stata in seguito confermata, sulla collettivizzazione e la carestia, il terrore e il lavoro forzato, l’industrializzazione e la lotta all’interno del partito. Tutto ciò è vero. Ma non solo queste voci spesso non erano ascoltate: specie per il periodo successivo alla Nep (ché tanto per quest’ultima che per la guerra civile la situazione era diversa) esse componevano un quadro pieno di macchie bianche e dal disegno incerto, a tratti anche ingannevole, e comunque ritratto dall’esterno. In altre parole, cosa e come sapevano coloro che a quelle testimonianze prestavano orecchio? L’esistenza e la sostanza dei grandi fenomeni era loro ben nota, certo, e corretto era il giudizio che su di essi potevano esprimere. Dalla esattezza di questo giudizio è anzi in larga parte dipesa, credo, quella sensazione del “già sapevamo” che ha unito i migliori tra gli storici dell’Urss attivi prima del 1991. Ma –ad eccezione forse della collettivizzazione– le dimensioni, le dinamiche e le meccaniche anche degli eventi più importanti restavano, anche nei casi migliori, incerte, e abbondavano pur intelligenti speculazioni, basate su documentazione incompleta e talvolta errate. C’erano poi i casi in cui non sapevamo quasi nulla: pensiamo alle perdite sovietiche nei vari conflitti in cui l’Urss era stata coinvolta, alla storia delle bomba atomica sovietica, a quella del complesso militare-industriale, ai rapporti al vertice del partito negli anni Trenta, ora illuminati dalla corrispondenza di Stalin con Molotov e Kaganovič, ecc. La ricchezza, e la forza, delle nuove acquisizioni, che ci hanno permesso di riempire gran parte delle macchie bianche, costretto a ridisegnare contorni che parevano acquisiti, dato il colore per rendere il quadro più vivo, vedere dall’interno come esso si è formato, ecc., sono quindi indiscutibili [22] .Da esse deriva tra l’altro un situazione insieme triste e paradossale, che vede alcuni di coloro che avevano avuto la freddezza e il coraggio necessari ad ascoltare le fonti “non convenzionali” oggi accusati di aver fornito stime “esagerate”, e quindi di aver sbagliato, da chi in precedenza quelle fonti non aveva saputo o voluto intendere (accenneremo poi alle polemiche su lavoro forzato e entità della repressione). Insomma, chi aveva avuto sostanzialmente e moralmente ragione, è finito col trovarsi dalla parte del “torto” in polemiche spesso amare che hanno preso il posto di quelle tra chi negava e chi affermava l’esistenza e la sostanza di certi eventi. In esse i primi criticano con gusto i dati –talvolta esagerati proprio perché basati sui resoconti delle vittime (ma la carestia del 1932-33 è stata sottovalutata anche da queste ultime)– di chi prima aveva lottato per affermare la verità.Per giudicare dell’importanza delle nuove fonti la cosa migliore è comunque guardare ai risultati che esse hanno permesso di raggiungere, ai problemi “risolti” o impostati su nuove basi. Quello che segue è poco più di un semplice elenco illustrativo, completato in nota da qualche indicazione bibliografica, e desunto anche dalla lettura delle bibliografie citate in precedenza (come al solito ho tenuto fuori la politica estera, su cui i passi in avanti sono stati forse ancora più straordinari, specie per quel che riguarda la storia della guerra fredda) [23] . A questo elenco farò poi seguire una breve ma più approfondita discussione di alcune delle sue voci, per mostrare più da vicino e dall’interno come e quanto si sono modificate le nostre conoscenze. Prima di cominciare, ricordo che la preponderanza nell’elenco degli anni Trenta non dipende solo dal fatto che è il periodo di cui so personalmente di più. Credo infatti sia oggi possibile dire a proposito di questo decennio terribile ciò che non potevamo dire ieri, vale a dire che lo “conosciamo”, anche se le virgolette sono indispensabili. La frontiera della ricerca storica si è quindi spostata in avanti: i lavori sulla seconda guerra mondiale e il dopoguerra sono già in pieno svolgimento, e cominciamo a conoscere meglio gli anni di Chruščev, mentre quelli di Brežnev restano ancora relativamente inesplorati. Paradossalmente, la situazione è migliore per gli anni della perestrojka, per cui vi sono fonti eccezionali e su cui si è accentrato per anni l’interesse dell’opinione pubblica e degli studiosi, producendo una massa di conoscenze, riflessioni, idee e ipotesi interprative che, se pure ancora non ci soddisfano pienamente, sono incomparabilmente più ricche di quanto è a nostra disposizione per i periodi precedenti.L’elenco di cui parlavo, per quanto incompleto, può cominciare con le macchie bianche che sono state riempite in questi anni: dalle grandi rivolte contadine della guerra civile, come l’Antonovščina, ai massacri di Katyn’, dalla documentazione sovietica sul patto Molotov-Ribbentrop (su cui naturalmente disponevamo già delle fonti tedesche) alla costruzione della bomba atomica e della rete spionistica che la rese più facile, dagli ordini segreti che prepararono la dekulakizzazione e il terrore, alla sorte di tanti intellettuali, scrittori, poeti, scienziati scomparsi nelle purghe, dall’elenco ragionato dei condannati per motivi politici dal 1953 al 1991 ai documenti della censura [24] .Rispetto alla questione nazionale, al pionieristico libro di Pipes sulla guerra civile, si sono aggiunti lavori importanti, che ne hanno ricostruito peso e evoluzione negli anni Venti e Trenta, in generale come nel bel An Affirmative action empire di Terry Martin, o in “regioni” particolari, dall’Asia Centrale degli anni Venti, vero e proprio laboratorio per la “creazione” di nazionalità descritto da Hirsch e Cadiot, ai piccoli popoli del Nord, raccontati da Slezkine [25] .L’importanza cruciale delle campagne nella prima fase della storia sovietica (ricordiamo che la popolazione urbana superò in Urss quella contadina solo sul finire degli anni Cinquanta) si è riflessa nella pubblicazione di collezioni documentarie e di studi di grande valore, come i volumi dedicati ai rapporti della polizia politica sui villaggi, che hanno illuminato il rapporto stato-contadini nel periodo prebellico in Russia e Ucraina, ma anche nell’Asia centrale travolta dalla tragedia della denomadizzazione. Di recente nuovi studi e nuove collezioni hanno cominciato ad affrontare l’enorme problema della vita e dell’evoluzione delle campagne collettivizzate, tornate fino alla morte di Stalin, secondo il parere unanime dei loro abitanti, a vivere una “seconda servitù” [26] . L’attenzione non si è però concentrata sulla sola “opinione” rurale. Nuovi studi e nuovi documenti hanno affrontato lo studio delle opinioni urbane, operaie, degli intellettuali, pubblicando volumi che raccolgono i rapporti della OGPU a Stalin sullo stato del paese, selezioni di lettere trovate negli archivi di giornali e riviste, così come nei fondi dei leader sovietici cui ci si rivolgeva per chiedere questa o quella grazia. Il valore di questi lavori è purtroppo talvolta viziato da un’ingenuità che non riesce a distinguere tra fonte davvero autonoma e fonte prodotta per lo stato e spesso (come nel caso delle lettere ai giornali) a seguito di campagne lanciate dallo stato. Nondimeno resta intatto l’interesse e la novità dei materiali riportati alla luce [27] .Grandi passi avanti sono stati fatti nella conoscenza del gruppo dirigente, dei suoi rapporti interni e dei suoi metodi lavoro, soprattutto negli anni Trenta, prima avvolti da un’oscurità che aveva favorito il diffondersi di voci che oggi sembrano leggende, ma anche negli anni del dopoguerra e di Chruščev (cui Taubman ha dedicato una importante biografia), fino agli ampi squarci sul lavoro del Politbjuro negli anni Settanta e Ottanta aperti dai già ricordati documenti emersi negli anni della crisi del regime [28] . Interessanti sono i progressi compiuti anche nello studio della politica economica, specie, ma non solo negli anni della Nep, le cui crisi, da quella del 1923, a quella finale causata dalle politiche staliniane, sono state illuminate da nuova luce grazie per esempio alla pubblicazione dei verbali dei plenum, finora segreti, del Comitato centrale, e a ricerche condotte sulla politica monetaria e finanziaria [29] .Anche gli studi della struttura e dell’evoluzione dei consumi nel periodo staliniano, soprattutto in ambiente urbano, hanno consentito di mettere a fuoco fenomeni di cui si conosceva l’esistenza, ma poco di più: penso per esempio alla creazione di uno stupefacente sistema paracastale, che prese le mosse dal razionamento, ma si adattò poi al ritorno del “mercato” sovietico, attraverso la creazione di reti parallele di erogazione di prezzi e servizi, che rendevano di fatto plurale il valore della moneta, e cioè dell’unità di misura e contribuivano, di conseguenza, alla scarsa affidabilità dei dati economici, anche “riservati” [30] .Passando alle politiche repressive, nuove e sorprendenti sono state lo scoperte sulle origini e gli sviluppi del sistema del lavoro forzato e impressionante la mole della documentazione pubblicata sui suoi sviluppi [31] . Ma soprattutto impressionante è il progresso nello svelamento delle dinamiche e degli obbiettivi del grande “Terrore” del 1936-38, su cui tornerò tra breve [32] .Le pubblicazioni sulla seconda guerra mondiale e l’immediato dopoguerra ne confermano, anzi ne esaltano, le proporzioni di grande evento rivoluzionario, che ha cambiato l’intero quadro della storia sovietica e dell’Europa orientale con un impatto almeno pari a quello del 1914-1921. Anche in questo caso è possibile dire che molti documenti ci erano già noti: sulla rivista Studium del 1953 si può per esempio trovare un saggio sulle deportazioni in Lituania basato su quegli stessi decreti segreti della polizia politica la cui pubblicazione ha suscitato tanto interesse 40 anni dopo. Ma ciò non deve trarre in inganno: la quantità e la qualità della documentazione oggi disponibile, e degli studi che su di essa cominciano a basarsi è di ben altro livello, come provano per esempio i volumi sui prigionieri di guerra, sovietici e tedeschi, sulla situazione a Stalingrado, sulla fine della guerra in Ucraina occidentale e nel Baltico ecc. [33] .Anche la vita in Urss nel dopoguerra ci si presenta in una luce nuova: le speranze e la loro delusione, la carestia del 1946-47 e la ripresa della repressione, le deportazioni e le rivolte nel GULag, la drammaticità della condizione ebraica dopo il 1948, sono stati solo alcuni dei soggetti di pubblicazioni documentarie, di saggi e libri di novità e interesse notevoli [34] . Novità e interesse che caratterizzano anche gli studi dedicati agli anni immediatamente successivi, al caso Berija così come all’avvio dei processi di riabilitazione o ai plenum della lotta per la successione a Stalin [35] .Importanti studi, spesso basati su dati prima inaccessibili, sono stati anche dedicati all’evoluzione e alle dinamiche del reddito nazionale e della struttura demografica della popolazione sovietica. In particolare, di estremo interesse è il dibattito suscitato dal progressivo calo delle aspettative di vita della popolazione maschile, pare imputabile all’alcolismo, su cui torneremo [36] .Abbondantissime sono state infine le pubblicazioni dedicate agli intellettuali e alla loro tragica fine nelle purghe del 1928-31, del 1936-38, ma anche del secondo dopoguerra, i cui protagonisti sono spesso, ma non sempre, i maggiori scrittori e poeti sovietici [37] . L’elenco di temi e soggetti ed eventi su cui le nostre conoscenze si sono moltiplicate potrebbe essere allungato con poco sforzo. Ma credo che l’enormità delle nuove acquisizioni sia ormai chiara. Preferisco perciò a questo punto soffermarmi su alcuni dei punti appena menzionati per mostrare, anche se in modo frettoloso e schematico, quanto e in che senso si è modificato quel che sapevamo. Per far questo mi servirò dei rapporti della polizia politica sulle campagne, delle origini del lavoro forzato, della meccanica del grande “terrore” del 1936-38, e del gigantesco e drammatico impatto dell’alcolismo sulla vita sovietica.La pubblicazione di documenti e rapporti sulle campagne ha mutato profondamente l’immagine della guerra civile, portando in primo piano lo scontro tra nuovo stato e contadini e l’impopolarità “originaria” del primo (in questa prospettiva la già ricordata konspiracija ci appare anche difesa rispetto a verità scomode, che la menzogna ufficiale era chiamata a coprire). Questa impopolarità continuò a colorare anche i più pacifici anni della Nep, sfociati nella ripresa della guerra tra stato e campagne, di cui abbiamo ora un quadro finalmente preciso. Malgrado le polemiche, che pure continuano, il meccanismo di dekulakizzazione, collettivizzazione e carestie sembra ormai ben delineato, confermando quel che sapevamo dai documenti diplomatici o dalle testimonianze delle vittime, ma con ben altra profondità e ricchezza di dettagli. La forza e la pervasività della multiforme resistenza contadina è sorprendente, e ha sollevato più di un dubbio circa l’applicabilità della categoria di totalitarismo a questa fase della storia sovietica (può uno stato in lotta aperta con l’80% della sua popolazione, che rifiuta di accettarne le politiche e la legittimità, definirsi “totalitario”?). Anche la denomadizzazione comincia ad essere meglio compresa, mentre si è ancora poco riflettuto sulle conseguenze sociali e politiche, sia per la storia sovietica (con la rilevante eccezione dell’impatto della crisi agricola sulle politiche nazionali) che per quella complessiva dell’Europa, della tragedia delle campagne sovietiche. Per riassumere l’intera questione in un semplice quesito, che vogliono dire nel giudizio complessivo sul secolo europeo, e sull’esperienza sovietica, i cinque-sei milioni di morti per fame dei sette mesi tra il novembre 1932 e il maggio del 1933? L’esplorazione degli archivi comincia poi a fare luce sul significato e le implicazioni di quella che i contadini sovietici battezzarono la “seconda servitù”, e sulla sua lenta evoluzione nel dopoguerra, culminata nelle riforme brežneviane, che estesero per la prima volta alcuni benefici del piccolo “welfare” sovietico anche ai contadini. Le cose non sono ancora chiare, ma emerge con evidenza l’importanza della questione “colcosiana” tanto in fenomeni come la diffusione dell’alcolismo (e la conseguente crisi demografica), quanto sul piano ideologico (pensiamo al peso della scuola letteraria “contadina”) o politico (una parte importante del riformismo sovietico, dalla Zaslavskaja a Gorbačev risulta essere in qualche modo legata alla situazione delle campagne).Prima dell’apertura degli archivi, la nascita del sistema del lavoro forzato, di cui pure era noto il legame con la dekulakizzazione, era spiegata in termini prevalentemente ideologici. Il ruolo dell’ideologia non è del tutto scomparso, ma vediamo oggi con precisione che altri fattori hanno determinato l’emergere nel 1929 di qualcosa di molto diverso dalla “redenzione attraverso il lavoro”, alla quale pure Gor’kij cercò in un primo tempo di aggrapparsi, e dal legame tra piano e disponibilità totale della forza lavoro da parte dello stato, proclamata per esempio nel 1920 dal Trockij della militarizzazione. E’ la voglia di “esserci”, di contare anche in campo economico, ormai al centro delle preoccupazioni del regime, che porta l’OGPU nel 1929 a proporre l’uso sistematico del lavoro dei prigionieri. Si trattava però di poche decine di migliaia di persone. Il salto venne dalla dekulakizzazione, e precisamente dallo scandalo suscitato anche nel partito dalle decine di migliaia di bambini, e adulti, morti di fame e di stenti nei treni dei deportati, treni che, nella generale penuria dei rifornimenti, nessuna autorità locale accettava di accogliere e si trascinavano così col loro carico umano fino ad essere talvolta scaricati nel mezzo del nulla. Lo scandalo portò alla nomina di una commissione dell’Ufficio politico che, si potrebbe paradossalmente dire “a fin di bene”, decise di affidare i “deportati speciali” alla polizia politica, ritenuta l’unica organizzazione in grado di gestirli con un minimo di efficienza e che si ritrovò così “padrona” di qualche milione di persone. I nuovi dati hanno anche fatto relativa chiarezza sui numeri e l’evoluzione quantitativa del fenomeno, mettendone in risalto la stretta dipendenza dalle campagne repressive, e la natura multiforme e piramidale (più che un arcipelago, il lavoro forzato ci appare oggi come una catena montuosa in gran parte sottomarina, di cui le isole del GULag rappresentano le vette emerse). I nuovi dati, benché certo non ancora risolutivi, e comunque relativi ad alcuni milioni di prigionieri, hanno anche portato alla paradossale evoluzione delle vecchie polemiche cui si accennava. Di grandissimo interesse sono infine i già menzionati materiali sulla crisi del sistema dopo il 1945, fino alle grandi rivolte del 1952-54, che ci riportano al peso della questione nazionale e della problematicità delle annessioni –un boccone molto difficile da digerire– attuate dopo il patto Molotov-Ribbentrop, e ripetute dopo la vittoria.Radicalmente cambiata è anche la nostra conoscenza del grande “terrore”, dei processi e delle purghe del 1936-38. Eravamo abituati a pensare purghe dirette soprattutto contro il partito e i ceti dirigenti, ad un processo almeno all’apparenza tanto caotico da far nascere ipotesi sul suo sfuggire al controllo del centro, ad identificare i processi-spettacolo col terrore, ad immaginarci vittime pronte a volte ad accettare la propria sorte in nome del partito. Abbiamo scoperto che processi e terrore, certo strettamente intrecciati (e anzi la natura di questi legami non è ancora stata chiarita), sono stati però due operazioni diverse; che il grande terrore, cominciato nel luglio 1937, è stata opera razionale, ancorché paranoica e terribile, basata su operazioni di massa che prendevano a bersaglio, con operazioni di chirurgia sociale ed etnica preventiva, categorie e gruppi specifici, i cui membri venivano colpiti in quanto tali; che tra questi gruppi quelli di estrazione popolare (gli ex kulak, gli ex condannati a pene superiori ai tre anni, i membri di questo o quel gruppo nazionale) rappresentavano la maggioranza dei colpiti. Ne sono scaturite domande sulla liceità stessa del termine “terrore” per interpretare un fenomeno che, almeno dal punto di vista del potere, era ispirato ad altre logiche, e ancora una volta sono sorti interrogativi riguarda la natura di un sistema che riteneva, a venti anni dalla presa del potere, di dover preventivamente fucilare circa 700.000 persone per ragioni di sicurezza.Di grandissimo rilievo sono i documenti e i dati relativi allo sviluppo dell’alcolismo, ed al suo legame con la crisi demografica. Naturalmente, sapevamo già del grande peso dell’alcol nella storia e nel bilancio statale russo e sovietico. Ma il ruolo effettivo dell’alcol di stato, e dell’avvelenamento generale che ne è seguito, negli snodi cruciali e infine nella crisi terminale del sistema ci hanno lo stesso sorpreso. opo l’abolizione dell’originario proibizionismo rivoluzionario, cui si oppose il solo Trockij, la produzione, accompagnata da un aumento della gradazione deciso nel 1930, passò dai 22,4 milioni di barili nel 1926 ai 65 del 1931. Già nel 1930 l’alcol forniva metà delle entrate da accise ed era la fonte principale delle entrate statali. Nel 1932, subito prima della carestia, gli alcolici rappresentavano il 33-39% del venduto dei magazzini rurali dello stato (che erano poi gli unici negozi esistenti nelle campagne). L’anno successivo, in piena carestia, lo stato traeva dall’alcol un quinto delle sue entrate complessive. Per far fronte alle spese e alle follie di un’industrializzazione caotica e sperperatrice, lo stato sovietico si trasformò quindi in pusher di una merce letale, la cui vendita a caro prezzo a contadini affamati costituiva forse il maggior canale di “trasferimento” (ma sul lungo periodo si dovrebbe dire di distruzione) di risorse dalle campagne alla città. Dopo pochi anni di miglioramento, la situazione tornò al punto di partenza con la seconda guerra mondiale: se lo stato zarista nel 1914 aveva decretato il proibizionismo, quello sovietico trovò ancora una volta nell’alcol la sua principale fonte di reddito: la percentuale di vendite di alcolici sul totale del commercio (e occorre ricordare che la tassazione indiretta era di gran lunga l’entrata principale del bilancio) salì dal 12% del 1940 al 38% del 1945, quando la vodka forniva da sola un sesto del reddito statale.Solo nel 1950 si ritornò a percentuali simili a quelle del 1941. Ma il crollo delle speranze successive alla vittoria, i malumori e la miseria della seconda servitù, le discriminazioni anticontadine che continuarono malgrado le riforme di Malenkov e Chruščev, la perdita di senso della vita, nelle campagne prima di tutto, ma anche per vasti strati urbani, rappresentano altrettante radici della diffusione dell’alcolismo, e quindi del lento declino dell’attesa di vita maschili, che hanno marcato l’ultima terzo della storia sovietica. All’inizio degli anni Ottanta, tra le ragioni che facevano, e comprensibilmente, ritenere indispensabile una nuova stagione di riforme vi era il calo di quella attesa a poco più di 61 anni, rispetto ai 64 di 15 anni prima. Non a caso uno dei primi provvedimenti dei riformatori fu la ripresa del proibizionismo, che ebbe effetti immediati: nel 1984-87, gli “anni secchi”, l’attesa di vita maschile risalì, mentre crollava la percentuale dei suicidi e calava la criminalità, specie violenta. L’enorme buco nel bilancio dello stato, e l’altrettanto grande impopolarità delle misure proibizioniste, resero però presto impraticabile questa strada. La curva dell’attesa di vista maschile precipitò allora verso il basso, a recuperare il tempo perduto, toccando il fondo nel 1994, con 57,6 anni (da allora c’è stata una timida inversione di tendenza e si spera che i 58,6 anni di oggi –72 per le donne, a riprova che non di crisi del sistema sanitario si è trattato, visto che una crisi avrebbe colpito per primi i soggetti più “deboli”, come appunto le donne– diventino quasi 60 nel 2005, ma la nuova Russia continua a perdere poco meno di un milione di abitanti l’anno).

Conclusioni

L’impatto della rivoluzione archivistica sulla storia sovietica è stato quindi notevole. Da un lato essa ha riconsegnato a russi, ucraini, baltici ecc. il primato della ricerca sul loro passato, già appartenuto all’occidente. Dall’altro, ha trasformato l’immagine stessa di quella storia, che ha guadagnato in nitidezza e precisione, mentre si dissolvevano ipotesi infondate, riprendevano vita e spessore agli agenti umani e si illuminavano di nuova luce le dinamiche del mutamento, dandoci maggiore coscienza della rapidissima evoluzione del sistema. Quest’ultimo si è rivelato ancor più originale di quanto non avessimo prima supposto derivandone, in mancanza di meglio, le caratteristiche dai principi della sua ideologia, che pure abbiamo scoperto pesare eccome, anche se spesso in modi e forme inattesi. Questa evoluzione ha sempre conservato, sia pure mutandone il contenuto, il dualismo tra la terribile potenza del nuovo stato –che tutti eravamo stati costretti a vedere– e la fragilità delle sue basi, oggi illuminata dai nuovi dati sulla povertà e la durezza della vita, le proteste e le anomie sociali, il bassissimo livello culturale di leader, di cui pure non va sottovalutata l’intelligenza ecc. Anche l’impatto sull’interpretazione del XX secolo europeo, e quindi sulla storiografia occidentale, benché più tardo a venire, si preannuncia notevole. Con buona parte delle rappresentazioni mitologiche, spesso legate al movimento comunista, già in frantumi, la diffusione delle nuove conoscenze sta oggi progressivamente scavando il terreno su cui poggiano interpretazioni più serie, ma altrettanto infondate. Eppure, si potrebbe dire che siamo ancora all’inizio. In passato, lo sgretolarsi delle letture canoniche della rivoluzione russa e la scoperta del ruolo marginale della “classe operaia” si erano intrecciati alla crisi della storiografia classista in occidente. Oggi, l’emersione della centralità dello stato, della storia politica, del ruolo del fattore “personale” e di idee e mentalità nella storia sovietica è in rapporti altrettanto stretti con analoghi fenomeni occidentali. Certo, l’economia e le “classi”, o meglio i gruppi sociali, non sono affatto scomparsi dalla scena, ma sono piuttosto i contadini, le burocrazie, i ceti intellettuali e le nazionalità ad aver occupato il proscenio –un bel paradosso per un’ideologia e un regime che pretendevano di incarnare il pensiero “sociale” e tanta storia “sociale” hanno ispirato. Anche un vecchio e affascinante interrogativo, che ha preso forme diverse, per esempio nelle polemiche sulla natura “sociale” dell’Urss, trova oggi risposte nuove e più solidamente fondate. Nella storiografia americana esso sta dando vita ad nuovo dibattito sulla “modernità”, o il suo contrario, sovietiche, interessante ma forse troppo circoscritto [38] . Piuttosto, sono l’imprevedibilità e la terribilità stesse della storia sovietica, da questo punto di vista perfetta espressione di quelle del XX secolo, a costringerci ad abbandonare i vecchi schemi e a cercare nuove spiegazioni e rappresentazioni della storia e del comportamento umani. Questo mentre, col senno di poi, è il Novecento, e non il Settecento di Chabod, ad apparirci come il secolo del trionfo di quelle peculiari utopie in cui l’altrove immaginario (e desiderato) è sostituito da un altrove altrettanto desiderato ma identificato con realtà effettivamente esistenti ma di cui nulla si conosce, un esercizio di sostituzione e illusione di massa che pone a sua volta seri interrogativi sulla natura e l’evoluzione delle mentalità in un secolo e in paesi che pure si sono voluti moderni.Torna poi il problema delle categorie atte a interpretare la storia sovietica, e non solo, in primo luogo quella, già ricordata, del “totalitarismo”, la cui inadeguatezza appare, almeno a chi scrive, sulla base delle nostre nuove conoscenze, sempre più evidente [39] .Vi è infine la questione dell’impatto nel nostro paese del “nuovo mondo” che gli storici dell’Urss vanno scoprendo. Che giudizi esso porta a dare dell’evoluzione e delle correnti della nostra storiografia ? Quanta parte ne fa diventare caduca ? Sono domande cui non è ancora possibile rispondere, ma che vanno poste, e rimandano alla parabola paradossalmente (visto il peso formale di cattolicesimo e comunismo) provinciale della contemporaneistica italiana nel secondo dopoguerra, ai suoi legami, di cui si fa cenno nell’introduzione alla sessione, con il passato fascista, la sconfitta, il riposizionamento internazionale dell’Italia e i tabù, spesso travestiti da sicurezze ideologiche, che ne sono scaturiti. Per lunghi anni questi si sono incarnati (so benissimo di stare esagerando, ma credo sia un’esagerazione almeno in parte giustificata) in una quantità di studi su camere del lavoro, comuni, parrocchie e fasci, assunti a simboli del mondo, ma in realtà quasi sempre privi di agganci con la grande storia e le sue questioni. Anche da questo punto di vista, il convegno che la Sissco ha voluto promuovere appare giusto e necessario, e lo sarà tanto di più quanto più ci aiuterà a far tornare il mondo nella nostra storiografia.


[1] Questo testo doveva essere pubblicato insieme agli altri atti del Convegno Sissco 2002 in A. Giovagnoli e G. del Zanna (a cura di), Il mondo visto dall’Italia, Milano, 2004, ma a seguito di un errore dei curatori la cosa non è avvenuta.

[2] Mi baserò sul mio “The New Soviet Archival Sources: Hypotheses for a Critical Assessment”, in Archives et nouvelles sources de l’histoire soviétique. Une re-évaluation, numero speciale dei Cahiers du monde russe, 1-2, 1999, pp. 13-64, al quale rinvio per maggiori dettagli.

[3] Cfr ora A. Graziosi, Introduzione, in Giovagnoli e del Zanna (a cura di), Il mondo visto dall’Italia, pp. 325-328.

[4] Cfr per esempio il progetto diretto da V.P. Danilov Sovetskaja derevnja glazami VČK-OGPU-NKVD, 1918-1939 [La campagna sovietica agli occhi del VČK-OGPU-NKVD], presentato in , “Les documents de la VČK-OGPU-NKVD sur la campagne soviétique, 1918-1937”, Cahiers du monde russe, 3 (1994); Ju. Šapoval et al. (a cura di), ČK-HPU-NKVD v Ukraïni: osoby, fakty, dokumenty [La polizia politica in Ucraina: uomini, fatti, documenti], Kyïv, 1997; G. Sevostjanov et al. (a cura di), “Soveršenno sekretno” : Lubjanka-Stalinu o položenii v strane (1922-1934 gg) [“Segretissimo”: dalla Lubjanka a Stalin sulla situazione nel paese], Mosca, 2001; Ja.F. Pogonij (a cura di), Stalingradskaja epopeja, Mosca, 2000; R. Garthoff, “The KGB reports to Gorbachev”, Intelligence and National Security, 4, 1996.

[5] V. Boukovsky, Jugement à Moscou. Un dissident dans les archives du Kremlin, Paris, 1995; La collezione Volkogonov, con più di 10.000 documenti, spesso ancora inaccessibili, da vari archivi è in copia alla Library of Congress e all’Harvard Cold War Studies Project. Cfr D.A.Volkogonov, A register of his papers in the Library of Congress, Washington, D.C. 1996; R.G. Pichoja, Sovetskij sojuz: istorija vlasti, 1945-1991 [L’Unione sovietica: storia del potere], Mosca, 1998; A. Chernyaev, My six years with Gorbachev, University Park, 2000; A.N. Jakovlev, Sumerki [Crepuscolo], Mosca, 2003; gli archivi della Fondazione Gorbačev, http://www.gorby.ru/, liberamente accessibili.

[6] S. Kotkin, Armageddon averted: the Soviet collapse, 1970-2000, Oxford, 2001, o le appena citate memorie di Černjaev.

[7] N. Bucharin, “Prosti menja Koba” [Perdonami Koba], Istočnik, 0, 1993; Ju. Fel’štinskij, “Dva epizoda iz istorii vnutripartinnoj bor’by” [Due episodi nella storia della lotta nel partito], Vorposy istorii, 2 e 3, 1991; D. Volkogonov, Autopsy for an empire: the seven leaders who built the Soviet regime, New York, 1998, p. 97.

[8] N.S. Čhruščev, Vospominanija –vremja, ljudi, vlast’ [Ricordi: tempi, uomini, potere], 4 vols., Mosca, 1999, ma anche P. Šelest, G. Šachnazarov, E Ligačev, et al.fino agli stessi Gorbačev e El’cin. Un elenco di queste memorie è nel syllabus del mio corso Soviet Decline and Collapse through Memoirs and Autobiographies, 1964-1991, Harvard University, 2003, http://www.courses.fas.harvard.edu/%7Ehist1520/.

[9] A.A. Fursenko (a cura di), Prezidium CK KPSS, 1954-1964 [Il Presidium del CC del KPSS], tom I, Mosca, 2003.

[10] T. Martin, An affirmative action empire: nations and nationalism in the Soviet Union, 1923-1939, Ithaca, N.Y., 2001.

[11] S. Kotkin, Magnetic Mountain: Stalinism as a civilization, Berkeley, 1995; A. Graziosi, “Stalin’s Antiworker ‘Workerism’, 1924-31”, International Review of Social History, 2, 1995, ora in A New, Peculiar State. Explorations in Soviet History, 1917-1937, Wesport, CT, 2000.

[12] A. Livšin et al. (a cura di), Pis’ma vo vlast’ [Lettere al potere], 1917-27 e 1928-39, Mosca, 1998 e 2002; M. Lenoe, Mobilizing the labor front: newspapers, society and the origins of Stalinist culture, 1922-1932, Cambridge, Mass., 2004.

[13] M. Scammell (a cura di), The Solzhenitsyn files, Chicago, 1995.

[14] G.I. Chanin, Dinamika ekonomičeskogo razvitija SSSR [Dinamica dello sviluppo economico dell’Urss], Novosibirsk, 1991, su cui cfr M. Harrison, “Soviet economic growth since 1928 : the alternative statistics of G.I. Khanin”, Europe-Asia studies, 1, 1993. Molti degli studi della CIA sono stati declassificati e sono disponibili su http://www.foia.cia.gov. Cfr anche G.K. Haines, R.E. Legget, eds., CIA’s analysis of the Soviet Union 1947-91, Washington, DC, 2001,http://www.cia.gov/csi/books/princeton/index.html.

[15] Cfr il mio “The New Soviet Archival Sources”, cit. Una ricostruzione delle polemiche Jasny-Bergson è in J.H. Wilhelm, “The failure of the American sovietological economics profession”, Europe-Asia Studies, 55, 1 (2003).

[16] M. Kramer, “Soviet Deliberations during the Polish Crisis, 1980-81”, CWIHP, Special Paper no. 1; moltissimi, e interessantissimi, documenti sono stati pubblicati sul Bulletin del CWIHP ricordato nel testo.

[17] Fel’štinskij, “Dva epizoda”, cit.; Stalin’s Letters to Molotov, 1925-1936, New Haven, 1995; The Stalin-Kaganovich Correspondence, 1931-1936, New Haven, 2003; E. Zubkova, Quando c’era Stalin, Bologna, 2003, p. 111.

[18] G. Dimitrov, Diario: gli anni di Mosca (1934-1945), a cura di S. Pons, Torino, 2002.

[19] G.A. Bordjugov (a cura di), Istoričeskie issledovanija v Rossii. Tendencii poslednych let [Ricerche storiche in Russia. Tendenze degli ultimi anni], Mosca 1996 e G.A. Bordjugov e K. Ajmermacher (a cura di), Nacional’nye istorii v sovestkom i postsovetskich gosudarstvach [Storie nazionali negli stati sovietici e post-sovietici], Mosca 1999.

[20] I.A. Kondakova, Otkrytyj archiv. Spravočnik opublikovannych dokumentov po istorii Rossii XX veka, 1985-1996 [Archivio aperto. Guida ai documenti pubblicati nel 1985-96 sulla storia russa del XX secolo], Mosca, 1999; P.A. Blitstein, “Selected bibliography of recent published document collections”, in Cahiers du monde russe, 1-2, 1999.

[21] Si possono ad esempio ricordare G. Procacci et al. (a cura di), The Cominform. Minutes of the three conferences, 1947/1948/1949, Milano, 1994; G. Adibekov et al. (a cura di), Politbjuro CK RKP(b)-VKP(b) i Evropa. Rešenija “osoboj papki”, 1923-1939 [Il Politbjuro e l’Europa. Le risoluzioni del “fascicolo speciale”], Mosca, 2001; A. Romano, Nonna Tarchova (a cura di), Krasnaja armija i kollektivizacija derevni []L’Armata rossa e la collettivizzazione delle campagne], Napoli, 1996; e i 14 volumi della collezione Dokumenty sovetskoj istorii, fondata da Franco Venturi.

[22] G.F. Krivosheev (a cura di), Soviet casualties and combat losses in the twentieth century, London, 1997; L.D. Rjabev (a cura di), Atomnyj proekt SSSR, 1938-54 [Il progetto atomico sovietico], 2 voll., Mosca, 1998-1999; P. Sudoplatov, Incarichi speciali, Milano, 1994; A.D. Sacharov, Memorie, Milano, 1990; le già citate lettere di Stalin a Molotov e Kaganovič; I.V. Bystrova, Voenno-promyšlennyj kompleks SSSR v gody cholodnoj vojny [Il complesso militare industriale negli anni della guerra fredda], Mosca, 2000.

[23] M. Kramer, “The early post-Stalin succession struggle and upheavals in East-Central Europe”, Journal of Cold War Studies, 1-3 (1999); Id., “The Soviet Union and the 1956 crises in Hungaryand Poland”, Journal of contemporary history, 2 (1998); Id., “Brežnev e l’Europa orientale”, Storica, 22 (2002); G.P. Muraško et al. (a cura di), Vostočnaja Evropa v dokumentach rossijskich archivov, 1944-1953 gg. [L’Europa orientale nei documenti degli archivi russi, 1944-53], 2 voll., Novosibirsk, 1997-98; T.V. Volokitina et al. (a cura di), Sovetskij faktor v vostočnoj Evrope, 1944-1953 [Il fattore sovietico nell’Europa orientale], 2 voll., Mosca, 1999;C. Békés, M. Byrne, J.M. Rainer, The 1956 Hungarian Revolution: a history in documents, Budapest, 2002; A.I. Gribkov, W.Y. Smith, Operation ANADYR: U.S. and Soviet generals recount the Cuban missile crisis, Chicago, 1994; il già ricordato Bulletin del CWIHP ecc.

[24] Per fare solo qualche esempio, oltre quelli citati nelle note precedenti: V.P. Danilov, T. Šanin (a cura di), Krest’janskoe vosstanie v Tambovskoj gubernii v 1919-1921 gg. “Antonovščina” [L’insurrezione contadina nel governatorato di Tambov, 1919-21], Tambov, 1994; V. Zaslavsky, Il massacro di Katyn, Roma, 1998 (ma cfr anche R.G. Pichoja (a cura di), Katyn’. Plenniki neobljavlennoj vojny [Prigionieri di una guerra non dichiarata], Mosca, 1997); V.A. Kozlov et al. (a cura di), 5810. Nadzornye proizvodstva prokuratury SSSR. Mart 1953-1991 [L’articolo 5810 (quello usato per perseguitare i dissidenti)], Mosca, 1999; T.M. Gorjaeva et al. (a cura di), Istorija sovetskoj političeskoj cenzury, Moscow, 1997, ecc.

[25] R. Pipes, The Formation of the Soviet Union: communism and nationalism, 1917-1923; Martin, Affirmative action, cit.; F. Hirsch, “The Soviet Union as a work-in-progress: ethnographers and the category nationality in the 1926, 1937, and 1939”, Slavic Review, 2 (1997); Y. Slezkine, Arctic mirrors: Russia and the small peoples of the north, Ithaca, N.Y., 1994; M. Buttino, La rivoluzione capovolta, Napoli, 2003; A. Haugen, The Establishment of National Republics in Soviet Central Asia, New York, 2003.

[26] Danilov, Sovetskaja derevnija, cit.; L. Viola et al. (a cura di) Tragedija sovetskoj derevni. Kollektivizacija i raskulačivanie, 1927-1939 [La tragedia della campagna sovietica. Collettivizzazione e dekulakizzazione], 5 voll., Mosca, 1999-; S.V. Kul’čyc’kyj et al. (a cura di), Kolektyvizacija i holod na Ukraïni, 1929-1933 [Collettivizzazione e carestia in Ucraina], Kyïv, 1993; Ž. Abylchožin et al. (a cura di), Golod v kazachskoj stepi [La carestia nella steppa kazaka], Alma-Ata, 1991; Ju. Šapoval et al. (a cura di), Komandiry velykoho holodu, 1932-33 rr. [Comandanti della grande carestia], Kyïv, 2001, ecc.

[27] V. Izmozik, Glaza i uši režima: gosudarstvennyj političeskij kontrol’ za naseleniem sovetskoj Rossii v 1918-1928 godach [Gli occhi e le orecchie del regime: il controllo politico dello stato sulla popolazione sovietica], San Pietroburgo, 1995; V. Izmozik, “Voice from the Twenties: private correspondence intercepted by the OGPU”, The Russian Review, 55 (1996); i già citati volumi di Livšin, che vanno per esempio paragonati a A.K. Sokolov (a cura di), Golos naroda, Mosca, 1998 G. Sevostjanov et al. (a cura di), “Soveršenno sekretno”, cit., ecc.

[28] Cfr per esempio Bol’ševistskoe rukovodstvo. Perepiska, 1912-1927 e 1928-1941[La dirigenza sovietica. Corrispondenza], Mosca, 1996 e 1999; B.I. Nicolaevski, Power and the Soviet elite, , 1965; O.V. Chlevnjuk, Politbjuro. Mechanizmy političeskoj vlasti v 1930-e gody, Mosca, 1996 (cfr anche il meno completo Le cercle du Kremlin: Staline et le Bureau politique dans les années 30, Paris, 1996); O.V. Khlevniuk, Y. Gorlizki, Cold peace: Stalin and the Soviet ruling circle, 1945-53, Oxford, 2004.

[29] Ju.M. Goland, Krizisy, razrušivšie NEP [Le crisi che hanno disfatto la Nep], Mosca, 1998; Id., “Currency regulation in the NEP period”, Europe-Asia Studies, 46 (1994) (Ai bolscevichi e la moneta, 1918-1933, è dedicato un mio studio, quasi finito, che spero un giorno di portare a termine); O.V. Chlevnjuk et al. (a cura di), Kak lomali NEP. Stenogrammy plenumov CK VKP(b) 1928-1929 [Come distrussero la Nep. I verbali dei plenum del CC], 5 voll., Mosca, 2000.

[30] E. Osokina, Our daily bread: socialist distribution and the art of survival in Stalin’s Russia, 1927-1941, Armonk, N.Y. 2001; J. Hessler, A social history of Soviet trade: trade policy, retail practices, and consumption, 1917-1953, Princeton, 2004.

[31] A.I. Kokurin, N.V. Petrov (a cura di), GULag, 1918-1960. Dokumenty, Mosca, 2000; P.R. Gregory, V. Lazarev (a cura di), The Economics of forced labor: The Soviet Gulag, Stanford, 2003; E. Dundovich, F. Gori, E. Guercetti, Reflections on the Gulag, Milano, 2003; M.B. Smirnov (a cura di), Sistema ispravitel’no-trudovykh lagerei v SSSR. Spravochnik, Mosca, 1998, ecc.

[32] O.V. Chlevnjuk, Stalin e la società sovietica negli anni del terrore, Perugia, 1997; T. Martin, “The Origins of Soviet Ethnic Cleansing”, The Journal of Modern History, 4 (1998); A. Graziosi (a cura di), “ ‘Il grande terrore’. Che cosa stiamo imparando”, Storica, 18 (2000);J. Otto Pohl, The Stalinist penal system: a statistical history of Soviet repression and terror, 1930-1953, Jefferson, N.C., 1997, ecc.

[33] Pogonij, Stalingradskaja, cit.; S. Zubrenkov, N. Mitrochina (a cura di), “Lesnye Brat’ja” 1944-45 gg. : dokumenty Litovskoj osvoboditel’noj armii [I fratelli della foresta: documenti dell’esercito di liberazione lituano], Mosca, 1995; S. Lozoraitis jr., “La tecnica delle deportazioni in Lituania”, Studium, 5 (1953); M.M. Zarogul’ko (a cura di), Voennoplennye v SSSR, 1939-1956 [I prigionieri di guerra in Urss], Mosca, 2000; P.M. Poljan, Žertvy dvuch diktatur [Vittime di due dittature], Mosca, 2002; M.T. Giusti, I prigionieri italiani in Russia, Bologna, 2003; J. Burds, “Agentura: Soviet informants’ networks and the Ukrainian rebel underground in Galicia, 1944-1948”, East European Politics and Societies, 1 (1997); Id., The Early Cold War in Soviet West Ukraine, 1944-1948, The Carl Beck Papers in Russian and East European Studies, n. 1505, Pittsburgh, 2001; T. Snyder, “‘To resolve the Ukrainian question once and for all’: the ethnic cleansing of Ukrainians in Poland, 1943-1947”, Journal of Cold War Studies, 2 (1999); Id., The reconstruction of nations: Poland, Ukraine, Lithuania, Belarus, 1569-1999, New Haven, 2003; P. Ther, A. Siljak (a cura di), Redrawing nations: ethnic cleansing in East-central Europe, 1944-1948, Boston, 2001, ecc.

[34] Zubkova, Quando c’era Stalin, cit.; Ead. (a cura di), Sovetskaja žizn’, 1945-53 [Vita sovietica, 1945-53], Mosca, 2003; V.F. Zima, Golod v SSSR 1946-1947 godov [La carestia in Urss, 1946-47], Mosca, 1996; ; V.P. Popov (a cura di), Rossijskaja derevnja posle vojny, 1945-1953 [La campagna russa dopo la guerra], Mosca, 1993; P. Poljan, Ne po svoej vole – Istorija i geografija prinuditel’nych migracij v SSSR [Non per loro volontà. Storia e geografia delle migrazioni forzate in Urss], Mosca, 2001; J. Otto Pohl, Ethnic cleansing in the USSR, 1937-1949, Westport, Conn., 1999; M. Craveri, Resistenza nel Gulag. Un capitolo inedito della destalinizzazione in Unione Sovietica, Soveria Mannelli, 2003; Soprotivlenie v GULage. Vospominaniia, pis’ma, dokumenty [La resistenza nel GULag. Ricordi, lettere, documenti], Mosca, 1992; G. Kostyrchenko, Out of the Red Shadows: Anti-Semitism in Soviet Russia, Amherst, N. Y., 1995; G.B. Kostyrčenko, Tainaja politika Stalina: vlast’ i antisemitizm [La politica segreta di Stalin: potere e antisemitismo], Mosca, 2001; W. Taubman, S. Khrushchev, A. Gleason (a cura di)., Nikita Khrushchev, New Haven, Conn. 2000; W. Taubman, Khrushchev: the man and his era, New York : Norton, 2003.

[35] A. Artizov (a cura di), Reabilitatcija: kak eto bylo [La riabiliazione come fu], vol. 1, mart 1953-fevral’ 1956, e vol. 2, fevral’ 1956-načalo 1980-ch godov, Mosca, 2000-03; D. M. Stickle (a cura di), The Beria affair: the secret transcripts of the meetings signalling the end of Stalinism, New York, 1992; Taubman, Khrushchev, cit., ecc

[36] Chanin, Dinamika, cit.; “U.S. assessment of the Soviet and post-Soviet Russian economy : lessons learned and not learned”, Colloque, Kennan Institute of Russian Studies, 27-28 marzo 2002 (papers disponibili su richiesta al Kennan Institute); M. Maksudov, Poteri naseleniia SSSR [Perdite della popolazione in Urss], Benson, Vermont, 1989 –cfr “Pertes subies par la population de l’URSS, 1918-1958”, Cahiers du monde russe, 3 (1977); A. Blum, Naître, vivre et mourir en URSS, 1917-1991, Paris : Plon, 1994 ; E.M. Andreev, L.E. Darskij, T.L. Char’kova, Demografičeskaja istorija Rossijskoj federacii, 1927-1959 [Storia demografica della Federazione russa], Mosca, 1998; V.A. Isupov, Demografičeskie katastrofy i krizisy v Rossii v pervoj polovine XX veka [Catastrofi e crisi demografiche in Russia], Novosibirsk, 2000;F. Meslé et al., Tendances récentes de la mortalité par cause en Russie, 1965-1994, Paris, 1996; Ju.A. Poljakov (a cura di), Naselenie Rossii v XX veke [La popolazione della Russia nel XX secolo], vol. 1, 1900-1939 gg., vol. 2, 1940-1959 gg., Mosca, 2000-2001; D.A. Leon et al., “Huge variations in Russian mortality rates 1984-1994: artefact, alcohol or what?”, The Lancet, 9 agosto 1997, e vol. 357, 24 marzo , 2001, ecc.

[37] V. Šentalinskij, I manoscritti non bruciano, Milano, 1994; O.V. Naumov (a cura di), Vlast’ i chudožestvennaja intelligencija. Dokumenty 1917-1953 [Il potere e l’intelligencija artistica], Mosca, 1999; V.D. Esakov (a cura di), Akademija nauk v rešenijach Politbjuro, 1922-1991 [L’accademia della scienze nelle risoluzioni dell’Ufficio politico], vol. 1, 1922-1952, Mosca, 2000 ecc.

[38] K. Jowitt, “Soviet neotraditionalism : the political corruption of a Leninist regime”, Soviet Studies, 35, 3 (1985); T. Martin, “Modernization or neotraditionalism? Ascribed nationality and Soviet primordialism,” in S. Fitzpatrick(a cura di), Stalinism: New Directions, London<, 2000.

[39] A. Graziosi, Guerra e rivoluzione in Europa, 1905-1956, Bologna, 2001.