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I meccanismi della rappresentanza

Raffaele Romanelli

Raffaele Romanelli
Testo provvisorio dell’intervento al Convegno Sissco, Siena 9-10 Novembre 2000
La democrazia nel Novecento. Un campo di tensione
Avendo presente l’ottica nella quale il nostro convegno guarda al lemma “democrazia” – considerandolo un “campo di tensione”, uno spazio discorsivo in cui si intrecciano istituzioni e valori, dottrine e pratiche politiche che febbrilmente impegnano la storia degli ultimi due secoli -, mi sono proposto di concentrare l’attenzione sul ruolo che in quel campo di tensione è svolto dal discorso attorno ai meccanismi della rappresentanza politica. Naturalmente sono subito sorti dei problemi di posizionamento del mio oggetto. Ne richiamo tre soltanto, ma non da poco:
1. Elettività e democrazia. In quanto procedura di esercizio della sovranità popolare, al giorno d’oggi la rappresentanza occupa uno spazio dominante e quasi risolutivo nel discorso attorno alla democrazia. E benché rappresentanza non sempre coincida con elettività, oggi si assume che sia così. Ecco quindi che nel linguaggio corrente, ed anche nel linguaggio politico corrente – il che ha notevole influenza sulla scena pubblica – si tende a pensare che è democratico ciò che ha natura elettiva e viceversa che l’elettività introduce democrazia. E’ questa una prospettiva tardo-novecentesca della quale occorre tener conto. Senza però assolutizzarla: le mancate corrispondenze tra concetti sono molte. Infatti:
2. Elettività è condizione necessaria, ma non sufficiente. Anche se non sempre il discorso comune ne è consapevole, oggi pensiamo che la democrazia, oltre di elettività sia fatta anche di libertà e di legalità. Perciò secondo alcuni, più che di democrazia dovremmo parlare di liberal-democrazia, una accezione che già appare, come è ovvio, storicamente determinata e tutta da indagare. Comunque assumiamo pure che la libertà sia un attributo della democrazia (per la verità, nel corso dei secoli si è pensato piuttosto che tra i due termini corresse una insanabile contraddizione). Ne consegue che le elezioni senza libertà di parola, senza competizione e senza garanzie legali – ce ne sono parecchie, dalla Russia Sovietica all’Italia fascista – pur interessando molto lo storico del Novecento, vanno collocate fuori dal campo di indagine attorno alla rappresentanza. D’altra parte libertà, legalità e competitività non sono equivalenti. Se pare indubbio che la mancanza delle prime impedisce di parlare di democrazia rappresentativa, più complessa è la questione riguardante la competitività, come mostrano i molti casi di elezioni “uncontested”, con un solo contendente, e dunque simili a riti di acclamazione di leaders naturali, o di ratificazione di scelte prese altrove, e che pure fanno ben parte della storia della rappresentanza. Inoltre:
3. Rappresentanza come opposto di democrazia. Si può poi denunciare l’intrinseca contraddittorietà che può vedersi tra il concetto di democrazia e la rappresentanza proprio in quanto la procedura rappresentativa – anche quando la accettiamo come unico modo tecnicamente possibile di rendere operativa la volontà popolare – tende comunque a costituire quel corpo separato, di natura elitista, se non aristocratica, che è già nella dottrina del libero mandato e che da sempre i radicali contestano, oppendovi, se non la democrazia diretta, almeno alcune procedure che attenuino la “separatezza”, la distanza del corpo degli eletti, come la frequenza delle convocazioni, la retribuzione dei delegati, la revocabilità del mandato, etc.. Va da sé che plebisciti e referendum vanno espunti da un discorso sulla rappresentanza politica, essendo appunto gli uni e gli altri l’affermazione di un nesso diretto tra elettori e potere che la dottrina della rappresentanza è intesa a negare. Si aggiunga poi che se gli istituti di democrazia diretta possono essere invocati come inveramento della democrazia, l’esperienza storica dice che essi sono la negazione non soltanto della rappresentanza – che è appunto tautologico – ma anche della libertà e dello stato di diritto: lo sottolineano tutte le tipizzazioni del “bonapartismo” da un lato e del totalitarismo dall’altro. Escluderò dunque dal mio discorso sia i meccanismi della democrazia diretta che quelli della democrazia plebiscitaria, anche se, da storico, so che le distinzioni sono assai meno nette quando si esaminino discorsi, istituti e pratiche nei loro più vari intrecci storici, e che dunque sarebbe molto interessante seguire anche quelle piste.

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Provando dunque a lasciarmi alle spalle queste preliminari incertezze, punterò i riflettori sui meccanismi soltanto della rappresentanza politica, o – se si preferisce – della democrazia rappresentativa. E svolgerò le mie annotazioni attorno ad uno specifico problema, che può definirsi nel modo seguente. Per motivi, io credo, che vanno connessi alla collocazione e alle funzioni storiche della rappresentanza politica moderna e che qui non posso discutere, l’esercizio della sovranità attraverso elezioni dei corpi politici può avvenire soltanto nel rispetto di una convenzione per la quale solo i singoli individui (a lungo maschi adulti) e in via di principio tutti i singoli individui in quanto eguali, e non altri che i singoli individui possono, e devono, essere investiti del diritto di voto. E’ questa una convenzione universalmente accettata, che sta alla base di ogni discorso sulla moderna rappresetanza elettorale. Chi solo osservi l’impossibilità che una tale convenzione corrisponda a qualche forma di ordinamento sociale effettivamente esistente – una società di eguali, anzi di identici, la società “atomistica” tanto deprecata dai critici della democrazia e che poche cose simboleggiano meglio della cabina elettorale, anzi l’”isoloir”, come dicono splendidamente i francesi: l’oggetto che isola, il luogo dell’isolamento – chi, dicevo, osservi l’impossibilità di siffatta convenzione, sarà portato a sottolineare il suo carattere tutto normativo, che cioè è volta non a rappresentare le nervature sociali, bensì precisamente a negarle, plasmando la società secondo un ordine definito, a costruire il popolo prima che a dargli voce.
Il discorso sulla rappresentanza che vi propongo è dunque e semplicemente un ragionamento attorno ai modi con i quali discorsi, pratiche e istituti riguardanti la rappresentanza sono venuti a patto con quella convenzione, senza mai poterla rigettare alla radice, ma continuamente riproponendo – con artifici istituzionali, ardite proposte, deformazioni pratiche – di dar voce a gruppi, collettività corporate, catene gerarchiche di soggetti, asimmetrie e differenze, legami e interessi disposti con densità ineguale sul territorio, geografico e sociale, etc..
Come in molti altri terreni, anche in questo caso l’esperienza novecentesca ha le sue radici ben addentro il secolo precedente, anzi agli inzi del secolo precedente, quando viene messa a punto la definizione stessa, oltre che una variegata esperienza pratica, di rappresentanza politica. Ora, guardando a quella esperienza nella prospettiva d’oggi, è difficile impedirci di riguardarla come vicenda di progressivo ampliamento della cittadinanza politica (cioè del diritto elettorale) in termini per lo più quantitativi (gli unici ammissibili nell’ottica “atomistica”). Così fanno per lo più la scienza politica e la storiografia, ma in parte anche il dibattito coevo. In effetti, per le sue stesse premesse individualistiche la rappresentanza politica nasce fin dall’inizio con la potenzialità universalistica che le leggi della Francia rivoluzionaria si limitano a rendere esplicita ; ed è questa tensione verso il suo fine universalistico a scandire la storia del suffragio come storia di “ampliamento” anche nei paesi – classicamente la Gran Bretagna – nei quali l’assunto individualistico-egualitario è tutt’altro che scontato ed il voto assume tratti comunitari.
Perciò, proprio per questo intrinseco universalismo, la storia del suffragio può esser descritta come vicenda di progressive inclusioni, o meglio ancora come graduale riduzione delle condizioni d’esclusione. All’inizio, le leggi elettorali altro non fanno che ritagliare il profilo del soggetto borghese per differenza da coloro che cittadini non sono e non possono essere. Alle categorie classiche formate da fanciulli, schiavi, stranieri e donne – quelle categorie di soggetti cioè la cui esclusione già valeva a delineare la pars valentior dell’ordine sociale nel Defensor pacis di Marsilio da Padova -, di volta in volta si aggiungono quanti a vario titolo non appaiono sufficientemente radicati nella comunità d’appartenenza come non-residenti, non-proprietari, non lavoratori stabili etc. , o a vario titolo non appaiono abbastanza “indipendenti” da farsi un’opinione politica senza condizionamenti – e qui ovviamente le possibilità sono infinite: oltre a servitori e domestici, i militari, chi ha troppo pochi mezzi di fortuna, quanti vivono vivono sotto padrone, gli analfabeti, etc. Ma appunto queste aree di esclusione via via si riducono, e la vicenda può dirsi conclusa attorno alla prima guerra mondiale, quando il suffragio universale è ammesso pressoché ovunque, e cade – ultima a resistere – la differenza di genere (quanto ai minori e agli stranieri, la convenzione è a tutt’oggi insuperabile, ed essi rimangono fuori, anche se, come ieri per le donne, l’esclusione non è avvertita).
Così delineato, il percorso è dunque concluso, e si direbbe che abbia poco da dire alla storia della rappresentanza novecentesca, tanto più che i numerosissimi paesi – extraeuropei – ai quali la rappresentanza è applicata per la prima volta nel ventesimo secolo entrano direttamente nella fase universalistica, senza tappe intermedie. In realtà così non è; la storia ottocentesca del cosiddetto suffragio ristretto ha molto da dirci se ne riguardiamo i meccanismi d’esclusione o di inclusione dal punto di vista dell’ordine sociale che essi di volta in volta descrivono o cercano di normare. Quando infatti le leggi elettorali ottocentesche individuavano un nucleo forte di soggetti politici attivi ed escludevano coloro nei quali la soggettività politica appariva più debole, o affatto impossibile, intendevano ripristinare le fondamenta elementari dell’ordine sociale recuperandone gli assunti gerarchico-elitari e corporati: un obiettivo, questo, tutt’altro che esaurito con il suffragio universale, che anzi ne esalta l’urgenza. I sistemi di rappresentanza ottocenteschi presentano allora aspetti per noi molto interessanti, soprattuto se mettiamo da parte la visione statistica ed entriamo nella logica delle procedure e dei rituali di voto, considerando le elezioni descritte dalle leggi e poi applicate nella pratica come delle rappresentazioni sceniche, come la messa in scena di un ordine sociale.
Non è allora un caso se la prima concettualizzazione del rappresentanza sulla base del mandato libero (o non imperativo, o senza mandato, come dir si voglia) sia carica di elementi e considerazioni non suscettibili di codificazione formale, di elementi cioè extragiuridici, che rinviano al prestigio, all’autorevolezza riconosciuta, alla moralità, alla cultura del rappresentante, e così via; ciò che nelle parole di Burke, designa insomma una “rappresentanza virtuale” che il voto si limita a riconoscere. E non mi pare un caso se, nella pur ricca legislazione elettorale del tempo, mancano norme sulla presentazione delle candidature quando invece sono numerose e dettagliate le norme che regolano la procedura rappresentativa da punto di vista tecnico e scenico, là dove si rappresenta il sociale. Penso come prima cosa ai sistemi di voto a grado multiplo, che cristallizzano anche nelle norme e nei rituali il carattere gerarchico della struttura sociale, cominciando col disegnare una base larga e un vertice stretto. Abbiamo, in questi casi, rappresentazioni corali, complesse, cariche di elementi rituali, come quelli codificati nei 70 articoli che nella costituzione di Cadice regolano un procedimento elettorale a tre stadi, con una larga base elettorale, comprensiva di tutti i cittadini (o meglio i “vecinos”) che si riunivano in assemblee parrocchiali allo scopo di nominare – con voto palese, si badi – i delegati di parrocchia, i quali si riunivano in adunanza solenne, carica di ritualità religiosa, per nominare – questa volta con voto segreto e scritto – gli elettori del distretto, che si riunivano a livello provinciale e si recavano nella capitale per eleggere le Cortes. Non c’è dubbio che siffatti rituali appartengano all’antico regime; del resto un sistema a molteplici gradi regolava la nomina degli stati generali in Francia (ma si ritrova nella costituzione napoleonica dell’anno VII, 1799). E l’evocazione di un ordine passato si può ancora cogliere nei sistemi a voto indiretto introdotti in Francia, in Olanda e in Svizzera nel 1815.
Diverso è però il caso dei sistemi a voto indiretto operanti in Finlandia, in Norvegia o in Svezia fino agli inzi del Novecento, e in Prussia e in Austria fino alla prima guerra mondiale, e perfino – in tutt’altro contesto – nel sistema piramidale previsto dalla costituzione russa del 1918 per la nomina del congreso pan-russo dei soviet. In questi casi infatti si tratta di più moderni congegni espressamente concepiti per bilanciare gli effetti nefasti dell’introduzione del suffragio universale egualitario. Meccanismi di nomina a doppio grado sono ovviamente presenti ogni qualvolta un corpo eletto a sua volta sia corpo elettorale, come quando una camera legislativa elegga un presidente della repubblica (caso assai comune), o come quando un corpo intermedio entri in azione solamente a fini elettorali, come è il caso, peraltro alquanto eccezionale, degli elettori del presidente americano, o di altri tipi di elezioni “primarie”. Anche in questi casi sarebbe da domandarsi se la logica del procedimento in ultima analisi non sia quella di regolamentare, o dar meglio voce alla volontà popolare con l’intervento di soggetti intermedi. La funzione “corporata” di soggetti intermedi territoriali è del resto eplicita nei casi in cui senati o camere alte sono eletti appunto indirettamente, come accade anche oggi in Francia, in Olanda, in Belgio e in Irlanda (ma anche in Austria e in India).
Ora, il voto a grado multiplo non è che uno dei tanti congegni che, come una sorta di “frangiflutti” sociali, sono intesi a spezzare la violenza del flusso democratico scatenato dal suffragio universale, questa “véritable sphinx des temps modernes” che a destra disgusta e ossessiona, a sinistra delude. Lo scriveva nei suoi diari, con olimpica classicità, il democratico federalista Altiero Spinelli ancora nel 1948: “..bisognerebbe diffondere il metodo del sorteggio fra un certo numero scelto di uomini, nonché quello dele elezioni indirette. Più si spezza l’elezione di massa, più si restituisce nobiltà alle istituzioni libere. E senza nobiltà esse non possono prosperare”. Ma di congeni frangiflutti ve ne sono infiniti altri, come quelli che alterano l’eguaglianza dei voti con una loro diversa ponderazione. Abbiamo così il voto multiplo (se un singolo ha più voti) o plurimo (se i voti di qualcuno contano di più): il voto plurimo era del resto ammesso da anche da John Stuart Mill, e voti aggiuntivi d’antica tradizione si sono avuti in Inghilterra e Scozia fino a metà novecento, mentre – caso assai più significativo – voti multipli per censo elevato o capacità, o per i capifamiglia, furono introdotti in Belgio nel 1893, come antidoto al suffragio universale insieme al referendum, disegnando un corpo elettorale fortemente squilibrato, dato che il peso dei voti aggiuntivi superò quello dei voti singoli.
La frammentazione e la redistribuzione del corpo elettorale totale avviene costantemente, in mille maniere. Né potrebbe non avvenire, stante l’accoglimento pressoché universale del sistema dei collegi territoriali, che ovviamente non sono mai eguali né simili, nonostante le misure di standardizzazione. Non penso soltanto a meccanismi di gerrymandering fraudolento, o di “positive gerrymandering”, se così di può dire, quando il ritaglio dei confini del collegio ha finalità di riequilibrio. La manipolazione della territorialità è del resto esplicita, e ha esplicito carattere etnico-sociale quando individua aree geografiche socialmente caratterizzate, come tipicamente le aree rurali rispetto a quelle urbane. Si prendano ad esempio le elezioni per la duma russa del 1905-1906, dove l’elettorato era diviso per distretti: le grandi città, i governatorati e le regioni, ciascuna delle quali un diverso rapporto tra popolazione e deputati a seconda che si trattasse di aree più o meno periferiche, dove peraltro l’elettorato era diviso per religioni, etnie e ceti; così, ad esempio, Varsavia eleggeva due deputati, un polacco e un russo, il Turchestan ne eleggeva 13, dei quali 7 rappresentavano i russi e 6 la popolazione locale, che costituiva però il 92 % del totale, e così via. L’elettorato di ciascun distretto era poi diviso in curiae: quella degli elettori distrettuali, in sostanza i proprietari terrieri; quella degli elettori urbani, proprietari di immobili, di esercizi commerciali o industriali etc.; quella dei contadini, e successivamente quelle dei cosacchi e degli operai minerari e ferrovieri. E’ da notare che questa struttura etnico-cetuale, che fu tanto criticata dai socialdemocratici, fu in sostanza riprodotta nella costituzione del 1918, dato che per eleggere un deputato al soviet panrusso c’era bisogno di 25.000 voti cittadini e di 125.000 voti contadini. Il voto contadino valeva dunque – anche formalmente – un quinto del voto urbano ed era espresso in maniera palese.
E’ facile, in una prospettiva democraticistica attuale, considerare molti di questi meccanismi residui del passato. In parte lo sono, come lo sono le curiae, veri e propri ordini cetuali presenti, oltre che nella Russia di primo Novecento, anche in Svezia e Finlandia – dove i quattro ceti erano i nobili, il clero, i borghesi e i contadini ricchi – o ancora in Austria, dove, a partire dalla prima elezione parlamentare del 1873 fino alla riforma del 1907 c’erano quattro curiae: la prima, con 85 seggi, era composta da proprietari ricchi, la seconda, con 21 seggi, da membri delle camere di commercio, la terza con 118 seggi, tutti i contribuenti medi di città, e la quarta, con 129 seggi, i contribuenti minori rurali. Eppure, a volte il passato non fa che prestare gli strumenti istituzionali al presente moderno, che è inteso, lo ribadisco, a reagire all’assalto democratico. Lo confermano i tempi e i modi dell’introduzione di uno dei più barocchi rituali di voto gerarchico nell’Europa del secondo Ottocento, il Dreiklassenwahlrecht prussiano, dove l’elettorato era diviso appunto in tre classi, ciascuna delle quali pagasse complessivamente un terzo delle imposte nel distretto. Nessuna divisione cetuale, dunque – ed infatti in presenza di contribuenti molto ricchi poteva accadere che l’élite cadesse nella seconda classe, come nei collegi di Essen e di Frankfurt, dove rispettivamente i Krupp e i Rotschild erano i soli appartenenti alla prima classe. Ma il sistema di voto, con la terza classe che votava per voto palese in presenza delle altre e poi abbandonava l’adunanza, disegnava un rituale di rigido controllo sociale che era stato previsto precisamente come antidoto all’allargamento della cittadinanza politica, e non a caso durò dal 1853, quando fu inventato, fino alla prima guerra mondiale.
Nei meccanismi studiati dalle élites per frammentare e ricomporre il corpo politico, lo strumento aritmetico – che comporta la diversa ponderazione del voto dei singoli, come nel DKWR prussiano, o nel voto plurimo belga – è senz’altro il più “moderno” e consono ai tempi: non a caso, lo si ricordi, il proporzionalismo (vero trionfo del calcolo matematico!) fu studiato per garantire un estremo ridotto difensivo alle élites che si vedevano assediate dalle masse. In altri casi invece è il terreno stesso del numero ad esser rifiutato alla radice, a destra come a sinistra. Già con Napoleone III i democratici ammettono che la loro forza non è nel numero, e si apre la lunga stagione del sindacalismo corporativo, dal manifesto dei Sessanta, del 1864, ai soviet russi.
Fioriscono allora (o rifioriscono?) ovunque le idee di rappresentanza per corpi. A volte non è facile vedere dove passa la distinzione tra i corpi d’antico regime e i corpi postindustriali. Ma una volta che si entri in questo ordine di idee, che cioè si voglia abbracciare l’ampio spettro delle risposte alla convenzione atomistica, è anche difficile non includere i partiti – questo prodotto tipico della medesima età di fine Ottocento – tra le strutture strutture di indirizzo, di mediazione e di guida della massa elettorale, tra i filtri che si tentano di interporre tra nombre et raison. E non volgere lo sguardo anche ai
tanti meccanismi di intervento che operano non sul terreno formale, ma su quello delle pratiche politiche, e che consentono di governare la competizione dall’alto (con ingerenze, violenza, manipolazione), o ancora di “manovrare” l’espressione del voto, o la partecipazione elettorale.
E nemmeno facile è stabilire dove passa il confine tra questi vari disegni istituzionali e ideologici che piegano e disegnano la rappresentanza e quei progetti, o parziali realizzazioni, che sostituiscono addirittura la rappresentanza politica con altri istituti, siano essi la rappresentanza sindacale, o corporativa, o con governi dispotici che pretendono di legittimarsi col richiamo a principio dottrinari alquanto sofisticati, come quello fascista che proclama la superiorità della rappresentanza non elettiva, o che immagina, come i comunisti sovietici, di evocare la mitica democrazia diretta.
Questi ultimi riferimenti, sconfinanti in quei terreni lontani dalla rappresentanza democratica nei quali ho detto di non volermi inoltrare, intendono solamente mostrare fino a quali latitudini può spingersi nel corso del XX secolo il rifiuto della rappresentanza democratica, e la torsione che può subire la convenzione individualistica – che alcuni chiamano “individualismo inorganico” – per piegarsi alle esigenze di articolazioni sociali variamente cetuali, organicistiche, o corporative. Nel quarto decennio del Novecento l’Europa è un “dark continent”, un continente oscuro, come ha scritto Marc Mazower. La fascinazione corporativa è al suo culmine, al punto da farci pensare che l’illusione democratico-rappresentativa sia giunta al tramonto, e la convenzione stessa sia abbondonata, o risolta. Vaste aree europeo-balcaniche sono, come è noto, rette da regimi di tipo fascistico, alle quali si unirà la Francia di Vichy: certamente un regime instabile, dovuto all’occupazione tedesca, e che pure elabora istituzioni corporative ben radicate in una linea culturale autoctona. D’altra parte movimenti fascisti hanno voce in Svizzera, in Belgio, in Olanda e nella stessa Inghilterra. Nelle democrazie anglosassoni l’interesse e l’apprezzamento per gli esperimenti corporativo-fascisti toccano il diapason. Si parla in genere con una certa sottovalutazione e un certo imbarazzo di questa forte attrazione esercitata dai regimi fascisti su quelli democratici. Credo invece che si tratti di un fenomeno significativo e rivelatore, che va compreso nel tempo lungo, ovvero attraversando la profondissima cesura storica segnata dalla guerra mondiale e dal radicale rivesciamento della prospettiva qui delineata.
L’esito della guerra interrompe infatti la fascinazione corporativa, e apparentemente riapre in tutta la sua crudezza la tensione originaria tra convenzione inorganica e istanze corporate. Per il momento, queste ultime sembrano ridotte al silenzio. Nel mezzo secolo seguito alla sconfitta dell’asse nessun regime politico nel mondo ha vantato la propria ispirazione fascista o si è definito tale; i regimi “di area” non toccati dalla guerra – come il Franchismo, il Salazarismo -, o altri che seguono, come quello dei Peron in Argentina o di Sukharno in Indonesia, non invocano esplicitamente quella ascendenza. All’interno dell’area europeo-democratica che torna ad allargarsi le suggestioni corporative perdono quota. O piuttosto si trasfigurano, o cambiano linguaggio.
Torniamo ai tempi di guerra. E’ noto che proprio in quell’epoca Schumpeter offre una definzione della democrazia come tecnica di scelta elettorale che sarebbe presto diventata classica: il metodo democratico, scriveva Schumpeter nel 1942, è “quell’assetto istituzionale volto a prendere decisioni politiche in cui gli individui acquistano il potere di decidere attraverso una lotta competitiva per il voto popolare”. Figlia dello stesso pessimismo elitista che in altri ambienti intellettuali aveva sostenuto la fascinazione corporativa, la formula schumpeteriana era senz’altro riduttiva, rispetto ad una visione della democrazia come spinta ideale a un fine. Ma nel suo apparente tecnicismo, essa non può cancellare il fatto che nella dottrina della rappresentanza (e più in generale della democrazia) è sempre presente un nesso determinante con la sottostante “società civile”, con le sue passioni e i suoi interessi, e che è lì che poi in ultima analisi si risolve la sua “impossibilità” tecnica di esprimere attraverso il voto la volontà popolare. In questo senso credo che anche dietro il minimalismo della concezione procedurale si nascondono alcuni basilari assunti culturali dell’area anglosassone da cui proviene.
La tecnica di decisione “attraverso una lotta competitiva per il voto popolare” in realtà sposta l’accento della teoria della rappresentanza dai principi fondamentali prima ricordati (individualismo, egualitarismo, dimensione statal-nazionale, e ancora libertà, legalità) che possono dirsi ormai acquisiti, verso un modello sociale specifico, al centro del quale è il concetto di competitività. Esso è basato sull’opposizione e il confronto invece che sulla convergenza unanimistica, sulla molteplicità delle opzioni alternative e dunque su una conseguente idea di razionalità delle scelte anziché sul compromesso e la mediazione. Nel concetto di elezioni “free and fair” da allora dominante si racchiude questo ed altro, come il pluralismo identitario, il principio di maggioranza, il rispetto delle minoranze, il principio di legalità, e così via.
E’ questa l’idea di democrazia rappresentativa dalla quale sono partito anch’io; perché è la nostra, perché segna l’odierno ambito discorsivo e plasma i nostri strumenti analitici. Ha scritto Huntington nel 1993 che “immediatamente dopo la prima guerra mondiale il dibattito si è sviluppato tra coloro che nel solco della tradizione continuavano a concepire la democrazia come valore originario o fine ultimo e coloro che invece, sulla scia di Schumpeter, sposavano una visione procedurale. Questo dibattito si è andato esaurendo negli anni settanta con la vittoria degli schumpeteriani”. E’ vero, la concezione procedurale è diventata la concezione “normale” della democrazia rappresentativa. Ma a me sembra che si tratti di una idea storicamente determinata e molto ben localizzata in quel tempo in cui, conclusasi la seconda guerra mondiale, liberazione, decolonizzazione, sviluppo – in una parola, modernizzazione – sono strettamente legati all’esportazione di un regime democratico rappresentativo unico, procedurale e sostantivo insieme, definito dalle elezioni “free and fair”, competitive, e basate su un multy-party system. Da allora questo set di istituzioni da esportare ed imporre diventa anche parametro di valutazione e di giudizio storico sui presunti “flussi di democratizzazione” che caratterizzerebbero il percorso storico. Ma, come dicevo, inclino piuttosto a pensare che l’insieme di valori racchiusi nel concetto di elezioni “free and fair” esprima una civiltà specifica, che provvisoriamente chiamerei euro-atlantica, o anglosassone, e che comunque promana dall’individualismo mercantile e protestante di quell’area geografica. Mi pare significativo che nel tempo in cui la democrazia non aveva altrettanta sicurezza planetaria – quando cioè era barricata nella sua roccaforte anglo-atlantica e poi ancora allorché, pur avendo riconquistato l’Europa armi in pugno, non riusciva a spingersi oltre, bloccata da una “fredda” guerra di logoramento -, in quei decenni essa appariva sì come un valore superiore, ma antropologicamente assai relativo. Rileggendo oggi le “lectures” pronunciate nel 1965 da C.B.Macperson su “The real world of democracy” colpisce il fatto che lo studioso del radicalismo inglese affermasse che nel suo mondo la democrazia era ormai stabilmente una “buona cosa”, a good thing – ciò che non era ovvio un secolo avanti -, ma che ciò che l’aveva sfidata a oriente, il comunismo, non poteva più esser considerato “al di fuori della corrente principale dello sviluppo mondiale”: bisognava ammettere che i sistemi non-liberali che prevalevano nell’universo sovietico e in gran parte dei paesi sottosviluppati d’Asia e d’Africa avevano essi pure una legittima pretesa a dirsi democratici, anche se “noialtri, in occidente, abbiamo costruito un sistema al quale attribuiamo grande valore”. Insomma, al momento della sua grande affermazione la democrazia era cosa che riguardava “noi occidentali” ed era strattamente legata alla “nostra” cultura.
Quale che sia il fondamento di questa ipotesi, resta il fatto che alla vittoria planetaria delle potenze militari di quell’area seguì l’affermazione della visione procedurale della democrazia, con la sua fortissima spinta ideale-progettuale sul mondo. Su di un mondo che la fine del colonialismo rese di colpo sterminato. E che la fine del comunismo, qualche decennio più tardi, avrebbe reso ancor più vasto e sostanzialmente “unico”.
E’ opportuno che io renda più esplicita l’ipotesi che propongo alla discussione allargando un poco la mia visuale. Al cuore della seconda guerra mondiale, mentre l’Europa continentale disconosce le convenzioni fondamentali della democrazia e rimane affascinata da ipotesi istituzionali alternative, tocca anche il suo apice una secolare appropriazione modernizzante del resto del mondo, quasi interamente avvenuta al di fuori dell’orizzonte democratico-rappresentativo. E’ significativo che le democrazie europee non abbiano mai ipotizzato di applicare meccanismi di governo rappresentativo ai loro possedimenti coloniali e più in generale siano sempre state assai scettiche sulla loro applicabilità fuori dai confini della civiltà euro-atlantica. E ciò non a caso; il governo paterno dei colonizzatori era coerente con l’antidemocraticismo di fondo, o se si vuole con l’organicismo che l’Europa difendeva con tutti i mezzi leciti e illeciti dall’assalto dell’atomismo democratico. Si dirà che ciò risulta evidente ed implicito nell’idea stessa di dominio coloniale, che evidentemente è incompatibile con il governo rappresentativo. Ma è appunto questa evidenza che voglio sottolineare, perché ha riguardato numerosissime polazioni del mondo che nel Novecento sono poi state gratificate della moderna rappresentanza.
Certo, nelle giurisdizioni minori, nell’amministrazione di segmenti di società locali, anche nelle colonie si sperimentarono forme di partecipazione, o di compartecipazione pseudoelettiva che ebbero poi un peso nell’avviare un “apprendistato” alla democrazia, non diversamente, del resto, da quanto era accaduto nell’Europa moderna. Ma oltre a questi modesti esperimenti c’è ben poco altro da dire circa le vaste aree del tutto escluse da ogni esperienza elettiva fino all’indipendenza, come le colonie belghe, o le spagnole, a anche quelle, come le portoghesi e le francesi, che sperimentarono la formula della partecipazione al parlamento metropolitano ai territori d’oltremare. Più significativo semmai il caso dell’impero britannico – un impero, lo ricordo, su cui non tramontava mai il sole -, il quale non ebbe difficoltà a impiantare organismi elettorali nelle area di cultura protestante bianca, come Canada, Australia e Nuova Zelanda dove le popolazioni indigene erano state preventivamente cancellate – politicamente e fisicamente -, mentre altrove dette vita a esperimenti elettivi già a partire dalla fine dell’Ottocento, sia in organi consultivi che nell’amministrazione locale. Si trattò di forme di rappresentanza ovviamente assai ristretta, ma soprattutto indiretta, censitaria o corporativa, e per “collegi etnici” forse simili a quel “modo di rappresentanza asiatico” che abbiamo segnalato nella Russia di primo Novecento. In India, per esempio, nel 1909 furono aggiunti al All-India legislative council dei membri elettivi, che erano eletti indirettamente da “local authorities-trade associations, and universities”. Fu poi introdotta la rappresentanza di musulmani, con suffragio molto ristretto. Il principio fu esteso nel 1935 con collegi elettorali per musulmani, sikhs, europei, indiani cristiani, anglo-indiani, “backward areas”, e “tribes”.
Questi casi mi paiono comunque segnalare la palese inapplicabilità delle convenzioni rappresentative a civiltà altre. Più complesse, e forse più interessanti, sono poi le forme di adattamento, di sincretismo sperimentate nell’applicazione delle istituzioni rappresentative a società extraeuropee le cui strutture sociali e i cui valori erano lontani dal principio individualistico, ma che hanno saputo adattarvisi secondo forme originali. Un caso estremo, ad un tempo eccezionale e paradigmatico è il Giappone, la cui cultura è generalmente caratterizzata dalla prevalenza del gruppo sull’individuo, dei principi di lealtà, armonia, fedeltà su quelli di libertà, di individualismo, di appartenenza “partitica”, o principio di maggioranza, tutti termini, questi ultimi, generalmente connotati negativamente. Va da sé che l’introduzione di istituzioni rappresentative – che pure avvenne precocemente, nel 1889 – produsse esiti tutt’affatto peculiari, non privi di efficacia ma certo non rispondenti ai canoni della democrazia euro-occidentale, della quale spesso possono apparire come la parodia, o la versione “degenerata”. L’espressione “the ballot is the bullet” – la scheda elettorale è in realtà la pallottola -, riferita al Giappone come ad altre situazioni estreme di normale violenza elettorale, esprime bene, mi pare, un modo pittoresco e approssimativo – e certamente tutto eurocentrico – di descrivere l’incontro tra istituzioni rappresentative occidentali e culture diverse.
Non posso certo aprire qui il denso e variegato discorso che andrebbe fatto attorno ai concetti di corruzione, di clientelismo, di caciquismo, di trasformismo, e così via. Ho già accennato al fatto che l’ingerenza e la manipolazione del processo elettorale sono tra i modi di adattamento del paradigma atomistico a strutture sociali “corporate”, e quei concetti e categorie politico-analitiche altro non rappresentano, in molti casi, che i modi con i quali il mondo dei modelli razional-individualistici guarda non alla realtà in generale, bensì alla realtà di aree geografiche e culturali specifiche, in particolare alle esperienze elettorali compiute nelle numerose, numerosissime, civiltà nelle quali forme di comunitarismo o di solidarismo prevalgono sulla razionalità individualistica, e dove spesso e elezioni non sono “fair”, non sono “corrette”. Come è noto, non si svolgono “correttamente” molte elezioni bandite in paesi dell’area latina, o cattolico/latina, una vasta area che unisce il Mediterraneo orientale (dove in realtà vivono popoli non latini e non cattolici, come i greci e da lì i balcanici…) all’Italia meridionale alla Spagna fino all’intero continente latino americano, area vastissima e eterogenea che tra l’altro ha sperimentato molto precocemente la democrazia rappresentativa.
Jeane Kirkpatrik, scienziata politica della Georgetown University e più tardi ambasciatore americano presso le Nazioni Unite, valutando con grande simpatia il regime peronista per la sua capacità di emancipare le masse e per il suo carattere autoritario sì, ma non totalitario, osservò nel 1971 e poi di nuovo nel 1979 che il carattere nazionale argentino di cui il peronismo era espressione echeggiava in realtà le culture mediterraneee, e che per l’appunto la democrazia anglo-americana non aderiva naturalmente alle culture di tipo mediterraneo. Era questo uno dei modi in cui la scienza politica americana – e la politica tout court – aveva sommamente apprezzato il fascismo; vedendo alcuni nel corporativismo un contributo epocale alla soluzione di problemi delle democrazie mature, altri un assetto adatto alla cultura e alla mentalità latine. Come aveva spiegato William B.Munro nel 1931, “benché gli italiani prendessero a prestito l’ordinamento costituzionale inglese, non ne avevano acquisito né la tradizione né lo spirito”; e Henry Russel Spencer nel 1932: “gli italiani mancano dello ‘spirito’ necessario a praticare la democrazia anglo-americana”.
Per decenni la cultura pseudo-antropologica anglosassone si è dedicata alla scoperta del “familismo” latino. Ora appunto l’evidente incoerenza di tale familismo con i fondamenti individualistici della democrazia rappresentativa classica è uno di quei dati, massimamente vaghi e tuttavia pertinenti, che conducono a formulare le interpretazioni più diverse, da quelle che mirano ad una modellizzazione della corruzione, del clientelismo, del patronage, ect., alla formulazione del “neo”corporatismo come terza via alla modernizzazione. In un caso e nell’altro, le diverse interpretazioni si presentano come apparentemente sistemico-avalutative, ma più spesso denunciano una palese distanza etico-politica dai valori comuni della democrazia moderna.
Non che mancasse una buona dose di verità in quegli schemi. I dettami della convenzione individualistica non si adattano immediatamente (cioè senza mediazioni) alla cultura e alla mentalità cattolico-latine e più in generale alle culture “comunitarie”. Proprio perciò, nell’importarne i fondamentali meccanismi rappresentativi – ché, lo ricordo, di questi soli mi sto occupando – i paesi terzi di quell’area ne adattano e ne trasfigurano la funzione, o meglio ne rivelano con maggior appariscenza una non secondaria funzione che è loro propria: là dove vengono introdotti, i meccanismi della rappresentanza politica costituiscono una risorsa aggiuntiva da spendere nella regolazione dei conflitti. Le tensioni attorno alla titolarità del suffragio o alla compilazione delle liste, i rituali della campagna elettorale e delle procedure di voto, e ancora la specifica retorica del conflitto elettorale e della competizione tra “partiti”, tutto ciò si aggiunge a, non sostituisce, i meccanismi presistenti che presiedono alla distribuzione delle risorse e alla regolazione di conflitti. Un esempio paradigmatico dell’uso “retorico” che fu fatto del mito dell’alternanza anglosassone in paesi che costruivano i loro parlamenti ad emiclico (con l’irresistibile attrazione verso il centro che esso comporta), è offerto dalla Spagna della restaurazione, alla fine dell’Ottocento, con il sistema del “turno” regolato dall’alto e perfettamente funzionale al potere dei caciques locali.
Ma più che la Spagna, è l’intera America latina nel corso di ormai quasi due secoli a presentarsi come sterminato laboratorio di sincretismi tra convenzione atomistica e assetti variamente corporati. Non ne tentiamo qui nemmeno una classificazione, tanto la materia è complessa e sfuggente e va a intrecciare l’altra, essenziale, che riguarda i modi di formazione delle moderne unità statali. Piuttosto, giacché abbiamo richiamato l’attenzione sulla decolonizzazione della seconda metà del XX secolo come spazio d’espansione della democrazia “procedurale”, può esser utile pronunciare qualche parola sul caso africano. Inutile dire che le scelte dei capi nell’Africa precoloniale aveva poco a che fare con la rappresentanza politica. Della scarsa esperienza avvenuta sotto il governo coloniale s’è fatto cenno; si può aggiungere dopo la seconda guerra mondiale, alla viglia dell’indipendenza, qualche nuovo esperimento vi fu tentato, e indubbiamente servì a leaders emergenti come scuola d’emancipazione, o come strumento per soppiantare gli anziani. Fu però l’indipendenza a segnare l’ingresso massiccio della pratica elettiva a livello “statale”: tutti i nuovi stati furono immediatamente attrezzati con regimi costituzionali di tipo elettivo, per lo più di tipo presidenzialista. Si aprì allora la fase dei regimi personali a partito unico, spesso accompagnati da colpi di stato militari. In quel contesto le elezioni svolsero un ruolo molto importante; oltre a dare legittimità interna e internazionale ai vari regimi, servirono da un lato come rituale di ratifica popolare dei nuovi leaders più o meno carismatici, dall’altro come strumento di redistribuzione clientelare delle risorse tra gruppi ed etnie e di cooptazione dei loro esponenti.
L’intero sistema funzionò insomma al di fuori e in contrasto con ogni idea di “scelta liberamente competitiva”, che, scrive un autore, “non era nell’interesse delle nuove elites, ed era palesemente intesa come una minaccia per la stabilità, lo sviluppo e l’unità nazionale”. Non a caso gli studiosi descrivono le esperienze elettorali africane come una serie di fallimenti, più o meno accentuati, più o meno rivelatori di una variante “genuinamente africana” di rappresentanza, più o meno aperti a sviluppi autenticamente democratici. Ma prima del 1989, in ogni caso, non si dettero casi di cambiamenti di governo per via elettorale. Certo, lo schematismo con cui molti sociologi, o politologi, trattano di queste materie, così palesemente basato sul punto di vista democratico “proceduralista” del quale parliamo, lascia molto insoddisfatti e ci nasconde forse gli elementi di vitalità presenti nel “modo di rappresentanza africano”. E tuttavia non escluderei che la catastrofe continentale sofferta dall’Africa d’oggi abbia le sue radici anche nell’importazione e nell’imposizione del modello di rappresentanza euro-atlantico.
Poche cose come l’intervento istituzionale operato sulle società africane nel tardo XX secolo confermano, se mai ve ne fosse bisogno, l’originario carattere normativo dei meccanismi della rappresentanza, che applicato fuori d’Europa si irridisce ulteriormente e perde qualsiasi capacità di adattamento ai contesti altri.
Mi piace assumere come data simbolica di questo processo il 1989. Non tanto, come verrebbe subito da pensare, per la fine del comunismo. In materia di rappresentanza il comunismo non ha mai costituito un punto di riferimento di qualche significato: nella formale piena adesione ai principi della democrazia occidentale (si ricorderà che la costituzione sovietica afferma la segretezza e l’universalità del voto individuale) il regime comunista ha rappresentato solo ciò che era fuori della democrazia rappresentativa, ora come minaccia, ora come alternativa. Penso invece al 1989 perché in quell’anno l’ultimo lembo d’Africa – la Namibia – conquista l’indipendenza, e giacché l’unico modo in cui l’Occidente e il mondo intero sanno formalizzare la conquista della sovranità è l’elezione di una assemblea politica, là si svolsero in quell’anno le prime elezioni politiche nella storia del paese, e per la prima volta vi si sperimentò la pratica degli osservatori elettorali inviati dalle Nazioni Unite, pratica, inutile dire, di assoluto valore simbolico.
Ma forse l’occidente inviava i suoi osservatori a monitorare il corretto afflusso alle urne delle popolazioni nomadi del deserto del Kalahari unicamente perché attribuiva alla rappresentanza politica un significato ormai simbolico. I governi delle più antiche democrazie rappresentative stavano infatti sperimentando trasformazioni profonde. Lo segnalava tra l’altro la fuga dalla partecipazione elettorale e l’allontanamento dalla politica. Fenomeno certamente complesso, l’astensionismo elettorale, al quale possiamo attribuire il significato di un disvelamento: segnalava la perdita di centralità delle istituzioni rappresentative, e il trasferimento altrove sia del potere che del suo controllo. Il potere di decisione era ormai trasferito verso organismi tecnici del tutto estranei alle istituzioni costituzionali classiche, mentre il potere di controllo lasciava le aule parlamentari per trasferirsi in altri luoghi, principalmente i luoghi dell’opinione e della comunicazione. Mi sembra un elemento di grande pregnanza simbolica il fatto che sia proprio la culla della prima rappresentanza politica, l’Europa, o meglio quello strano manufatto che è l’Unione Europea, il cantiere dove più si sperimentano questi fenomeni.
Inutile dire che sulla crisi della centralità della politica; sull’impossibilità di rappresentare l’unità – che era il fine ultimo della rappresentanza; sulla personalizzazione del potere e sul ruolo svolto dai media – dalla televisione e poi da internet, è stato scritto molto, moltissimo, e altri ne diranno in questo convegno. Si tratta di trasformazioni profonde, tanto radicali da apparirci come rivelazioni, come disvelamenti di essenze diverse, più che come trasformazioni storiche. Questo almeno è l’atteggiamento che spesso assume la nostra riflessione sui grandi eventi del mondo: scopriamo mutamenti talmente essenziali che ci appaiono come dati strutturali fino a ieri tracurati più che come elementi sopravvenuti. A me pare che nella riflessione odierna sull’”impossibilità”, o sull’”irrazionalità” della pretesa di dar voce alla collettività politica tramite il voto, sulla prevalenza di un “neo-corporatismo” che si ha difficoltà a distinguere dall’antico, e ancora sulla prevalenza della comunicazione, e più generale della sfera publica “come alternativa, a volte complementare, a volte concorrente, alle istituzioni rappresentative” ciò che viene soprattutto messo in risalto non è tanto la crisi delle istituzioni rappresentative, quanto la caducità delle convenzioni culturali che assegnano loro una centralità del tutto fittizia. Insomma è la caducità di un discorso a colpirmi. Ma poiché quel discorso, come ogni discorso, strutturava ordinamenti e comportamenti, ecco che la presa d’atto della sua scarsa consistenza è da registrare come l’evento di questo fine secolo nella storia della rappresentanza politica.