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Identità collettive

ROMA, 27 febbraio 2004

Sull’uso di alcune categorie analitiche nella ricerca storica

Una giornata di discussione

Sissco, Società Italiana per Studio della Storia Contemporanea
Roma, Università La Sapienza, Facoltà di Scienze Umanistiche
Cattedra di Storia contemporanea
Roma, 27 febbraio 2004
Dipartimento di Storia moderna e contemporanea
Aula grande
Piazzale Aldo Moro, 5

I soggetti collettivi si muovono nel difficile punto d’incontro tra la ricerca storica e il suo uso pubbico-politico. la scrittura e uso pubblico. L’analisi, così come la ricostruzione degli eventi e la scrittura della storia non possono fare a meno di riferirsi a categoria analitiche collettive di tipo sociale o etnico, religioso o economico, linguistico o politico, di volta in volta evocando i conflitti che li oppongono, le loro azioni e collocazioni collettive, le presunte responsabilità, i meriti o i demeriti dei gruppi. Ma fin dove può spingersi l’irrinunciabile necessità di parlare di “contadini”, “operai”, “nobili”, “borghesi”, “donne”, “giovani”, “croati”, “cattolici”, “musulmani”, “capitalisti”?

Quali i nessi tra l’identità individuale e quella collettiva? Sappiamo che per ogni individuo l’ascrizione a un gruppo è non solo problematica in sé, ma coesiste e si incrocia con molte altre appartenenze. Ed esiste una grande differenza tra le collettività “oggettivamente” fondate – su dati materiali o istituzionali o culturali – e quelle invece formate da espressione di volontà: ad esempio tra l’identità di genere e quella politica. La discussione intende riflettere sulla portata di queste differenze analitiche e sulla loro relatività in dati contesti storici (giacché perfino nell’esempio fatto si può osservare che anche il genere può essere oggetto di scelta, e che l’appartenenza politica, e più ancora quella religiosa, possono presentarsi come condizioni oggettive, dati di fatto, come la lingua madre -che del resto può, specie ai “confini”, diventare anch’essa materia di scelta).

Le categorie collettive nell’analisi storica sono ad un tempo strumento della nostra conoscenza e misura della nostra ignoranza: giacché non ci è materialmente possibile conoscere i singoli esseri umani, le loro scelte e le loro reazioni, siamo costretti a raggrupparli o a studiarne da vicino di esemplari o significativi. E’ perciò necessario vigilare sul realismo e la pertinenza dei nostri raggruppamenti, ad esempio domandandoci:

  • Se le categorizzazioni applicate oggi dagli storici – spesso ritagliate sulle 4 o 5 “classi” di lontana derivazione marxista – non debbano essere confrontate con quelle di altre discipline e di altri approcci. Si tratta di riflettere sulla rilevanza delle grandezze statistiche o delle categorie sociologiche, ma non soltanto; chi per esempio prepara i sondaggi di opinione, o si occupa di pubblicità, lavora su decine di gruppi in rapida evoluzione, e dai margini indeterminati.
  • Se le identità collettive così delineate siano più o meno realistiche in determinati contesti storici piuttosto che in altri. Sappiamo infatti che in determinate condizioni, spesso estreme sia dal punto di vista soggettivo (tensione, stress, paura) che oggettivo (fame, guerra ecc.), una identità può affermarsi con maggior vigore e nettezza, anche non allo stesso modo per tutti gli individui che compongono il gruppo.
  • Se in determinate fasi, non soltanto della storia ma anche del discorso storico, alcune categorie non sembrino più forti di altre, con una evidente distorsione di prospettive indotta dalla vicenda storiografica, che a volte privilegia classi e gruppi sociali (la borghesia, il proletariato, i contadini), altre volte gruppi politici (i comunisti, i fascisti), altre ancora i gruppi etnico-religiosi (ebrei, mussulmani)…
  • Se – ed è forse questa la questione che più ci interessa – i raggruppamenti così individuati non possano divenire pericolosi feticci, costruzioni retorico-ideologiche, nonché strumenti di azione politica tanto più distorcenti in quanto statisticamente veri, o “oggettivi”, come tipicamente accade per i gruppi individuati dalla pigmentazione. Il riferimento a fenomeni di razzismo, discriminazione etnica e religiosa è ovvio. Ma all’analisi storica non sembra sufficiente, né facile, respingerli se non si tenta di analizzarne i processi interni e la diversa casistica. Se pensi ad esempio agli stati maggiori o ai funzionari coloniali degli imperi multinazionali del XIX secolo che usarono la statistica etnica per costruire piramidi di affidabilità, e quindi in caso di guerra, di trattamenti repressivi, di reclute e popolazioni; a Stalin che fa eliminare tutti i condannati a più di tre anni nei 10 anni precedenti, “risolvendo” così nell’immediato il problema della criminalità (ma creandone una vera e propria fabbrica nei campi, che avrebbe in futuro corroso la società);oppure a certi momenti delle guerre intestine del secolo scorso, quando venivano sterminati coloro che recavano i segni dell’alfabetizzazione (come il portare gli occhiali, come è successo nella Cambogia di Pol Pot, o nella guerra tra Tutsi e Bantu; o anche ai tassisti che rifiutano giovani o passeggeri di colore di notte perché sanno che commettono più frequentemente un certo tipo di reati (si noti che in casi come questo il ragionamento probabilistico scientificamente sofisticato si confonde con la percezione paranoica generando al tempo stesso comportamenti e identità collettive). Restando nel campo delle conseguenze immediate e possibili della categorizzazione collettiva, vale a dire della sua valenza morale e politica, è impossibile fare a meno di notare il suo legame col conflitto, che si basa appunto sulla più semplicistica delle categorizzazioni possibili, quella amico-nemico. Sembra possibile sostenere che questo semplicismo, legato a sua volta al prevalere di una identità e alla sua oggettivizzazione, si sviluppi quasi automaticamente nelle situazioni di tensione o conflitto, veri o presunti, quando esso non solo prevale, ma diventa “vero”, quando cioè il croato, il russo, il musulmano, il passeggero giovane di colore rappresentano un pericolo per il serbo, il tedesco, l’indù, il tassista e viceversa. Ci troviamo quindi di fronte a un meccanismo naturale, su cui è possibile “intervenire”? Qual è la responsabilità dello storico che usa queste categorie, una volta stabilitone il legame e l’affinità con quelle che rendono possibile e alimentano la guerra e il conflitto?
  • Come e quanto è possibile desumere i comportamenti dei gruppi collettivi a partire dai loro interessi e passioni? E come definire questi ultimi, tenendo presente che membri di uno stesso gruppo possono reagire alla stessa “situazione materiale” in modo assai diverso, e che le azioni di uno stesso gruppo (o di parti di esso), in contesti diversi, possono assumere significati opposti (pensiamo ad esempio alle richieste di nazionalizzazione, di contenuto economico-sociale in ambiente omogeneo, che possono trasformarsi in slogan di guerra etnico-religiosa dove la piramide sociale coincide con quella nazionale o, appunto, religiosa)? E ancora, quand’è che un interesse o una passione diventano prevalenti, e fino a che punto e per quanto tempo possono esserlo? E come trattare chi a questi interessi e a queste passioni non soggiace, sapendo che spesso si tratta di casi per nulla affatto isolati, visto che a rappresentare questi “sentimenti” ed a lasciarsi guidare da essi sono spesso minoranze attive e perciò visibili?

Programma

ore 9.30

  • Il Saluto di Tommaso Detti, (Università di Siena, Presidente della Sissco)
  • Presiede Giovanni Sabbatucci (Università di Roma “La Sapienza”)
  • Introduce Raffaele Romanelli (Università di Roma “La Sapienza”)

L’Italia in Europa: gruppi sociali, culture, generi

Intervengono:

Raya Cohen (Università di TelAviv), Stefano Levi Della Torre (Milano)

Ore 13.30 buffet

Ore 14,30

Presiede Tommaso Detti (Università di Siena, Presidente della Sissco)

Europa orientale: tra sociale e nazionale

Intervengono:

Andrea Graziosi (Università di Napoli Federico II), Guido Franzinetti (Università del Piemonte Orientale) e Vanni D’Alessio (Università di Napoli Federico II)

Fuori d’Europa: letture coloniali e costruzioni identitarie

Intervengono:

Marco Buttino (Università di Torino), Sandro Triulzi (Istituto Universitario Orientale di Napoli), Agostino Giovagnoli (Università Cattolica del S. Cuore di Milano)

Segreteria: Emmanuel Betta [emmanuel.betta@uniroma1.it]