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Identità e tradizione letteraria: la Firenze dei colti dall’Unità d’Italia al fascismo

Laura Cerasi

Laura Cerasi

L’espressione “fiorentinità”, estremo concentrato di identità, Ë dichiarata da Emilio Cecchi designare più che un fatto empirico, uno stato d’animo, “una specie di coacervo psicologico”: in quanto tale, vario e polivalente. Questo contributo intende distendere tale polivalenza lungo una polarità di cui identificare le manifestazioni attraverso momenti di un itinerario che va dal periodo postunitario, alla svolta del secolo, al fascismo. Gli estremi di tale polarità possono condensarsi, da un lato, nella concezione della fiorentinità come tratto nativo ed immediato – che peraltro in più punti si interseca con la toscanità -, e dall’altro nella definizione di essa – ancora in questa formulazione dovuta a Cecchi – come “elemento prospettico”, “misura” della messa in relazione dell’uomo con l’ambiente: fiorentinità come “misura delle cose” secondo proporzioni intimamente classiche.
Le manifestazioni di tale polarizzazione assumono nel tempo valenze diverse: se la concezione dell’identità fiorentina come tratto nativo si carica di precise connotazioni ideologiche quando si combina – a inizio secolo – con posizioni biologico-comunitariste, contribuendo alla definizione della cultura del nascente nazionalismo, al contrario la sua rappresentazione come “misura” in un sistema di relazioni ne consente anche una percezione dall’esterno, come forza assimilatrice capace di includere elementi nuovi: come avviene durante la fase positivista dell’Istituto di Studi superiori, animato da grandi personalità (i Pasquale Villari, i Girolamo Vitelli, i Pio Rajna) ”naturalizzate” – appunto – fiorentine.