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Il contesto marshalliano: origine e sviluppo del Welfare State britannico

Luciano Marrocu
La Collana degli Archivi di Stato
Cittadinanza.
Individui, diritti sociali, collettività nella storia contemporanea

a cura di C. Sorba

1. Quando il Welfare State venne introdotto in Gran Bretagna negli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale, se ne parlò come dell’esperienza sino a quel momento più avanzata nel campo dei servizi sociali. Si poteva discutere sul cammino che aveva portato a quella realizzazione, ma nessuno mancava di riconoscerne la straordinaria portata. I laburisti la ascrivevano ovviamente a proprio merito, sottolineando come il Welfare State fosse stato introdotto da un loro governo, il primo laburista nella storia britannica che potesse contare su una solida maggioranza. Quanto ai conservatori, era diffusa la convinzione che un sistema di sicurezza sociale sarebbe emerso in una qualche forma se avessero vinto le elezioni del 1945. Anche i liberali potevano riconoscersi in quelle misure di riforma, visto che esse avevano un importante antecedente in quel vero e proprio “Welfare State in embrione” introdotto tra il 1908 e il 1911 dal governo liberale di Asquith.
Per come lo avevano pensato i laburisti, rifacendosi direttamente al piano Beveridge del 1942, il Welfare State si basava su tre pilastri . Il primo era il National Insurance Act, approvato nel 1946, che dava vita a un esteso sistema pensionistico e forniva un’as-sicurazione generalizzata contro malattie e disoccupazione. Il sistema era a base con-tributiva (con versamenti anche da parte del datore di lavoro e dello Stato), obbligatorio e aperto a tutti i lavoratori. I contributi versati dai lavoratori variavano solo in relazione ad alcune grandi ripartizioni (lavoratori dipendenti, lavoratori autonomi, non occupati), oltre che all’età e al sesso, e vennero fissati a un livello che anche i lavoratori meno retribuiti potevano permettersi. Quanto alle prestazioni, pur aggirandosi intorno al livello della sussistenza, erano decisamente più alte di quelle sino ad allora esistenti. Il National Insurance Act venne completato nel 1948 dal National Assistence Act, destinato sia a integrare le prestazioni del primo quando esse non garantivano la sussistenza, sia a intervenire in favore di coloro che non erano in grado di entrare nel sistema assicurativo. L’accesso alle provvidenze assistenziali contemplate dal National Assistence Act era legato all’accertamento di una condizione di effettiva indigenza. Il terzo e più importante pilastro del sistema di sicurezza sociale era il National Health Service (Servizio Sanitario Nazionale), che venne introdotto nel 1948 dopo un lungo scontro tra il Ministro della Sanità Aneurin Bevan e l’associazione dei medici britannici. Caratteristica fondamentale del nuovo servizio era il fatto che esso fosse pubblico, gratuito e disponibile a tutti. Gli ospedali vennero nazionalizzati, anche se furono consentite una quota di letti a pagamento e forme parziali di esercizio della professione privata. La volontà dei medici di non essere trasformati in stipendiati dallo Stato ebbe alla fine la meglio, per cui venne stabilito che ogni medico di base fosse retribuito in proporzione ai pazienti che aveva in cura.
Accompagnava l’introduzione di questo sistema integrato di sicurezza sociale l’im-pegno del governo per una politica deliberatamente rivolta al pieno impiego. Una disoc-cupazione di massa quale quella che il paese aveva conosciuto nel periodo tra le due guerre non solo avrebbe contraddetto l’obiettivo dichiarato del Welfare State, che era appunto quello di “liberare il cittadino dal bisogno” [1], ma avrebbe gravato sulla macchina assicurativa al punto da impedirle di funzionare.
La legislazione laburista del 1946-1948 produsse un sistema di sicurezza sociale uniforme, fortemente centralizzato e, ciò che più importa, pubblico. Un segno ben diverso aveva avuto l’assistenza ai poveri in epoca vittoriana, con interventi di carattere locale, non coordinati e che assegnavano un largo spazio all’iniziativa volontaria. Ancora negli anni immediatamente precedenti la prima guerra mondiale, la spesa complessiva di associazioni filantropiche, società di mutuo soccorso e simili sopravvanzava di gran lunga le somme impiegate in applicazione alla Poor Law (Legge sui poveri) del 1834, che a loro volta erano superiori a quelle spese centralmente dallo Stato.

“Per quanto imperfetta nel venire incontro ai bisogni dei suoi beneficiari – ha scritto al riguardo J. Harris – questa massa di istituzioni volontarie e locali, costituiva molto chiaramente parte integrante della struttura sociale e della cultura civica del paese. Esprimeva e rafforzava la distribuzione del potere e delle risorse, le relazioni di classe e di patronato, norme di comportamento e identità comunitarie. Era anche strettamente interrelata con il sistema di libertà naturale e personale attraverso cui molti cittadini britannici pensavano che le loro vite si differenziassero da quelle del resto del mondo” [2].

Una svolta significativa venne dalle riforme liberali del primo anteguerra. Nel 1908 venne approvato l’Old Age Pension Act che prevedeva una pensione di vecchiaia com-pletamente finanziata dallo Stato e riservata a coloro che avessero compiuto i settanta anni. La pensione era destinata agli anziani a basso reddito e una sorta di scala mobile regolava la concessione di pensioni ridotte alla fascia che godeva di entrate tra le 21 e le 31 sterline annuali. Pur essendo insufficiente da sola a garantire la sopravvivenza, la pensione dello Stato rappresentava un indubbio progresso rispetto al recente passato: bisognava essere molto poveri e molto vecchi per percepirla, ma, per la prima volta, godere di una forma di assistenza pubblica non si associava alla perdita di rispettabilità che segnava i fruitori della Poor Law (tra l’altro, a sottolineare la sua estraneità alle forme tradizionali di assistenza ai poveri, venne stabilito che la pensione fosse pagata negli uffici postali). Come ebbe a dire il suo creatore, l’allora Cancelliere dello Scacchiere Lloyd George, l’Old Age Pension Act interveniva in favore “di un’area di povertà e di emarginazione troppo orgogliosa per indossare il distintivo del pauperismo” [3].
Il National Insurance Act, che venne approvato nel 1911, dava vita a un sistema assicurativo contro la malattia e la disoccupazione. La prima parte della legge prevedeva per i lavoratori dipendenti con una retribuzione al di sotto di 150 sterline all’anno una assicurazione sanitaria a base contributiva (su nove pence settimanali, quattro erano versate dai lavoratori, il resto dai datori di lavoro e dallo Stato), che dava diritto in caso di malattia sia a un sussidio settimanale sia alle cure mediche (escluse però quelle ospe-daliere ed esclusi i familiari del lavoratore assicurato). Relativamente alla disoccupazione, la legge operò una scelta generale in favore di una forma volontaria di assicurazione, limitandone l’obbligatorietà alle aree più esposte al fenomeno (edilizia, costruzioni navali, industria meccanica, siderurgia, industria molitoria). Si trattava anche in questo caso di un meccanismo di tipo contributivo, a cui, come nel caso dell’assicurazione sanitaria, par-tecipavano, oltre i lavoratori, anche i datori di lavoro e lo Stato.
La decisione del governo liberale di Asquith e Lloyd George di dare una base contributiva alla nascente macchina di sicurezza sociale fu oggetto di numerose critiche da sinistra, e l’aver fissato un versamento uguale per tutti, indipendentemente dal reddito, venne considerato una forma di prelievo di fatto regressivo. Lloyd George difese a spada tratta la sua legge. Nel meccanismo contributivo vedeva il fondamento di una sicurezza sociale non più concessa dall’alto, alla maniera della Poor Law vittoriana, ma un diritto. Allo stesso tempo, riconoscendo i limiti del sistema creato dal National Insurance Act, ne auspicava sviluppi futuri:

“L’assicurazione è di necessità un espediente temporaneo. In una data non lontana lo Stato si assumerà la piena responsabilità di provvedere alle necessità generate da malattia, infortuni, disoccupazione. Lo fa ora attraverso la Poor Law , ma le condizioni in cui il sistema ha sino ad oggi lavorato sono state così dure ed umilianti che l’orgoglio della classe operaia si rivolta contro l’accettazione di una tale dubitabile e degradante provvidenza. Gradualmente lo Stato si assumerà l’obbligo di trovare il lavoro ai cittadini o di garantirne il sostentamento. L’assicurazione non sarà a quel punto necessaria” [4].

Già allora, però, il sistema di previdenza sociale britannico rappresentava un’esperienza d’avanguardia, sia per la scala dell’intervento sia per il ruolo assunto dallo Stato. Solo la Danimarca superava la Gran Bretagna nella percentuale di lavoratori inclusi nel sistema pensionistico e coperti dall’assicurazione sanitaria [5]. In quest’ultimo settore, le riforme liberali lasciarono ampio spazio ad agenzie non governative (quali sindacati, società di mutuo soccorso e soprattutto compagnie di assicurazione a carattere commerciale), ma era lo Stato che esercitava una supervisione generale. Quanto alle pensioni, erano sotto il diretto controllo della macchina statale.
Alla spalle della vigorosa iniziativa riformistica degli anni 1908-1911 c’era la con-vinzione, sempre più diffusa anche all’interno del Partito liberale, che la disoccupazione, da tempo riconosciuta come una delle principali cause di povertà, fosse in gran parte dei casi involontaria. Un’idea esattamente opposta all’assunto da cui era partita la Legge sui poveri del 1834 e la sua istituzione più tipica, la Workhouse. Quest’ultima – con le sue durezze e la perdita di dignità che veniva associata al fatto di esservi ricoverati – era stata considerata dai sostenitori della legge come uno strumento per spingere al lavoro i disoccupati prospettando loro condizioni di assistenza assolutamente scoraggianti (era questo il principio della less eligibility, il principio per cui qualunque forma di assistenza pubblica doveva essere “meno preferibile” del più duro dei lavori disponibile sul mercato).

“Con la legge del 1834 – ha scritto in proposito T.H. Marshall – la legislazione sui poveri rinunciò ad ogni pretesa di violare il territorio del sistema salariale o di interferire nelle forze del libero mercato. Essa offrì assistenza solo alle persone che per vecchiaia o malattia, non erano in grado di proseguire la battaglia, e agli altri deboli che rinunciavano alla lotta, ammettevano la sconfitta, e chiedevano pietà” [6].

In realtà l’applicazione della legge risultò sin dall’inizio problematica e alquanto disuguale negli effetti e già alla fine dell’Ottocento essa era messa in discussione dalla crescente preoccupazione umanitaria nei confronti dei poveri. Sottoposta all’assalto dei radicali (capaci, a volte, come nel caso del quartiere londinese di Poplar, di impadronirsi dei suoi comitati di gestione promuovendo attraverso essi forme di assistenza basate, invece che sul ricovero nell’ospizio dei poveri, su integrazioni del reddito), svuotata di alcune delle sue attribuzioni più importanti dall’introduzione di pensioni e assicurazioni sociali, la Poor Law continuò a essere formalmente in vigore ancora tra le due guerre ma già negli anni precedenti la prima guerra mondiale si avviava a diventare un guscio vuoto. Che era poi ciò che aveva chiesto Beatrice Webb nella relazione di minoranza presentata alla fine dei lavori della Royal Commission on the Poor Law (Commissione Reale sulla Legge sui Poveri, 1905-1909), quando aveva prefigurato la possibilità di disfarsi della macchinosa e costosa struttura prevista dalla legge e di sostituirla con un certo numero di dipartimenti governativi incaricati di occuparsi ognuno di una specifica causa di povertà: un dipartimento scolastico, uno sanitario, uno relativo all’assistenza psichiatrica, uno relativo alle pensioni. Ma Beatrice Webb era andata ben oltre la diffusa esigenza di razionalizzare l’intervento pubblico nel campo dell’assistenza sociale. Quella contenuta nel rapporto di minoranza era infatti una critica radicale alla tradizionale visione dei poveri come classe separata dal resto della società. A cui veniva contrapposto il disegno di un sistema di assistenza e prevenzione rivolto a un soggetto che non era più “il povero” ottocentesco, ma qualunque individuo fosse caduto, anche solo per poco tempo, sotto “uno standard minimo nazionale di vita civilizzata”. Non si trattava dunque di assistere determinate categorie di persone, quanto di individuare diffusi bisogni sociali – di salute, di istruzione, di sicurezza, di lavoro – e dare a questi bisogni una risposta complessiva. Ancora molti anni dopo la pubblicazione del suo Rapporto di minoranza, la Webb avrebbe rivendicato con orgoglio la novità di quel documento e di una concezione che aveva posto il diritto degli individui ad essere assistiti dallo Stato come un “attributo della cittadinanza” [7].
2. Sin da quando il Welfare State entrò in vigore nel secondo dopoguerra fu sottolineato come esso modificasse in profondità i rapporti tra l’individuo e lo Stato. Nell’analisi di T.H. Marshall – che il sociologo affidò a una serie di lezioni tenute a Cambridge nel 1949 – la creazione del Welfare State costituiva il presupposto di una cittadinanza pienamente realizzata. Marshall distingueva, ponendoli in successione storica, tre tipi di diritti: quelli alla base di una piena affermazione della libertà individuale (“libertà personali, di parola, di pensiero e di fede, il diritto di possedere cose in proprietà e di stipulare contratti validi, e il diritto di ottenere giustizia”), che chiamava diritti civili; i diritti politici: “il diritto di partecipare all’esercizio del potere politico, come membro di un corpo investito di autorità politica o come elettore dei membri di tale corpo”; e infine i diritti sociali: “l’insieme di diritti che va dal diritto a un minimo di benessere economico e alla sicurezza, al diritto a partecipare pienamente al retaggio sociale [social heritage] e a vivere la vita di un essere civile secondo gli standard prevalenti nella società” [8]. La piena appartenenza alla comunità (“full membership of the societal community”, nelle parole di Marshall ) trovava così il suo compimento nell’opportunità di accedere ai servizi e alla rete di sicurezze fornite dal Welfare State.

“La formulazione di Marshall – ha scritto al riguardo David Marquand – interpretava meglio di ogni altra le aspirazioni incorporate nel Welfare State. Il ricco e il povero avrebbero ritirato la stessa pensione alla posta e seduto l’uno vicino all’altro nella sala d’attesa del dottore. Non sarebbero stati meno poveri o meno ricchi per questo, ma sarebbero stati molto più cittadini di una stessa comunità” [9].

Marshall non aveva dubbi che, dando al cittadino un’uguaglianza di status rispetto a certi diritti (stessa pensione, stesso accesso al servizio medico), il Welfare State avrebbe determinato una “grande estensione dell’area della cultura e dell’esperienza comuni”, la quale a sua volta avrebbe contribuito a mantenere la coesione sociale [10]. Ne derivava che il Welfare State poteva anche essere considerato come una sorta di tributo pagato dalle classi dominanti alla stabilità e alla sopravvivenza stessa del capitalismo.
In questa chiave, rivestiva una decisiva importanza il carattere “universalistico” dei servizi offerti, il fatto cioè che essi non fossero rivolti selettivamente a gruppi sociali economicamente o socialmente deprivilegiati ma, nello stesso modo, a tutti i cittadini [11]. Nel campo della sicurezza sociale, ciò comportava che il sistema nazionale riguardasse lavoratori manuali e non manuali, dipendenti e autonomi. Comportava inoltre che i versamenti assicurativi, e di conseguenza le prestazioni, fossero uniformi (almeno per grandi categorie) , e comunque indipendenti dai salari e dai guadagni. Col tempo sarebbero emerse più chiaramente alcune conseguenze negative di questa impostazione. Scegliere che i contributi assicurativi fossero uguali per tutti costrinse di fatto a commisurarli ai salari più bassi, con la conseguenza di dover mantenere a un livello altrettanto basso le relative prestazioni (dai sussidi di disoccupazione alle pensioni). Nell’opinione di una parte dei conservatori il difetto maggiore della macchina previdenziale messa in piedi dai laburisti era proprio questo carattere universalistico, il fatto cioè che essa destinasse ai ceti medi risorse che si sarebbero potute indirizzare più utilmente ai “veramente poveri”. Un sistema previdenziale di tipo selettivo avrebbe però comportato l’accertamento delle reali condizioni di bisogno da parte dei soggetti assistiti, in altre parole una riedizione dell’odiatissimo means test (accertamento dei mezzi di sussistenza) a cui durante la gran-de crisi degli anni Trenta era stata condizionata la concessione del sussidio di disoccupazione [12].
Anche a proposito del Servizio Sanitario Nazionale, venne sottolineato come esso non fosse riservato alle fasce inferiori di reddito ma disponibile a tutti. La grande popolarità che ebbe sin dall’inizio il NHS nasceva dalla constatazione di quanto pesasse il denaro nell’accesso alle cure mediche.

“Una delle conseguenze della necessità di dover pagare delle prestazioni mediche – disse nel 1946 Aneurin Bevan, allora Ministro della Sanità e creatore del Servizio Sanitario Nazionale – è che, in aggiunta alla naturale ansia sul proprio stato di salute, c’è anche il problema di dover pagare la parcella del dottore. Una persona dovrebbe essere in grado di ricevere assistenza medica e ospedaliera senza che questo comporti un’ansietà di tipo economico” [13].

Il NHS prometteva di sottrarre la salute del cittadino ai condizionamenti di una società divisa in classi: con il NHS, sia i ricchi che i poveri avrebbero ricevuto lo stesso tipo di assistenza medica. Appunto in questo suo carattere “universalistico”, un altro eminente studioso del Welfare State, Richard Titmuss, vide la fonte del diffuso e persistente favore di cui godeva il sistema sanitario nazionale. Il cittadino-contribuente era maggiormente portato a dare il suo apporto, tramite il fisco, al funzionamento del NHS proprio in quanto suo utente [14]. Anche al Servizio Sanitario Nazionale, d’altra parte, venne applicata la considerazione di matrice fabiana per cui un servizio sociale riservato esclu-sivamente ai poveri era fatalmente destinato a essere un servizio di scarsa qualità.
Il NHS fu visto da T.H. Marshall come la struttura portante del Welfare State e la più capace di esprimerne concretamente la filosofia “universalistica”. Sotto il profilo pu-ramente economico, non si poteva certo dire che il Servizio Sanitario Nazionale portasse a diminuire la sperequazione dei redditi, che anzi il fatto che un servizio finanziato dallo Stato venisse esteso da un gruppo a reddito limitato all’intera popolazione aveva semmai effetti contrari (i componenti delle classi medie, che avevano sino ad allora pagato il medico, potevano destinare altrove quella parte del loro reddito). Ma non era questo che contava.

“L’estensione dei servizi sociali – sosteneva Marshall – non è in prima istanza un mezzo per livellare i redditi. In certi casi può portare a questo risultato, in altri no.(…) Ciò che importa è che vi è un generale arricchimento della sostanza concreta della vita civile, una riduzione generale del rischio e dell’incertezza, un livellamento tra i più fortunati e i meno fortunati, in tutti i settori: fra sani e malati, occupati e disoccupati, vecchi, persone attive, scapoli e capi di famiglie numerose. Il livellamento non avviene tanto tra le classi quanto tra gli individui nell’ambito di una popolazione che viene trattata adesso a questo fine come se fosse una classe sola. L’uguaglianza di status è più importante dell’uguaglianza di reddito” [15].

3. È stato più volte sottolineato come la creazione del Welfare State abbia avuto una premessa decisiva nell’esperienza della seconda guerra mondiale e in particolare nel dominante senso di solidarietà sociale con cui vennero affrontati i bombardamenti, il razionamento, le evacuazioni forzate. L’organizzazione del fronte interno subì il riflesso di questa spinta a una maggiore uguaglianza [16]. Da qui l’attesa che il livello di coesione e di egualitarismo ottenuto nelle circostanze eccezionali della guerra non andasse perduto con la fine del conflitto e che anzi la pace avrebbe segnato l’inizio di una nuova stagione di riforme sociali. È in questo contesto che deve essere collocato il Rapporto Beveridge e l’enorme successo (800.000 copie vendute nel solo 1942) che esso ebbe all’indomani della sua pubblicazione. Non solo il Rapporto Beveridge (che lo studioso pubblicò alla fine del 1942 nell’ambito di un’inchiesta voluta dal governo sul sistema previdenziale) preparò l’opinione pubblica a quei provvedimenti, ma ne ispirò in larga misura il contenuto. Riconducevano direttamente a Beveridge, in particolare, sia la scelta di un sistema di previdenza sociale fortemente integrato (dall’assicurazione contro la disoccupazione alla pensione) e basato su un contributo unico, sia l’idea di un Sistema Sanitario Nazionale pubblico e aperto a tutti. Proprio l’applicazione rigorosa del principio universalistico, oltre che la visione d’insieme del problema, rappresentarono i contributi più innovativi dati da Beveridge. Per il resto, William Beveridge rielaborava l’esperienza del governo liberale di Asquith e Lloyd George, che nel primo anteguerra aveva introdotto una macchina di previdenza sociale gestita dallo Stato. Dal National Insurance Act del 1911, Beveridge aveva tratto l’idea di una macchina previdenziale su basi contributive, la stessa che avrebbe presieduto al National Insurance Act del 1946. Non a caso Beveridge, riferendosi al suo Rapporto, scriveva nel 1943 di essere sicuro trattarsi “di buona dottrina liberale” [17].
All’elaborazione di questa “buona dottrina liberale” Beveridge aveva dato un im-portante contributo, collaborando strettamente col governo di Asquith e Lloyd George alla creazione nel Regno Unito del primo sistema pubblico di previdenza. La posizione e il prestigio che Beveridge si era già allora ritagliato nel campo della ricerca sociale gli derivavano da un’indagine con cui aveva dimostrato la diffusa e persistente presenza di forme di disoccupazione connaturate al funzionamento stesso del mercato del lavoro. Beveridge aveva individuato nelle aree caratterizzate da una forte presenza di lavoro avventizio quelle in cui questo tipo di disoccupazione, per così dire strutturale, era particolarmente diffusa e le aveva legate alla mancanza di un flusso di informazioni capaci di mettere in relazione la domanda di mano d’opera con quella d’impiego. Da qui la proposta (che aveva compiutamente espresso nel 1909 in un libro dal titolo Unem-ployment: A Problem of Industry) dei labour exchanges, centri di collocamento gestiti pubblicamente. “Lo scopo di questo sistema – aveva scritto in Unemployment – non è semplicemente la fluidità ma l’organizzata e intelligente fluidità del lavoro, cioè a dire rendere capaci i lavoratori di andare laddove sono richiesti, ma allo stesso tempo scoraggiarli dall’andare dove non lo sono” [18]. Anticipando il destino di altre proposte dello stesso Beveridge, l’idea dei labour exchanges venne ripresa dal governo liberale in carica che gliene affidò la realizzazione. I sindacati mostrarono invece una forte dif-fidenza nei confronti di questa nuova istituzione, che sospettavano potesse essere utilizzata in azioni di crumiraggio, mentre tra i laburisti venne riaffermata la tesi che “quando la produzione è rivolta al profitto allora non mancherà mai una certa quota di forza lavoro disoccupata a cui il capitalista può attingere quando gli piace, e che gli consentirà di determinare i salari” [19]. Era tuttavia significativo che nel 1914 i labour exchanges registrassero una media di due milioni di lavoratori all’anno e trovassero circa tremila posti di lavoro al giorno [20].
Pur avendo dimostrato che la disoccupazione era legata al modo di funzionare del mercato del lavoro, Beveridge rimase a lungo fedele alla ortodossia economica neo-classica. Lo ha sottolineato Ester Fano, quando ha scritto che Beveridge “proprio nel periodo tra le due guerre ha continuamente espresso la preoccupazione che le riforme sociali danneggiassero il libero mercato”, arrivando a “propugnare il laissez-faire a oltranza all’epoca in cui Keynes pubblicava La fine del laissez-faire (…)” [21]. Ma negli anni della guerra Beveridge ebbe un radicale ripensamento, al punto da ritenere che il sistema di previdenza sociale delineato nel suo Rapporto presupponesse, come base indispensabile, una politica di pieno impiego. Dopo la pubblicazione del Rapporto, a causa del radicalismo dei suoi propositi, non ricevette l’incarico di dirigere la ricerca sul tema della piena occupazione prevista come continuazione della precedente indagine. Riuscì comunque a realizzarla con finanziamenti privati e la collaborazione di una nuova giovane leva di economisti di cultura keynesiana e laburista, tra cui Nicolas Caldor e Joan Robinson. Full Employment in a Free Society venne pubblicato da Beveridge alla fine del 1944 e per quanto molto meno noto al grande pubblico del Rapporto, sarebbe risultato altrettanto importante nel delinerare i tratti del Welfare State classico. Come ebbe a precisare lo stesso Beveridge, la sua proposta non si limitava ad auspicare una politica di lavori pubblici in funzione anticiclica ma consisteva in una una vera e propria “politica del pieno impiego, capace di ottenere in permanenza più posti di lavoro vacanti che non lavoratori privi di occupazione” in un contesto di accrescimento della ricchezza sociale [22].
Vi era uno strettissimo legame tra il sistema di previdenza sociale previsto dal Rapporto e la politica del pieno impiego. I sussidi di disoccupazione, sosteneva Beveridge, potevano servire a fronteggiare un’emergenza, ma sul lungo periodo avevano un effetto demoralizzante. “La sicurezza del reddito – scriveva –, che è tutto ciò che può essere dato da una assicurazione sociale, è uno strumento così inadeguato al raggiungimento della felicità umana che ben difficilmente vale la pena di farne la sola o la principale misura di ricostruzione”. La partecipazione al processo produttivo era l’unico modo attraverso cui l’individuo poteva affermare il proprio ruolo all’interno della comunità e realizzare se stesso [23]. C’era poi un altro motivo per cui Beveridge considerava il regime di piena occupazione come un presupposto indispensabile per il funzionamento dei suoi schemi previdenziali. Non diversamente dai suoi contemporanei aveva ben presente la disoc-cupazione di massa degli anni tra le due guerre, e gli era ben chiaro come il ripetersi di una simile circostanza avrebbe messo in ginocchio il sistema assicurativo delineato nel Rapporto .
Pieno impiego e Welfare State, d’altra parte, rientravano in una logica che il Partito laburista aveva fatto propria sin dal manifesto elettorale del 1945, una logica per cui le asprezze e le diseguaglianze generate dal capitalismo dovevano essere bilanciate dalla concreta affermazione di alcuni basilari diritti sociali. In questa chiave – che il Labour Party esplicitò pienamente solo negli anni Cinquanta, con la leadership di Hugh Gaitskell e il revisionismo socialdemocratico di Antony Crosland – il Welfare State finiva per essere al centro del progetto della socialdemocrazia keynesiana. Il fatto che la soddisfazione di una serie di bisogni primari – sicurezza, salute, educazione – non dipendesse dal-l’arbitrarietà del mercato ma fosse invece affidata a una responsabilità collettiva modificava in profondità la natura stessa del capitalismo, contribuendo in maniera decisiva alla sua “civilizzazione”. Se, come aveva sostenuto Marshall, nella prima parte del ventesimo secolo, la cittadinanza sociale e il sistema di classe capitalistico si erano spesso trovati in aperto conflitto, l’introduzione del Welfare State aveva rappresentato una importantissima modificazione che la prima aveva imposto al secondo [24].
Che in questa sua “civilizzazione” il capitalismo trovasse numerosi vantaggi, tra cui, non ultimo, quello di scaricare sul settore pubblico parte dei costi di riproduzione della forza lavoro, era qualcosa che i socialdemocratici keynesiani non avevano nessuna difficoltà ad accettare [25]. D’altra parte, secondo loro, la crescita economica costituiva una in-dispensabile premessa del sistema di Welfare, anche perché forniva le risorse per tenerlo in piedi. Inoltre, uno sviluppo generalizzato dei consumi aveva di per se stesso l’effetto di rendere meno marcate le differenze sociali, visto che le fasce a più basso reddito pre-sentavano una tendenza marginale al consumo maggiore di quella delle fasce superiori. Senza crescita economica, affermava Crosland, l’obiettivo di una maggiore eguaglianza sociale sarebbe stata una vana illusione. Anche all’interno di un’economia di mercato, dunque, c’erano ampi spazi per perseguire una più equa distribuzione del reddito, di cui il Welfare State costituiva un fattore decisivo.

4. Interrogandosi sui motivi per cui alla metà degli anni Settanta il Welfare State ( o perlomeno la versione classica del Welfare, quella beveridgiana) dovette affrontare le sue prime gravi difficoltà, si potrebbero individuare diversi fattori, ma uno mi pare il più significativo. Con la crisi petrolifera iniziata nel 1973 e la successiva recessione del 1973-1975 l’economia britannica entrò in una fase fortemente segnata dal crescere sia dell’inflazione che della disoccupazione, una situazione di fronte alla quale le politiche keynesiane di sostegno alla domanda interna furono messe in discussione anche da una parte dei loro tradizionali sostenitori . La “crisi del Welfare State”, di cui si cominciò a parlare ampiamente in quegli anni, apparve così a molti il risultato dello spezzarsi del circolo virtuoso keynesiano per cui la crescita economica rendeva possibile una forte spesa sociale, mentre questa, a sua volta, alimentava la crescita. Soprattutto l’aumento della disoccupazione sembrò generare condizioni di obiettiva difficoltà, anche perché, oltre al rallentamento dell’economia, c’erano alla base cause di carattere strutturale (disoccupazione tecnologica), demografiche (disoccupazione giovanile), sociali (disoc-cupazione legata a una maggiore presenza femminile nel mondo del lavoro). L’effetto combinato del rallentamento dell’economia , che determinò una diminuzione delle entrate, e della disoccupazione di massa, con i conseguenti carichi sulla spesa sociale, pose così i governi – in particolare quelli laburisti di Wilson (1974-1976) e Callaghan (1976-1979) – di fronte a una crisi dei bilanci pubblici [26].
Molti cominciarono a chiedersi se le difficoltà dell’economia mondiale non finissero per portare allo scoperto problemi che, almeno in una certa misura, erano già implici nelle fondamenta stesse del sistema di sicurezza sociale costruito dai laburisti nel dopoguerra. In effetti, a partire dagli anni Settanta, cominciarono a essere intaccati il generale consenso e l’ampia legittimazione che l’avevano sino ad allora circondato [27]. Al centro del consenso c’era stata l’idea (elaborata da T.E. Marshall sul versante delle scienze sociali e da Antony Crosland su quello della teoria politica) che il Welfare State sapesse mettere insieme capitalismo e responsabilità sociale, mercato e uguaglianza delle opportunità. Fu appunto questa idea a essere messa in discussione. Se è vero che il peso (crescente lungo tutta la prima parte del secolo) ricoperto dalla fiscalità generale nel finanziare il Welfare State era basato sulla solida legittimazione di cui godeva una forma di tassazione incentrata, in proporzione maggiore di altri paesi, sull’imposta personale sul reddito, la mes-sa in discussione di questo modello non poté non trasferirsi su un sistema di sicurezza sociale dai costi in aumento [28]. Settori sempre più larghi della classe media cominciarono a lamentarsi di una pressione fiscale la cui crescita legavano all’espansione del Welfare State. D’altra parte – si sosteneva – più i governi avevano speso nel campo della protezione sociale, più si erano impegnati nel mantenimento del pieno impiego, più si erano trovati a dipendere dal consenso dei gruppi direttamente coinvolti in queste politiche. Sindacati, settori professionali impegnati nella gestione del Welfare State (medici, infermieri, assistenti sociali), vasti settori dell’apparato statale avevano premuto con suc-cesso per un aumento della spesa pubblica. Da qui la crescita della pressione fiscale e dell’indebitamento [29]. A queste critiche incentrate sui costi, se ne aggiungevano altre volte a mettere in discussione la legittimità stessa di un sistema che forniva servizi sociali senza adeguate verifiche di necessità. L’idea che prendeva corpo era quella di un Welfare State riservato alle classi lavoratrici, come transizione verso una sua progressiva liquidazione quando gran parte della popolazione fosse stata in grado di pagarsi autonomamente assistenza sanitaria, istruzione, formazione professionale [30].
Il nuovo flusso di critiche nei confronti del Welfare State risultava tanto più notevole in quanto proveniva anche da quei settori politici e intellettuali che sino a quel momento lo avevano sostenuto. A sinistra si mise in luce come, a trent’anni dalla sua introduzione, il Welfare State né avesse eliminato la povertà né significativamente abbattuto le differenze sociali. Rispetto ai tempi delle grandi inchieste dell’età tardo-vittoriana, erano cambiati i modi di considerare e classificare la povertà. I poveri che Peter Townsend aveva rivelato al paese nella sua inchiesta della fine degli anni Settanta erano poveri per così dire “relativi” (poveri perché, secondo la sua famosa formula, impossibilitati ad accedere agli standard di vita e di consumo “che sono abituali, o almeno largamente incoraggiati o approvati, nelle società a cui appartengono” [31]), di una poverta cioè diversa da quella assoluta che Seebhon Rowntree aveva scoperto nello York d’inizio secolo. Si disse poi, sempre a sinistra, che proprio per il suo carattere universalistico (offrendo, ad esempio, un servizio sanitario gratuito a tutti) il Welfare britannico aveva sproporzionatamente favorito i ceti medi. È di quegli stessi anni Settanta una critica globale del Welfare State, che veniva interpretato come il prodotto della “socializzazione dei costi di capitale del-l’investimento sociale”, in un sistema in cui “sebbene lo stato venisse socializzando costi di capitale sempre maggiori, il sovrappiù sociale (profitti compresi) continuava ad essere oggetto di appropriazione privata”. Ne conseguiva, secondo una formula corrente in quegli anni, la “crisi fiscale dello Stato”, un gap strutturale tra le entrate e le uscite dello Stato per cui “le spese statali tendevano ad aumentare più rapidamente dei mezzi atti a finanziarle” [32].
Le critiche da sinistra paradossalmente favorirono l’offensiva che la destra neo-conservatrice andava, proprio a partire da quegli anni, muovendo contro il Welfare State. Era una offensiva che riguardava la sua sostenibilità (secondo una versione particolarmente corrosiva di questa critica, l’alta spesa sociale toglieva risorse alla crescita economica) e la sua inefficienza, ma colpiva anche la sua sostanza ideologica: il welfarismo – secondo quanto sostenevano i neo conservatori – era responsabile del diffondersi di un atteggiamento di dipendenza nei confronti dell’assistenza pubblica.
Queste e altre critiche confluirono più tardi nella politica attuata da Margaret Thatcher nei confronti del Welfare State, che sembrò a un certo punto potesse portare alla sua liquidazione. Così non fu in realtà, anche se non possono essere sottovalutati i profondi cambiamenti che (soprattutto nel suo terzo mandato) la Thatcher introdusse nel sistema dei servizi sociali britannico. Secondo un’analisi comparativa condotta su Gran Bretagna, Stati Uniti, Svezia e Germania relativamente agli anni 1974-1990, in nessuno di questi stati si è avuto nulla di assimilabile a un effettivo smantellamento del Welfare State. Nel caso britannico, tutti i principali indicatori del livello della spesa sociale risultano o stabili o in leggerissmo decremento. Mettendo poi a confronto il 1979 e il 1990 – il primo e l’ultimo anno della permanenza di Margaret Thatcher a Downing Street – emergono un leggero aumento nella spesa sanitaria, decrementi quasi insignificanti nel campo dell’educazione, degli assegni familiari, dei sussidi di disoccupazione e una caduta signi-ficativa solo nel settore dell’edilizia pubblica [33]. Quest’ultimo dato può essere spiegato dall’applicazione del Housing Act del 1980 che rese possibile negli anni successivi la vendita agli occupanti di circa un milione e mezzo di case di proprietà pubblica. Fu comunque una situazione non ripetibile, quella che consentì di liquidare un così consistente patrimonio pubblico, offrendo considerevoli vantaggi sia agli acquirenti delle case (a cui furono vendute con riduzioni sul prezzo di mercato proporzionali al periodo di tempo in cui le avevano abitate), sia ai contribuenti. Per il resto, proprio un caso come quello della Gran Bretagna degli anni della Thatcher mette in luce le condizioni di base che nei paesi di consolidata democrazia favoriscono la tenuta del Welfare State. Ha scritto al riguardo P.Pierson:

“Ci sono forze potenti a favore della stabilizzazione del Welfare State (…). La prima consiste nelle tendenze generalmente conservatrici delle istituzioni democratiche. Il Welfare State è ora lo status quo, con tutti i vantaggi che questa condizione comporta(…). Dove il potere è diviso tra differenti istituzioni, radicali riforme risulteranno difficili. Ma, come il caso (….) britannico dimostra, cambiamenti radicali non sono facili anche in situazioni di concentrazione del potere politico. Una seconda e cruciale fonte della forza politica del Welfare State viene dagli alti costi elettorali generalmente associati con la sua restrizione (…). Coloro che godono dei benefici del Welfare State sono relativamente concentrati e sono generalmente bene organizzati (…). Né la posizione del Welfare State sembra essere seriamente erosa – almeno nel medio termine – dal declino della sua area di sostegno chiave, il lavoro organizzato. Solo per quelle forme di intervento sociale per cui i sindacati rappresentano l’unica forza in difesa, come i sussidi di disoccupazione, il declino del movimento operaio costituisce un problema reale (…). La crescita della spesa sociale ha ridisegnato il terreno della politica del Welfare State. La maturazione di programmi sociali produce nuovi interessi organizzati – i consumatori di questi programmi e coloro che lavorano ad essi – che sono solitamente ben piazzati per la difesa del Welfare State” [34].

L’analisi di Pierson ci permettere di valutare meglio i motivi per cui all’offensiva ideologica contro il Welfare State mossa dalla Thatcher non abbia poi corrisposto il suo smantellamento [35]. Ciò non toglie però che tra il 1979 e il 1991 il sistema di sicurezza sociale abbia subìto alcuni significativi cambiamenti, in particolare nel settore delle pensioni, della sanità e della scuola, con meccanismi che permettono di uscire vantaggiosamente dal sistema pubblico per accedere a forme di previdenza e a servizi gestiti da agenzie private o comunque non statali. Dal 1979 al 1991, per fare solo un esempio, il numero di coloro che avevano contratto assicurazioni sanitarie private era cresciuto da un milione a tre milioni. Ma l’uscita dal sistema pubblico risulta in queste aree una opzione per i più troppo costosa, per cui è evidente che accanto a un sistema di Welfare statale riservato alle fasce di reddito più basso si è andato sempre più allargando una sorta di Welfare alternativo. Si può dunque arrivare alla conclusione che se con la Thatcher un Welfare State è rimasto in piedi, esso si è distanziato abbastanza dal principio universalistico su cui era stato fondato negli anni Quaranta.
Lo stesso Partito laburista, d’altra parte, si è da tempo allontanato dalle implicazioni più radicali dell’universalismo, nella convinzione che, venuto meno il contesto alla base del Welfare State “classico”, fosse indispensabile una mutazione di rotta. Nei paesi industralizzati, l’invecchiamento complessivo della popolazione, il tramonto del tipo di famiglia incentrata sul lavoratore maschio con moglie e figli “a carico”, la perdita di centralità di modelli occupativi basati su una sostanziale stabilità del posto di lavoro intervallata da brevi periodi di disoccupazione, hanno minato alla base l’idea stessa di un Welfare State “dalla culla alla bara” [36]. Per cui gran parte dei laburisti, e il governo di Tony Blair in particolare, si stanno muovendo verso quello che è stato definito un “riorientamento selettivo” del sistema welfaristico, rivolto, oltre che a un contenimento dei suoi costi, ad accrescerne le funzioni redistributive. Collegata a questo riorientamento, l’adozione di un nuovo linguaggio della “scelta” e della “responsabilità” che, mentre riafferma tra i doveri dello Stato la protezione delle persone più vulnerabili, invita i cittadini a una maggiore iniziativa individuale all’interno di un sistema di servizi sociali sempre più articolato e pluralistico. Non manca insomma nel nuovo approccio laburista ai problemi della sicurezza sociale un accento sul tema della “autonomia individuale” e sul pericolo di degrado morale che può derivare da una eccessiva dipendenza dall’assistenza pubblica che riporta a temi e linguaggi vittoriani (prima ancora che thatcheriani). Se il Labour vecchio stile era portato a considerare i diritti sociali come rivendicazioni incondizionate, il New Labour insiste sul rapporto tra diritti e responsabilità individuali. Questo nella convinzione che partecipazione attiva e libertà di scelta all’interno di un sistema pluralistico (ma con un forte nucleo di servizi sociali gestito direttamente dallo Stato) costituiscano l’unico antidoto sia a un Welfare centralistico e sovradimensionato, e come tale non sostenibile, sia al tentativo di ritornare a politiche di laissez-faire che finirebbero per lasciare indifesi i più svantaggiati.

NOTE
1- The Labour Party, The Welfare State, London, 1952.
2- Cfr. J. HARRIS, Political thought and the Welfare State 1870-1940: an intellectual framework for british social policy, in “Past and Present”, maggio 1992, 135, pp.116-117.
3- Citato in D. FRASER, The Evolution of the British Welfare State, London, Macmillan, 1975, p. 143.
4- Citato in H.N. BUNBURY, Lloyd George Ambulance Wagon, London, 1957, pp.121-122.
5- Per un raffronto su scala europea cfr. R. LOWE, The State and the Development of Social Welfare, in M. PUGH, a cura di, A Companion to Modern European History 18771-45, Oxford, 1997, p. 61.
6- T.H.MARSHALL, Cittadinanza e classe sociale, Torino, UTET, 1976, p. 19.
7- Sulla Royal Commission on the Poor Law si veda A.M. McBRIAR, An Ewardian Mixed Doubles: The Bosanquet vs the Webbs. A Study in British Social Policy 1890-1929, Oxford, 1987. Più in particolare su Beatrice Webb e sul suo “Rapporto di minoranza” si rinvia a L. MARROCU, Il salotto della signora Webb, Roma, Editori Riuniti, 1992, pp. 130-134.
8- T.H. MARSHALL, Cittadinanza e classe sociale…, cit, p. 9.
9- D. MARQUAND, The Unprincipled Society, London, Cape, 1988, p. 29.
10- T.H. MARSHALL, Cittadinanza e classe sociale…, cit., p. 63.
11- Il principio universalistico riconduceva a un retroterra intellettuale largamente impregnato di valori comunitari, per cui il fine ultimo della creazione di un sistema di sicurezza sociale non era da cercarsi in una più razionale distribuzione delle risorse e nei conseguenti vantaggi materiali che ne venivano agli assistiti, quanto nel favorire una cittadinanza partecipativa e, più in generale, il rafforzamento dei legami di coesione alla base della comunità dei cittadini. Jose Harris ha insistitito sulla presenza (e sull’influenza), tra i sostenitori e i promotori del Welfare State, non ultimo William Beveridge, di una filosofia sociale fortemente impregnata di idealismo. Ha tuttavia sottolineato una crescente difficoltà “linguistica e culturale”, a partire dalla fine degli anni Cinquanta, ad articolare questo approccio . “In netto contrasto con il periodo vittoriano, edoardiano e di quello tra le due guerre – ha sostenuto –, dopo la seconda guerra mondiale gli scritti di politica sociale non presentano traccia di una qualche influenza da parte dei filosofi morali di professione o dei teorici della società e della politica. Questo fatto negativo fu forse di poca importanza durante il periodo in cui l’idea di un sistema di sicurezza sociale è stata sostenuta dall’onda dell’entusiasmo popolare. Ma sarebbe stato probabilmente di maggiore significato quando il Welfare State cadde in disgrazia e dovette essere difeso contro una sistematica e radicale sfida intellettuale”; J. HARRIS, Political Thougth and the Welfare State…, cit., p. 137.
12- Cfr. A. SKED – C. COOK, Post War Britain. A Political History, Harmondsworth, Penguin Books, 1979, p. 42.
13- Citato in M. SULLIVAN, The Development of the British Welfare State…, cit., p. 168.
14- Richard Titmuss è, con Marshall, l’autore che più ha insistito sul nesso tra Welfare State di tipo universalistico e integrazione sociale. La sua ricerca più importante (The Gift Relationship, Harmondsworth, 1970) è dedicata a un aspetto particolare del NHS, il sistema di donazione del sangue, e all’esame comparativo di come la raccolta del sangue funzioni in Gran Bretagna e negli Stati uniti. Il sistema che risulta funzionare meglio è, a giudizio di Titmuss, il sistema britannico, basato sull’intreccio tra servizio pubblico e azione volontaria, mentre il servizio statunitense, del tutto dipendente dal mercato, appare costoso e inefficiente. “La commercializzazione del sangue umano – ha scritto – reprime la possibilità di altruismo; erode il sentimento di comunità; abbassa gli standard scientifici; sanziona il profitto negli ospedali e nei laboratori di analisi; legalizza l’ostilità tra il medico e il paziente; sottomette aree cruciali della medicina alle leggi del mercato; addossa enormi costi sociali su coloro che sono meno in grado di sopportarli (i poveri, i malati, i deboli); aumenta il pericolo di comportamenti non etici in vari settori della pratica e delle scienza mediche e sfocia in situazioni in cui il sangue è sempre più fornito dai poveri, dai disoccupati, dai negri e da altri gruppi a basso reddito”. Più in generale, Titmuss si schierò contro un tipo di sistema previdenziale basato sul mercato (che chiamò “residuale” e meritocratico ) e fu in favore, invece, di un Welfare State rigorosamente “universalistico”. Su Titmuss si veda M. PACI, Richard Titmuss e i valori dell’altruismo e della solidarietà, Introduzione a R.TITMUSS, Saggi sul “Welfare State”, Roma, ed.Lavoro, 1986, in particolare, pp. 15-16.
15- T.H. MARSHALL, Cittadinanza e classe sociale…, cit., p. 47.
16- Richard Tittmuss ha scritto che le misure di politica sociale degli anni di guerra e dell’immediato dopoguerra “furono in parte l’espressione dell’esigenza della strategia del tempo di guerra di fon-dere e unificare le condizioni di vita dei civili e dei militari. In pratica questo comportava che l’intera comunità accettasse un aumento degli obblighi (una estensione della disciplina sociale) per far fronte ai bisogni primari di tutti i cittadini”; R. TITMUSS, Saggi sul “Welfare State”…, cit., p. 84.
17- Citato in K. LAYBOURN, The evolution of British Social Policy and the Welfare State, Keele, Keele University Press, 1995, p. 213.
18- W. BEVERIDGE, Unemployment: A Problem of Industry, London, Longmans 1909, p. 209.
19- Lettera di George Lansbury a William Beveridge, 1 febbraio 1907, citata in K. LAYBOURN, The evolution of British Social Policy…, cit., p. 174.
20- K. LAYBOURN, The Evolution…, cit., p. 175.
21- E. FANO, Ingegneri e profeti: l’antifascismo dei grandi economisti critici, in Antifascismi e Resistenze, a cura di F. DE FELICE, Roma, La Nuova Italia scientifica, 1997, p. 74.
22- Citato in K. LAYBOURN, The Evolution of British Social Policy…, cit., p. 216.
23- Cfr. P. CLARKE, A Question of Leadership. From Gladstone to Blair, London, Penguin Books, 1999, p. 200.
24- Cfr. T.H. MARSHALL,Cittadinanza e classe sociale…, cit., p. 57.
25- Si veda al riguardo D. SASSOON, Cento anni di socialismo. La sinistra nell’Europa occidentale del XX secolo, Roma, Editori Riuniti, 1997, p. 156.
26- Sui caratteri comuni, a livello internazionale, della crisi del Welfare State, si veda P. FLORA, Stato del Benessere, in Enciclopedia delle Scienze Sociali, vol. VI, p. 510.
27- Sulla crisi di legittimazione degli anni Settanta cfr. H. HECLO, Verso un nuovo welfare state, in Lo sviluppo del welfare state in Europa e in America, a cura di P. FLORA, A.J. HEIDENHEIMER, Bologna, Il Mulino, 1981, pp. 484-492.
28- Cfr. al riguardo M.F.DAUNTON, Payment and Participation: Welfare and State-Formation in Britain 1900-1951, in “Past and Present”, febbraio 1996, 150.
29- Cfr. E. SHAW, The Labour Party since 1945, Oxford, 1996, pp. 138-139.
30- Cfr. in proposito R. TITMUSS, Saggi sul Welfare State…, cit., p. 46.
31- P. TOWSEND, Poverty in the United Kingdom, London, 1979, p. 31.
32- J. O’CONNOR, La crisi fiscale dello Stato, Torino, Einaudi, 1977, pp. 12-14.
33- Cfr. P. PIERSON, The New Politics of the Welfare State, in “World Politics”, 1996, 2, tavv. 1, 2, 3, 4.
34- Ibid., pp. 174-175.
35- Una discussione particolarmente approfondita delle tesi di Pierson è contenuta in R. CLAYTON – J. PONTUSSON, Welfare State Rentrenchment Revisited. Entitlement Cuts, Public Sector Restructuring, and Inegalitarian Trends in Advanced Capitalist Societies, in “World Politics”, 1998, 1. Secondo Clayton e Pontusson (op. cit., p. 96) una qualche forma di “rentrenchment” del Welfare State durante gli anni Ottanta è rintracciabile se non altro nel fatto che la spesa nel settore pubblico cresce molto più lentamente che nel complesso dei trasferimenti relativi al sistema di previdenza sociale (pensioni, sussidi di disoccupazione ecc.). Questo per il motivo “che gli effetti dei tagli nel settore pubblico sono meno immediati e meno tangibili (o meno visibili) che gli effetti dei tagli nei programmi che comportano un precisa titolarità dei beneficiari (entitlement). Tagli nel settore pubblico si tradurranno probabilmente in un deterioramento della qualità e ciò a sua volta potrà determinare una uscita dal servizio in questione dei ceti medi, ma questo deterioramento non sarà necessariamente proporzionato ai tagli di spesa e nessuno sa a quale livello l’uscita dei ceti medi da un determinato servizio pubblico può diventare un problema. Anche i politici socialdemocratici è probabile che trovino più digeribili i rischi relativi a tagli nel settore pubblico piuttosto che quelli che possono derivare dai tagli delle pensioni e dei sussidi di disoccupazione”.
36- Cfr. D. GLADSTONE, The Twentieth-Century Welfare State, London, Macmillan, 1999, p.VII.