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Il crocevia del Quarantotto, fra primato italiano e «integrazione» europea

Simonetta Soldani

Se appena tre anni fa – introducendo il numero speciale di “Passato e presente” su 1848. Scene da una rivoluzione europea (n. 46 del 1999) – potevo parlare di un silenzio pressoché assoluto sulla crisi rivoluzionaria del Quarantotto, oggi è doveroso riconoscere che voci diverse hanno cominciato a rompere quel silenzio. Penso a ricerche come quella di Laura Guidi sulle donne napoletane del Risorgimento, che proprio nel 1848 ebbero il loro “battesimo nazionale”, o di Enrico Francia sulle ricadute politiche dei moti annonari del 1847 e sull’importanza del clero come strumento e mediatore delle rivendicazioni e delle idee patriottiche al centro della rivoluzione del Quarantotto. Per non dire di quelle a cui attendono alcuni dei partecipanti a questo panel, da Gia Caglioti (impegnata a mettere a fuoco le ragioni delle scarse simpatie rivoluzionarie delle minoranze protestanti del Napoletano) ad Andrea Ciampani, attento a cogliere le ricadute della “fase riformatrice” sulle istituzioni romane anche al di là della stagione rivoluzionaria. Del resto, i volumi di atti dei convegni svoltisi in occasione del 150° anniversario sono fitti di nomi e temi relativamente nuovi, e segnalano spunti e direttrici di lavoro su cui converrà riflettere in modo meno sommario di quanto sia possibile fare in questa sede.
Resta vero però che gli studi recenti mostrano una evidente difficoltà a confrontarsi con il fatto “rivoluzione”, una categoria la cui crisi tende pericolosamente a trasporsi dal piano dell’attualità a quello della rilettura del passato. Cosicché, se per molto tempo tutto è stato considerato quasi esclusivamente in funzione di quel gorgo cruciale, oggi la tendenza è a privilegiare l’onda lunga – di idee, di provvedimenti, di tensioni – che precede la crisi rivoluzionaria, fermandosi alle sue soglie o mettendola decisamente tra parentesi, come se si trattasse di un incidente malauguratamente venuto a interrompere una tranquilla parabola di progresso lungo un percorso lineare, come del resto amavano pensare e dire molti dei contemporanei più moderati – se non decisamente conservatori – già all’indomani della “seconda restaurazione”.
Dare rilievo al lungo periodo, alle molteplici opportunità e potenzialità che in esso si manifestano e si consolidano in scelte e innovazioni, sia pure attraverso scarti non eclatanti, è senz’altro utile. E tuttavia sarebbe un grave errore non dare il debito rilievo alla dimensione nettamente europea che la rivoluzione parigina di febbraio impresse anche alle vicende italiane, marcandone a fuoco dinamiche e prospettive, acquisizioni e percezioni.
Fino ad allora il linguaggio prevalente, come ha egregiamente sottolineato Alberto Banti, era stato quello della costruzione del mito nazionale, della “riscoperta” di episodi, uomini, istituti della “storia nazionale” che potessero servire da esempio e da base per la “riscossa italiana”: la Lega e il Carroccio, Francesco Ferrucci e la disfida di Barletta, Roma imperiale e i Comuni, gli statuti municipali e i senati cittadini, ma – soprattutto – il Papa e la Chiesa, massima espressione della vocazione insieme nazionale ed ecumenica del “sentimento di italianità”, la cui rinascita era percepita come indisgiungibile da una ripresa della cattolicità e del cattolicesimo. Le riforme desiderate e cercate da schiere di intellettuali, ma anche di aristocratici in cerca di visibilità politica e di borghesi ansiosi di acquisire spazi di manovra e di potere, si ispirarono largamente all’idea di una nazione che si riconosceva tale in quanto cattolica e che proprio per questo chiedeva al Papato la sanzione della propria eccellenza, nella speranza di poter tornare ad essere “maestra delle genti”. Di qui la tendenza a enfatizzare la scelta di evitare la via maestra del liberalismo europeo, con la sua enfasi sull’individuo e sui suoi diritti in quanto cittadino, ma anche il profilarsi fin dall’inizio di derive che talvolta assumevano i colori e gli accenti di un democraticismo populista, ma che più spesso si traducevano in mitemi intrinsecamente organicisti e neomedievalisti. Una rivisitazione in questa chiave sia del ruolo avuto nella formazione dell’opinione nazional-patriottica dal neoguelfismo e dalle sue aporie costitutive, sia del nesso fra la sua fortuna e la pretesa di dare un’impronta “autoctona” alle tanto auspicate riforme, potrebbe essere quanto mai fruttuosa.
Tra febbraio e marzo del 1848, però, lo scenario mutò radicalmente. Fare astrazione da ciò che stava avvenendo altrove divenne impossibile; ma parlare di Parigi e di Berlino, di Praga e di Vienna, di Budapest e di Londra significò fin dall’inizio parlare di centralità del problema della rappresentanza delle opinioni, della formazione delle decisioni di governo, della libertà non solo in quanto assenza dello “straniero” dal territorio della nazione, ma in quanto contenuto di diritti riconosciuti, positivi e negativi, per i singoli e per la collettività. L’ordito era la “questione nazionale”, ma la trama di parole e di azioni che scandiva la battaglia politica (e non solo) era segnata a fuoco da questioni concernenti le modalità per rendere le “nazioni” intese come popoli realmente capaci di esercitare la loro “sovranità”: leggi elettorali e poteri parlamentari, rapporti fra i diversi organi e poteri dello Stato, norme e regolamenti necessari a far funzionare il delicato e complesso meccanismo di uno stato costituzionale, laico e liberale, strumenti atti a rendere più ampia e consapevole un’opinione pubblica capace di utilizzare al meglio le nuove forme e ragioni del potere…
I due piani solo in rari casi riuscirono a dialogare fra loro e a formare una solida tela: la distinzione secondo cui i democratici si rivelarono più attenti alla questione nazional-territoriale e i moderati più attenti a quella politico-istituzionale è grossolana, ma non priva di verità. L’esigenza di dare applicazione alle carte costituzionali e di adeguare ai loro parametri le riforme varate nel corso del 1847 dovette fare i conti non solo con le tenaci resistenze di molteplici centri conservatori, ma con le limitazioni imposte dallo stato di guerra e dal precoce emergere di un blocco reazionario, tanto più potente e autorevole in quanto capeggiato dal Pontefice e dalla Curia romana. La restaurazione, poi, avrebbe definitivamente chiarito che il tentativo di mettere al centro “le antiche glorie d’Italia”, bloccando – tra l’altro – la divaricazione ormai in atto da decenni tra potere religioso e potere laico non aveva futuro, se non arrivava a patti con le novità dell’epoca. Anzi, proprio la scelta – all’indomani della restaurazione – di una sorta di heri dicebamus da parte dei diversi sovrani e dei circoli più tradizionali costituì il segnale più evidente della inadeguatezza dei loro orizzonti mentali e della sintassi culturale di cui si servivano.
Cercare di sopravvivere chiudendosi a tutto ciò che l’Europa aveva saputo impersonare nello straordinario biennio rivoluzionario – e in primo luogo alla identificazione della modernità e del futuro con regimi costituzionali e laici debitori dell’Ottantanove – si rivelò una scelta perdente. Solo chi ebbe il coraggio e la forza di guardare avanti, staccandosi dai punti d’approdo del “biennio riformatore” e dalle sue mitologie (e dunque dalle tentazioni di un neo organicismo cattolico, ma anche dalle pretese di “fare a meno della Francia”) riuscì a vincere le scommesse che la “primavera dei popoli” aveva messo in campo, e a governare uno straordinario passaggio d’epoca e di regime col minimo di discontinuità possibile, sia in rapporto ai gruppi dirigenti che ai fondamenti, ampiamente “prerivoluzionari”, dello Stato.