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Il destino della rivoluzione nell’Europa del XXsecolo

Mark Mazower
La Collana degli Archivi di Stato
Rivoluzioni.
Una discussione di fine Novecento

a cura di D.L. Caglioti e E. Francia

Gli avvenimenti dell’89 nell’Europa Orientale- come la rivoluzione francese di Tocqueville – presero quasi tutti di sorpresa. «Malgrado i problemi, le difficoltà, e gli ostacoli che incontra l’Unione Sovietica nell’imporre il comunismo nell’Europa Centro-orientale», concludeva nel 1988 un autorevole saggio americano sulla regione «non ci sono segnali che gli eredi di Stalin siano pronti a ritirarsi da questa zona, né alcun indebolimento della loro volontà politica di dominare l’area» [1]. Riprendo questi giudizi non tanto per mettere in ridicolo i loro autori, che dopo tutto erano completamente in sintonia con l’opinione corrente del loro tempo, ma piuttosto per richiamare alla memoria alcuni elementi essenziali di ciò che avvenne nel 1989. Il collasso del dominio sovietico fu rapido, inaspettato e in larga misura pacifico; per di più si estese a tutta quanta l’area.
Nessuno di questi aspetti dovrebbe essere dimenticato o dato per scontato; essi sono indizi per capire la vera natura di ciò che accadde. Ma che cosa accadde esattamente? Possiamo mettere da parte alcune delle spiegazioni più ingenue o trionfalistiche. Una vittoria per la democrazia, senza dubbio, ma non si può certo definire una vittoria dell’Occidente, dal momento che una vittoria del genere non era stata realmente prevista. Si trattava allora di un glorioso trionfo per il popolo e per la causa della libertà in Europa sulla tirannia? Ma proteste popolari vi erano state anche in passato e avevano fallito; come l’ungherese Gyorgy Konrad aveva notato nel 1984, le insurrezioni del 1956, 1968 e 1980-81 erano tutte naufragate. La sua irrazionale ma preveggente alternativa – che facciano i Russi, ora – fu immediatamente scartata da tutti tranne che da Vaclav Havel [2].
Per chi ha sensibilità storica, i precedenti evocati dalle folle e dalle sollevazioni di massa di quello straordinario anno si collocano nel 1848 e nel 1789. Charles Maier, nel suo recente studio sulla fine della Germania dell’Est, ha attirato l’attenzione sui parallelismi con il 1848, e sottolineando il significato della protesta popolare di strada, sostiene che anche il 1989 fu un evento rivoluzionario, anche se molti tedeschi smisero presto di usare questo termine. Robert Darnton a Berlino quando il Muro crollò, era all’inizio colpito dalle analogie con la Francia rivoluzionaria, ma arrivò presto a dubitare se ciò di cui era stato testimone fosse realmente una rivoluzione. Timothy Garton Ash, tra i più acuti osservatori inglesi di questi avvenimenti, ebbe esitazioni analoghe, proponendo il termine «refolution» per dare un idea della miscela di cambiamento improvviso, compromesso e continuità che egli individuò quasi ovunque. Questa varietà di interpretazioni ruotava intorno a differenti valutazioni della causa e del significato della protesta di strada contro il potere decisionale dell’élite, della sollevazione autoctona contro un ritiro controllato dal potere di Mosca, come anche dello sviluppo di medio-lungo termine degli avvenimenti e del loro legame con gli obiettivi degli attori politici nel 1989. Io qui non propongo di provare a risolvere questo dibattito, in parte perché esso non mi sembra di per sé molto interessante o proficuo. Farò semplicemente due osservazioni: la prima: che gli avvenimenti dell’89 siano stati o meno una rivoluzione, non c’è comunque dubbio che essi colpirono efficacemente e senza ambiguità l’incarnazione della più riuscita eredità rivoluzionaria del secolo, lo stato e il sistema che traevano la loro legittimità dal trionfo della rivoluzione d’ottobre: se il 1989 fu una rivoluzione, essa fu una rivoluzione contro «La» Rivoluzione. E il secondo punto, che credo derivi dal primo: se siamo interessati a capire che tipo di evento ebbe luogo nel 1989, noi dobbiamo collocarlo nel contesto della rivoluzione d’ottobre e delle sue ripercussioni. Soltanto allora noi saremo in grado di determinare quale significato- se esiste – ha il concetto di rivoluzione per noi oggi [3].
Intorno all’inizio del ventesimo secolo in Europa, l’ottimismo rivoluzionario e il pessimismo nichilistico convergevano nel sogno di una conflagrazione, un momento di lotta e violenza, dal quale sarebbe dovuto nascere un nuovo ordine. Negli anni ’80-90 del diciannovesimo secolo la diffusione del pensiero di Nietzsche, la confluenza di correnti marxiste e populiste, e, non ultimo, la lotta di imperialismi e nazionalismi rivali contribuirono a creare un clima intellettuale che diede un nuovo significato all’idea di rivoluzione, integrando le eredità più antiche lasciate dall’1789 e dal 1848 . Le conseguenze politiche furono visibili anche prima della 1a guerra mondiale: la Russia nel 1905, l’Impero Ottomano nel 1908, il Portogallo e la Grecia nel 1910 furono tutti luoghi di attività rivoluzionaria. Gli obiettivi erano sorprendentemente simili in tutti i casi – la riforma di antiquate strutture costituzionali e la modernizzazione socioeconomica. Credo che sarebbe un errore sottovalutare le dimensioni del cambiamento al quale questi movimenti puntavano , e che, in alcuni casi, realmente provocarono. L’ottobre del 1917 gettò nell’ombra i suoi predecessori e fece sì che le loro aspirazioni borghesi apparissero sbiadite. Però la lotta per un governo costituzionale e contro l’autocrazia fu la lotta rivoluzionaria del 18° e del 19° secolo [4].
La rivoluzione del febbraio 1917 in Russia fu condotta esattamente in questi stessi termini. Difatti gli uomini politici che fecero cadere la monarchia videro se stessi come parte di una lotta mondiale per la democrazia liberale. «Lo spirito del popolo russo», dichiarò il principe Lvov, primo ministro del governo provvisorio nel marzo 1917, «ha mutato la sua natura originaria per diventare uno spirito democratico universale. Esso è pronto non solo a fondersi con la democrazia del mondo intero, ma a porsi alla testa di esso e a guidarlo lungo il sentiero del progresso umano, secondo i principi di libertà, eguaglianza e fraternità» [5]. Per gran parte del 1917 sembrava che la Russia potesse essere il luogo del primo trionfo della rivoluzione democratica nell’Europa in guerra. Tutti i partiti coinvolti nel rovesciamento della vecchia autocrazia si erano impegnati a preservare le loro conquiste dal ritorno della monarchia: nei primi mesi del 1917 la democrazia liberale fu la parola d’ordine e se c’era un nemico evidente, questo aveva le sembianze dei lealisti di Romanov, non dei bolscevichi. La Sinistra, incluso Lenin, premeva per un Assemblea costituente, allo scopo di dare vita a quella fase di «governo borghese» che la teoria marxista richiedeva; in realtà fino all’Ottobre, i bolscevichi non potevano decidere se la rivoluzione che stavano facendo era «democratico-borghese» o «socialista-proletaria».
Con la dissoluzione dell’impero zarista, la lotta nel 1917-18 contro le assemblee secessioniste ucraine e finniche contribuì a spingerli verso la seconda possibilità. Ancora più importanti furono i risultati delle elezioni per l’Assemblea costituente, i quali rappresentarono un voto per la sinistra ma anche una sconfitta per i bolscevichi, che ottennero meno della metà dei deputati dei Socialisti rivoluzionari. Respinto dall’elettorato, Lenin pertanto modificò la sua posizione: secondo le Tesi sulla Assemblea costituente, era vero che «in una repubblica borghese, l’Assemblea costituente è la più alta forma del principio democratico»; tuttavia si mostrava ora che secondo la «democrazia sociale rivoluzionaria … una repubblica dei Soviet [è] una più alta forma del principio democratico». L’Assemblea era un simbolo anacronistico della «controrivoluzione borghese» e Lenin la sospese con la forza il giorno dopo che si era aperta [6].
Il successo, ben lungi naturalmente dall’essere assicurato per gli anni a venire, consisteva nel far sì che la concezione bolscevica – o più precisamente leninista – della rivoluzione mettesse in ombra tutti i suoi antecedenti. L’obiettivo dell’abolizione della proprietà privata non soltanto rimpiazzava ma era diretto contro il principio fondamentale sul quale l’ordine borghese si era fondato. La teoria della rivoluzione di Lenin era strettamente legata all’idea di un’ininterrotta guerra civile e all’uso incontrollato della violenza e del terrore. Rispondendo nel dicembre del 1919 alle accuse dei menscevichi che la Rivoluzione stava ripetutamente violando la sua stessa costituzione, Lenin replicava che «il terrore e la CEKA sono … indispensabili». Un anno dopo, egli fu ancora più chiaro. «Il termine scientifico «dittatura»», egli scriveva, « significa né più né meno che un’autorità non ostacolata da alcuna legge, assolutamente non limitata da alcun tipo di regola, e basata direttamente sulla forza» [7].
La posta in gioco dopo l’Ottobre era riconosciuta sia dai bolscevichi sia dai loro oppositori internazionali – entrambi sapevano che niente di meno che la rivoluzione mondiale era ciò per cui si stava combattendo tra il 1918 e il 1921. Con questo non si intendeva la rivoluzione che aveva già avuto luogo in Europa con il collasso delle potenze centrali – la disgregazione di quattro antichi imperi e la nascita degli stati-nazione, dotati per la prima volta di parlamenti sovrani e di moderne costituzioni democratiche. Era come se questa conquista, sebbene fosse straordinaria, fosse eclissata ancora prima di essere realizzata. Questa rivoluzione, conosciuta nella fattispecie come la «rivoluzione di novembre» a Weimar, fu sminuita immediatamente dalla prospettiva dell’infinitamente più violenta e radicale variante bolscevica.
Infatti, come sappiamo, la lotta tra i Bolscevichi e i loro oppositori per il dominio in Europa era in una situazione di stallo. Un intervento alleato piuttosto esitante non riuscì a annientare il regime bolscevico nella stessa Russia. Da quel momento quest’ultima fu in grado di riorganizzare ciò che era rimasto dell’impero zarista sotto la sua autorità e di ricostituirlo nel 1923-24 come Unione Sovietica. Ma ugualmente, i bolscevichi non riuscirono a fomentare altrove le rivoluzioni sulle quali essi avevano puntato simili speranze: né l’ invasione militare diretta, come in Polonia, né l’appoggio politico indiretto in Germania, furono in grado di far cadere i nuovi regimi parlamentari che erano stati costituiti nell’Europa centrale e orientale in conformità con i voleri delle grandi potenze vincitrici della guerra. Il bolscevismo e il liberalismo erano condannati a coesistere.
L’Ungheria – dal punto di vista territoriale il più grande sconfitto della guerra – fu il paese che arrivò più vicino al comunismo. Il piccolo gruppo bolscevico di Bela Kun prese il potere nella primavera del 1919 e costituì una repubblica sovietica per diversi mesi, fino a che venne travolto da un intervento militare esterno. Tuttavia l’episodio di Kun rivelò molti dei motivi strutturali per i quali la rivoluzione comunista non fu in grado di prevalere da un capo all’altro dell’Europa. I bolscevichi ungheresi giunsero al potere solo grazie all’invito dei socialisti, che rimasero una forza dominante nel governo e un permanente limite alle ambizioni rivoluzionarie di Kun. Egli non riuscì a persuaderli, per esempio, a abbandonare il nome del loro partito in favore del suo: come gli ricordarono con forza: «la parola comunista è equiparata dai contadini a ateismo, ebrei galiziani, carnefici terroristi e in generale irresponsabilità, etc.». La soluzione di compromesso – chiamare il partito di governo «partito socialista-comunista di Ungheria» – evidenziava i limiti della capacità d’attrazione del bolscevismo.
Kun stesso era consapevole di ciò: egli aveva redatto, peraltro, un importante testo propagandistico mentre – ancora in Russia – si proponeva di accrescere il consenso tra i prigionieri di guerra ungheresi lì presenti. In questo scritto il suo «tipico prigioniero di guerra ungherese» solleva delle formidabili obiezioni: «Io non voglio questa rivoluzione e non mi importa della libertà che hanno in Russia […] Non c’è legislatura […] e il diritto di voto per il quale i lavoratori russi hanno combattuto è stato spazzato via dai bolscevichi […]. C’è un terribile disordine in Russia. Non c’è libertà di stampa, le prigioni sono piene, ci sono tumulti ovunque, e l’intero paese sembra una fortezza assediata». La risposta di Kun al suo (immaginario) interlocutore è: «Non i diritti di voto, ma la conquista del potere dovrebbe essere scritto sulla bandiera della classe operaia !». Ma in Ungheria, come in Germania e in Austria, la classe operaia rimase fedele alla sua tradizionale leadership socialista. Infine, oltre alla mancanza di interesse interno, c’era l’importantissima dimensione internazionale: la rivoluzione ungherese rimase dall’inizio alla fine funzionale alla rivoluzione in Russia: una volta che la Russia non avesse più voluto o non fosse stata più in grado di fornire aiuto, la rivoluzione sarebbe deperita e morta. Kun andò al potere perché una guerra di difesa nazionale sembrava coincidere al momento con la causa della rivoluzione proletaria internazionale; o, messo in altri termini, all’inizio del 1919 l’integrità territoriale ungherese sembrava con maggiore probabilità assicurata attraverso l’aiuto russo piuttosto che attraverso l’Entente. Quando divenne chiaro che anche i bolscevichi non potevano evitare le massicce perdite di territorio, la base interna al regime di Kun venne meno. La causa della rivoluzione internazionale poteva avere seguito tra un piccolo numero di bolscevichi ungheresi, ma non essendo in grado di entrare in contatto con le basi dell’orgoglio nazionale essi erano condannati al fallimento. Questa era una di quelle lezioni che i comunisti avrebbero imparato continuamente lungo il secolo. Per il momento sembra opportuno richiamare il giudizio di Tokes sull’episodio di Kun: «l’aspirazione alla rivoluzione», nel giudizio di questo analista degli avvenimenti del 1918-19, dipese da un «patchwork di socialismo dogmatico di poltrona, psicologia sagace, logica difettosa, zelo messianico e sottili strategie» [8].
La tendenza ideologica dominante degli anni tra le due guerre in Europa fu per i due vincitori ideologici della guerra – democrazia liberale e comunismo – quella di trovarsi sempre più sotto l’assalto di una terza ideologia, il fascismo, che a partire dal 1941 sotto la guida del Terzo Reich sembrava prevalere su entrambi. A partire da questo momento, la maggior parte delle democrazie parlamentari costituitesi dopo il 1918, e molte altre ancora, si erano spostate verso destra, mentre i partiti comunisti in tutta l’Europa erano stati sciolti o costretti alla clandestinità e erano incapaci, con pochissime eccezioni, di esercitare la benché minima influenza sugli avvenimenti. Perfino la stessa Unione Sovietica stava combattendo contro l’invasione della Wermacht.
Lo stesso Fascismo ebbe certamente una componente rivoluzionaria, sebbene esso avesse anche aspetti controrivoluzionari. Le idee rivoluzionarie formavano una parte sia del fascismo italiano sia del nazionalsocialismo, soprattutto nella prima fase della loro esistenza, e ebbero invece una parte molto meno importante dopo che essi andarono al potere. Questi movimenti scaturirono dalla «situazione rivoluzionaria» che stringeva gran parte dell’Europa dopo la prima guerra mondiale, e il loro radicalismo fu una parte importante di ciò che li rese differenti dalle vecchie forme di destra. D’altra parte, poiché la violenza da sola non era in grado di portarli alla conquista del potere, poiché essi arrivarono al potere attraverso l’accettazione della pratica politica borghese, entrambi ebbero bisogno di assumere, e rischiarono di essere dominati, da elementi di normalità borghese, di anticomunismo conservatore, di controrivoluzione. Da qui la critica di «fascismo parlamentare» diretta a Mussolini prima del 1926 da fascisti che chiedevano una «seconda ondata»; da qui anche le tendenze radicali delle SA in Germania, fino a che non furono annientate da Hitler nella notte dei lunghi coltelli nel 1934, un evento che tra l’altro gli diede grande popolarità tra la preoccupata classe media.
Per quello che riguardava la maggior parte della sinistra non comunista, l’ascesa di Hitler e il collasso della Repubblica di Weimar era, chiaramente, la manifestazione principale della bancarotta della politica prorivoluzionaria del Comintern tra le due guerre. Ancora nel 1932 Tälmann sosteneva, in modo conforme alla linea di Mosca, che «la sconfitta della socialdemocrazia è sinonimo di vittoria per la maggioranza del proletariato, e di creazione delle fondamentali precondizioni per la rivoluzione proletaria». Come sappiamo, questo approccio non solo facilitò l’ascesa al potere dei nazisti, ma anche di per sé non aveva alcuna possibilità di successo, dal momento che, come lo stesso Tälmann implicitamente riconobbe, la classe operaia nelle società più industrializzate d’Europa rimaneva nella stragrande maggioranza con la Sinistra non comunista. Dieci anni prima di fronte all’ascesa del Fascismo in Italia, Karl Radek aveva puntato l’attenzione sul problema dell’assenza di una coscienza sufficientemente «proletaria» nella classe operaia. «Compagni», egli scrisse il mese dopo la Marcia su Roma, «se il fascismo è ora vincitore senza la minima resistenza da parte dei lavoratori, noi possiamo solo dire che abbiamo raggiunto il punto più basso nello sviluppo dell’Italia .. solo quando […] noi potremo dare una nuova fede alle masse operaie, noi saremo in grado di guidare il proletariato italiano fuori dai suoi pericoli» [9].
Il trionfo del Fascismo pose alla sinistra nuove difficoltà sia di tipo analitico sia di tipo tattico. Diverse generazioni di storici hanno cercato incessantemente quella resistenza della classe operaia a Mussolini e a Hitler che Radek e altri avevano sperato di trovare. E’ facile dire, io credo, che noi non siamo riusciti a trovarla, e che essa probabilmente non vi fu. Non che non ci fosse un’attività antifascista organizzata, che coinvolgeva in alcuni casi membri della classe operaia; né che non ci fosse distacco, sospetto e risentimento specialmente nel momento della eliminazione dei sindacati. Ma una resistenza politicamente significativa non ci fu, almeno non in misura tale da provocare grande preoccupazione in questi regimi. Questo ritengo che sia il senso del cambiamento della posizione di Tim Mason e la scoraggiante conclusione della sua ricerca lunga tutta una vita in questa direzione [10].
Questo per quello che riguarda le difficoltà analitiche. Le lezioni pratiche e tattiche che la sinistra trasse dal 1933 furono non meno semplici per coloro che credevano nella rivoluzione. I socialdemocratici e i comunisti concordavano che la divisione della sinistra doveva essere in futuro superata. La nuova linea del Comintern si spostò verso destra; il PCF nel 1934 arrivò fino a vedere la finale formazione di un governo di Fronte Popolare come un fatto che implicava «il trionfo della rivoluzione proletaria» (ma forse Trotsky criticando da una posizione marginale era più preciso: «non una tigre rivoluzionaria», secondo lui, «ma una scimmia ammaestrata»). Intanto, è sorprendente che i socialdemocratici esiliati, mentre difendevano la loro tattica fino al 1933 – inutile opporsi ai partiti rivoluzionari, secondo Kautsky, quando la maggioranza della popolazione è contro di loro – ora cercavano di riconquistare le loro credenziali rivoluzionarie e si spostarono nettamente a sinistra. Kautsky insisteva che metodi democratici e metodi rivoluzionari non erano antitetici. E Otto Bauer, nel 1936, arrivò quasi a vedere nella lotta contro il fascismo il mezzo per rigalvanizzare l’«energia rivoluzionaria del proletariato»: «in questo modo una lotta difensiva nell’interesse della democrazia può svilupparsi in una dittatura del proletariato». Quanto gli Austro-Marxisti, e Bauer in particolare, si erano avvicinati alla concezione bolscevica della rivoluzione può essere visto quando si confrontano i loro scritti del periodo prima della guerra, o anche la fiducia di Bauer negli anni ‘20 nell’efficacia di una «lenta rivoluzione» decisamente non bolscevica [11].
E’ presumibilmente in questa graduale convergenza dei mondi della socialdemocrazia e del comunismo che si può vedere la preparazione delle fondamenta per l’ideologia del dopoguerra della Democrazia popolare nell’Europa Orientale. Bauer, che aveva capito esattamente nel 1918 perché la rivoluzione era impossibile in Austria, 20 anni dopo era giunto alla convinzione che non si poteva arrivare al socialismo attraverso le istituzioni democratiche esistenti: occorreva «un salto rivoluzionario». Hilferding raccomandava che la lotta contro il fascismo portasse non allo status quo precedente ma verso «una conquista rivoluzionaria del potere». Nell’articolo «Socialismo rivoluzionario» che egli scrisse nel febbraio 1934, egli insisteva che la democrazia che fosse succeduta al fascismo sarebbe stata del tutto differente da quanto esisteva prima: «la direzione dello stato passa a un governo rivoluzionario dotato dei pieni poteri che, sostenuto e controllato dal partito di massa rivoluzionario vincitore, ha il compito di rafforzare il potere dello stato per il successo della rivoluzione e di trasformare le sue istituzioni in strumento di governo da parte della massa popolare». Proprio come il fascismo aveva preso il sopravvento sullo stato, così anche il consolidamento di unavittoriosa rivoluzione avrebbe richiesto «la distruzione degli oppositori, fondamento del potere nello stato: processo ai criminali di stato per mezzo di corti rivoluzionarie; epurare l’amministrazione civile, la giustizia, il mondo militare e riempire tutti i posti importanti con sostenitori del regime; assicurare la rivoluzione contro gli agenti sociali della reazione [etc.]» [12].
Alla fine degli anni ’30 tutto ciò era una mera illusione. Il Fascismo era di fatto predominante in tutto il continente negli anni ’30; dal 1942 il suo trionfo fu completo. La gran parte della pubblica opinione europea, fascista e no, ripudiava palesemente la rivoluzione; una volta che il fascismo abbandonò la sua retorica rivoluzionaria, consolidò le sue posizioni interne. Il comunismo, al contrario, era stato – con le parole di Donald Sassoon – «dal lato dei perdenti nelle battaglie elettorali degli anni tra le guerre […]. A rigor di logica – conclude Sassoon – la storia del comunismo prima della guerra in Europa deve essere descritta come un fallimento». Ciò non era disgiunto dal fatto che le principali vittime della grande crisi del capitalismo avevano risposto in maniera indolente al partito della rivoluzione: le classi lavoratrici avevano in gran parte preferito i partiti non rivoluzionari, marxisti e non (come in Gran Bretagna). Anche i contadini votarono per i loro partiti – agrari o anarchici – e il loro potenziale radicale fu raramente visibile; certamente non ci fu nell’Europa tra le due guerre niente che possa essere paragonabile alla rivolta contadina del 1907 in Romania. La riforma agraria nell’Europa dell’Est aveva contribuito a ridurre la protesta contadina. E poiché i contadini provavano più avversione che attrazione all’idea di una proprietà collettiva della terra, essi furono tuttalpiù disponibili a operare come forza controrivoluzionaria piuttosto che pro rivoluzionaria. L’inganno bolscevico nei confronti dei contadini – promettere la terra e poi togliergliela – poté essere fatto solo una volta.
Ciò che diede nuove opportunità alla rivoluzione – come in verità anche alla democrazia – fu la guerra stessa. Questa guerra, al contrario delle precedenti, fu o divenne molto rapidamente una guerra ideologica sul modo in cui il Nuovo Ordine avrebbe governato l’Europa – nazista o antinazista. Anche il governo meno ideologico in Europa – quello britannico – fu costretto dal peso della sua opinione pubblica a provare – per quanto debolmente – ad articolare una visione del mondo dopo la guerra. Nel 1941, secondo un eminente politico inglese, «tutti parlano del nuovo ordine, del nuovo tipo di società, del nuovo modo di vita, della nuova concezione di uomo». Secondo E. H. Carr «il punto in discussione non è la necessità di un nuovo ordine, ma il modo in cui esso dovrà essere costruito». La guerra fu «un episodio in una rivoluzione dell’ordine sociale e politico» [13].
La radicalizzazione della società sotto il dominio nazista fece sì che da un capo all’altro dello spettro politico si trovasse una nuova volontà per affrontare gli ampi cambiamenti sociali e economici dopo la fine della guerra. La resistenza al fascismo e particolarmente al dominio nazista comportò sia una presa di coscienza nazionale sia un nuovo radicalismo politico, che in alcuni contesti assunse un carattere chiaramente rivoluzionario. Abbiamo da una parte la Polonia, dove l’estesa resistenza coincise con una tradizione decisamente anticomunista, dall’altra parte la Yugoslavia, dove la lotta partigiana fu guidata dalla sinistra. «La rivoluzione era nata nella lotta contro l’invasore – scrive Djilas – Una nuova ideologia rivoluzionaria si fuse con un eredità» (quella della rivolta contadina contro l’oppressione straniera) [14].
Tuttavia anche in quella realtà e in quel momento, gli agitatori rivoluzionari come lo stesso Djilas erano tenuti a freno dalle menti più fredde, maggiormente consapevoli di quanto limitato fosse l’appoggio popolare a ogni forma di azione esplicitamente rivoluzionaria. Cosi fin dall’autunno del 1941, Djilas fu ripreso da Tito per l’uso della dizione «rivoluzione antifascista» invece dell’approvata «lotta di liberazione nazionale». E quando, alla fine di quell’anno, il partito iugoslavo decretò che la lotta contro gli invasori era stata trasformata in una guerra di classe, e si formò una Brigata Proletaria nel giorno del compleanno di Stalin, il partito a sua volta ricevette una reprimenda addirittura da parte di Mosca. E’ come se il Comintern capisse meglio dei compagni iugoslavi il reale significato di ciò che essi stessi osservavano, ossia la riluttanza e l’assenza di entusiasmo di larga parte delle popolazioni urbane e rurali per una guerra di classe durante la guerra mondiale [15].
Lo scioglimento dello stesso Comintern nel 1943, sebbene fosse sconcertante per molti membri del partito, voleva chiaramente essere un segnale agli alleati di Stalin che non sarebbe stato permesso alla causa della rivoluzione internazionale di mettere in pericolo l’armonia tra gli alleati. Quanto difficile fosse per i vecchi comunisti decifrare correttamente questo messaggio è testimoniato dal caso greco, dove non ci fu un allentamento della spinta alla lotta rivoluzionaria all’interno del EAM/ELAS, e dove in verità il Partito ignorò gli avvertimenti di Mosca e guidò nel dicembre del 1944 una fallimentare insurrezione contro il governo monarchico appoggiato dalla Gran Bretagna .
In un tipico discorso a ampio raggio per il BBC Home Service trasmesso nel novembre 1945, lo storico A. J. P. Taylor analizzò l’impatto della guerra su tutta l’Europa. Attaccando la tendenza intellettuale contemporanea a dividere il continente in due, egli sostenne che eccezion fatta per l’Unione Sovietica e la Gran Bretagna ogni stato in Europa condivise due cose – la sconfitta e l’occupazione da parte dei tedeschi. Il risultato era stato quello di screditare le forme di governo esistenti nel continente prima del 1939, mentre la destra aveva di fatto cessato di esistere come forza politica. La liberazione «era stato trasformata in qualcosa che assomigliava a una rivoluzione – eccetto che in Grecia dove noi la impedimmo» [16].
Se si parla di rivoluzione nell’accezione leninista, tuttavia, si potrebbe anche dimostrare che le forze rivoluzionarie – eccetto che in Grecia – furono soffocate dalla stessa Unione Sovietica. Wolfgang Leonhard ha ricordato come le istruzioni date ai quadri a Mosca all’inizio del 1945 prima del loro ritorno in Germania resero assolutamente chiaro che «il nostro scopo politico non doveva consistere nello stabilire il socialismo in Germania o nell’incoraggiare uno sviluppo socialista. Al contrario, ciò doveva essere condannato e evitato come una tendenza pericolosa. La Germania era sulla soglia di una trasformazione democratico-borghese, che nella sostanza e nel contenuto sarebbe stato il completamento della rivoluzione democratico-borghese del 1848.
Così non è sorprendente che il proclama inaugurale del risorto KPD quell’estate non facesse cenno alla rivoluzione, e di fatto sottolineasse che «imporre il sistema sovietico sulla Germania sarebbe sbagliato». Al primo incontro che si teneva dal 1933 dei funzionari esecutivi del KPD, Walter Ulbricht mise in evidenza che questo non era più il partito pre-1933 del «proletariato rivoluzionario» e rese la sua posizione ancora più chiara non levando il suo pugno nel vecchio saluto del Fronte Rosso. Leonhard conclude: «quello che è stato un partito rivoluzionario dell’opposizione, con la dittatura del proletariato come suo obiettivo, si era ora trasformato in un partito che sosteneva l’autorità dello stato, che stava per imbarcarsi in un sistema democratico antifascista che mirava a realizzare una democrazia parlamentare» [17].
La storia della politica sovietica alla fine degli anni ’40 sta per essere riscritta mentre noi parliamo alla luce del nuovo materiale proveniente dagli archivi russi. Noi possiamo, comunque, azzardare una qualche generalizzazione. Prima di tutto, l’esperienza tedesca fu ripetuta altrove nell’Europa dell’Est, riflettendo il principio generale concordato a Mosca di ripudiare la rivoluzione. La conquista del potere e il consolidamento di uno stato monopartito avvenne solo nel 1944-47 dove le istruzioni di Stalin furono più deboli, ossia in Jugoslavia e nel suo satellite, l’ Albania. Il modello di una élite rivoluzionaria leninista sulla falsariga del 1917 fu rigettato in favore di una sorta di Fronte Popolare. La Democrazia Popolare rimase un concetto ambiguo, ma era almeno chiaro che essa si collocava in uno stadio politico intermedio tra la democrazia borghese e il comunismo sovietico. Ci fu, è vero, un inasprimento della retorica nell’ultimo periodo dello stalinismo tra il 1948 e il 1953, un ritorno al discorso del ruolo del partito nel promuovere la dittatura del proletariato, del ruolo dei magistrati come «costruttori rivoluzionari di una società socialista». Ma non vi era alcuna reale sfida al concetto di base della Democrazia Popolare come forma mediana di democrazia che si addiceva a società come quelle dell’Europa Orientale dove la rivoluzione non era stata né adatta né necessaria affinché i partiti comunisti prendessero il potere.
Nell’Europa Occidentale, la democrazia parlamentare tornava in vita nelle condizioni imposte della guerra fredda. La sinistra comunista fu messa da parte, e ottenne pochi vantaggi dalla sua moderazione. La sinistra non comunista prosperò, una volta che essa si sforzò di allontanarsi da un orientamento classista. Fattore ancora più importante, il capitalismo, dopo un inizio esitante, procurò uno sviluppo economico più veloce e una prosperità maggiore di quanto fosse mai accaduto prima. Lo stato e le sue istituzioni collegate si ripresero in modo sorprendentemente veloce dalla profonda crisi di legittimità che avevano subito all’inizio degli anni ’40.
Né il contesto internazionale offrì alcun supporto alla rivoluzione in Occidente. Il sostegno americano costituì un fattore antirivoluzionario molto più potente di qualunque cosa fosse esistita nel periodo tra le due guerre. Ma come abbiamo visto, c’era un interesse declinante per la rivoluzione anche nella stessa Unione Sovietica. Nel 1950 i commentatori sovietici presentavano i due sistemi economici globali come competitori in una corsa verso un utopia materiale. Khrushchev si vantava che il comunismo avrebbe presto dimostrato la sua superiorità sull’occidente superandolo nella produzione di beni di consumo. Tali predizioni furono prese in quel periodo sul serio; e dopo tutto, il tasso di sviluppo che i regimi comunisti avevano raggiunto nell’Unione Sovietica tra le due guerre e nell’Europa dell’Est dopo la seconda guerra mondiale non rendeva queste previsioni del tutto improbabili. Ma di fatto, Khrushchev stava spostando i termini del confronto dall’eredità della rivoluzione e dal suo ideale di eguaglianza comunitaria verso il sogno ddel consumismo e verso la soddisfazione dei desideri personali . E come sappiamo, fu chiaro abbastanza presto quale sistema economico poteva dare il meglio in questo direzione.
Il trionfo del capitalismo fu fondato su una combinazione di espansione del welfare state e ciò che Alessandro Pizzorno una volta definì «la mobilitazione individualistica dell’Europa». L’evoluzione del welfare state deluse molti che ricordavano il clima egualitario degli anni ’40. Ma come T. H. Marshall spiegò «Sembrerebbe a prima vista come se la borghesia avesse, come al solito, rubato ciò che sarebbe dovuto andare ai lavoratori. Ma in questo caso, ciò doveva accadere in una libera democrazia ed è destinato a continuare ad avvenire nel welfare state. Poiché il welfare state non è la dittatura del proletariato e non si impegna a liquidare la borghesia» [18] .
Per quanto riguarda l’ascesa del consumismo, è difficile analizzare gli effetti di un così diffuso e pervasivo fenomeno, che ha appena cominciato a attirare l’attenzione degli storici. Ma esso sembra aver contribuito a rompere più vecchie, e più collettiviste solidarietà di classe «C’è un piccolo particolare quando si parla di “proletariato” … esso semplicemente non esiste più» osserva una fonte nel 1958. Come disse un lavoratore a Ferdynand Zweig «io sono classe operaia solo nel lavoro, ma al di fuori io sono come chiunque altro». Le classi in un’accezione di vecchio tipo – che proponevano azione collettiva, identità e attività dentro e fuori la fabbrica – stavano scomparendo. Le implicazioni per la politica rivoluzionaria furono severe. Tutto ciò fa venire in mente il funzionario americano in Italia che notava nel 1947 che «vi è poca speranza che gli italiani raggiungano una stato di prosperità e di tranquillità interna fino a che essi non cominceranno a essere più interessati al valore rispettivo dei fiocchi d’avena e delle sigarette piuttosto che all’abilità relativa dei loro leaders politici» [19].
E tuttavia, naturalmente, per coloro che erano inclini a dipingere l’Europa occidentale come una società di «schiavi felici» c’era ancora il 1968. Si prova un senso di impotenza nel provare a interpretare gli avvenimenti di quel periodo. Così tanti elementi differenti furono in gioco simultaneamente – l’emergere del movimento delle donne, per iniziare con forse il più importante, la protesta generazionale, specialmente nelle università, l’antiamericanismo e l’anticonsumismo. Il piacere spirituale, l’autorealizzazione e l’amore coesistevano con altri generi di vocabolari politici – quelli della rivoluzione sociale, della guerra di classe, degli scioperi e delle barricate. Ma se noi lasciamo da parte i reali cambiamenti nei comportamenti sociali che avvennero intorno a quel periodo, le conseguenze politiche effettive del ‘68 nell’Europa occidentale mi sembrano piuttosto esigue. Una frangia di sinistra molto frammentata e aspramente settaria fu tentata dalla violenza e intraprese una lotta che non poteva vincere. Quella autoproclamatasi «forza di guerriglia cittadina» meglio conosciuta come RAF credeva realmente che stava trasformando «una lotta armata antimperialista» in una «guerra del popolo»? Forse lo credeva; ma oggi l’assenza di una risposta da parte del «Popolo» colpisce di più. La violenza, è vero, si presentò di nuovo nella vita politica dell’Occidente; ma essa non causò alcun cambiamento approssimativamente rivoluzionario per la semplice ragione che nessuno era interessato.
La classe operaia in particolare non fornì più un potenziale rivoluzionario, e nel ‘68 i lavoratori e gli studenti si separarono presto. Gli studenti avrebbero voluto togliere di mezzo il capitalismo, ma i lavoratori in sciopero puntavano invece a godere di più dei suoi profitti. Il potere contrattuale della vecchia classe operaia era al suo massimo in questi anni, ma questa era forse la sua ultima vittoria in un secolo di lotta organizzata, prima che la recessione, la disoccupazione di massa e la ristrutturazione globale la cancellasse.
Nel 1980 si aprì a Torino il grande sciopero alla Fiat, poco dopo la nascita del movimento di Solidarnosc in Polonia. In quel momento il declinante richiamo dell’azione industriale nell’Occidente europeo divenne evidente. Quando i manager della Fiat organizzarono una riuscita controdimostrazione, i lavoratori disillusi furono respinti verso il lavoro. «Hai visto che cosa sono riusciti a fare in Polonia da quando hanno il sostegno di tutti i lavoratori» – esclamava uno «Noi sappiamo che in Italia, in un paese come l’Italia, noi non possiamo mai avere il sostegno e sopra tutto la partecipazione fisica e morale di tutti i lavoratori; nella classe operaia oggi ci sono interessi contrastanti» [20].
Qui era la differenza: l’azione di massa era ancora possibile nell’Europa Orientale. Lì una classe operaia organizzata era ancora intatta; in verità essa era stata posta in essere dal comunismo e stava protestando contro un regime che pretendeva di parlare per essa. L’ascesa di Solidarnosc mostrò la minaccia espressa da lavoratori che si rivoltavano contro il partito che rivendicava il potere a nome loro. Per il partito non c’era via d’uscita: il capitalismo globale lo stava costringendo a compromessi politicamente impossibili. Infatti il trend principale nel corso delle due ultime decadi di comunismo non era tanto l’emergere di un opposizione palese – fuori della Polonia era trascurabile – quanto piuttosto il lento declino di un Partito che credeva in se stesso. Come notò il rapporto Kubiak sulla crisi Solidarnosc, le origini del conflitto sociale vengono poste «quando la distanza tra gli scopi dichiarati del socialismo e i risultati si allargò» [21].
La discussione sempre più aperta all’interno del blocco sovietico, in realtà anche all’interno della stessa Unione Sovietica, sull’allargamento dell’«internazionalismo socialista» costituì un ulteriore stadio nel processo di lungo periodo di messa in discussione del rilievo delle istituzioni e degli scopi stabiliti sulla scia della rivoluzione d’ottobre. Gorbachev, naturalmente, non vedeva le cose in questo modo: per lui, l’obiettivo era rimpiazzare Stalin con il Lenin della NEP. Ma durante l’estate del 1989, quando il governo polacco cedette il potere a Solidarnosc, egli rinnovò la sua dottrina di non-intervento, e durante un incontro dei paesi del Patto di Varsavia venne proclamato che «non esiste alcun tipo di modello socialista universale [e] nessuno possiede il monopolio della verità».
Questo sembra un punto adatto per tirare alcune osservazioni più generali. La prima riguarda l’importanza decisiva della Russia per il destino dell’idea rivoluzionaria nel ventesimo secolo: il successo della rivoluzione d’Ottobre rese arduo da quel momento in poi vedere altre forme di insurrezione, anche altri cambiamenti forzati di regime, come rivoluzionari, nel significato estremo coniato e realizzato da Lenin; sia nei suoi mezzi – il livello di violenza usato -, sia ne i suoi scopi – la soppressione della società borghese e delle norme borghesi -, l’Ottobre sopravanzava facilmente i suoi predecessori. Per quanto riguarda i suoi successori, esso semplicemente non ne ebbe. I tempi e le forze sociali si combinarono per ridurre al minimo le possibilità di rivoluzione nel resto d’Europa dopo il 1918. Fino a che il comunismo seguì un’agenda rivoluzionaria esso fallì, o nella cabina elettorale o per la forza dell’ala destra. L’episodio ungherese fu l’eccezione che confermò la regola.
Il predominio militare russo nella seconda guerra mondiale garantì al comunismo una nuova prospettiva di vita in Europa. Tuttavia, il comunismo del dopoguerra fu decisamente non rivoluzionario: di nuovo, c’erano eccezioni – la fallita insurrezione in Grecia in particolare – che dimostrarono appunto quanto limitata fosse la prospettiva per una rivoluzione nell’Europa del ventesimo secolo. La Democrazia Popolare rimase ciò che si diceva che fosse, ossia una forma non rivoluzionaria di governo, che durò solo finché fu sostenuta dall’Unione Sovietica. Una volta che Mosca decise di lasciare che i suoi satelliti badassero a se stessi, la loro fine fu vicina.
La triste fine dell’ideale rivoluzionario non può, credo, essere separata dal più generale fenomeno del declinante interesse pubblico nei confronti delle ideologie di ogni genere, e in verità nei confronti della politica in generale. L’Europa in questo secolo è stata modellata e segnata da una serie di conflitti antagonistici tra «nuovi ordini» rivali. Confrontati con i grandi imperi dinastici del passato, gli esperimenti utopistici delle ideologie del ventesimo secolo andarono e venirono con stupefacente velocità. Tuttavia la loro lotta portò a nuovi livelli di violenza nella vita delle persone, alla militarizzazione della società, al rafforzamento dello stato e all’uccisione di milioni di persone con l’aiuto delle moderne burocrazie. Nella guerra franco-prussiana del 1870-71 il bilancio dei morti fu di 184.000; nella prima guerra mondiale fu di 8 milioni e mezzo e nella seconda fu di più di 40 milioni, più della metà di loro civili. La profondità di queste ferite fu direttamente proporzionata alla grandiosità delle ambizioni perseguite dai vari protagonisti di rifare l’Europa – dentro e fuori – in modo più completo di quanto non fosse mai accaduto prima. Non deve sorprendere se oggi l’Europa soffre di un esaurimento delle ideologie, e se la politica è divenuta un’attività priva di utopia. Come pare abbia notato una volta l’ex cancelliere austriaco F. Vranitsky «chiunque ha delle visioni ha bisogno di vedere un dottore».
Questa disillusione colora lo strano trionfo della democrazia in Europa dopo l’89. Settanta anni prima, il consolidamento della democrazia attraverso il continente dopo la prima guerra mondiale si accordava con i sogni liberali di un nuovo ordine mondiale, proprio mentre Lenin offriva sogni di un’utopia rivale attraverso la rivoluzione. La sconfitta del comunismo dopo il 1989 non produsse tali implicazioni globali né simili sogni evangelici. La democrazia va bene oggi agli europei in parte perché è associata al trionfo del capitalismo e in parte perché essa comporta un minor impegno o una minore intrusione nelle loro vite rispetto a qualunque altra forma alternativa di governo. In breve, gli europei accettano la democrazia perché essi non credono più nella politica. Nella rivoluzione, hanno smesso di crederci tanto tempo fa.
 Traduzione dall’inglese di Enrico Francia.
NOTE
1- J. Rothschild, Return to Diversity: A Political History of East Central Europe since World War 2, Oxford, Oxford University Press, 1989, p. 221
2- Citato da T. Garton Ash, The Uses of Adversity: Essays on the Fate of Central Europe Cambridge, Granta Books, 1989, pp.180-181 (trad. it. Le rovine dell’impero: Europa centrale 1980-1990, Milano, Mondadori, 1992)
3- C. Maier, Dissolution: The Crisis of Communism and the End of East Germany, Princeton, Princeton Universiuty Press, 1997, pp. 118-119 (tr. it. Il crollo: la crisi del comunismo e la fine della Germania Est Bologna, Il Mulino, 1999); R.Darnton, Did East Germany have a revolution?‘, in «New York Times», 3 dic. 1989, e il suo Berlin Journal, 1989-1990, New York, Norton, 1991 (tr. it. Diario berlinese, 1989-1990, Torino, Einaudi, 1992); T. Garton Ash, The Uses…, cit.
4- H. Arendt, On Revolution, New York, Viking Press, 1963 (tr. it. Sulla rivoluzione, Milano, Edizioni di Comunità, 1983)
5- Citato in O. Figes, A People’s Tragedy: The Russian Revolution, 1891-1924, London, Jonathan Cape, 1996, p. 355 (tr. it. La tragedia di un popolo: la rivoluzione russa, 1891-1924, Milano, Corbaccio, 1997)
6- J. Burbank, Lenin and the Law, in «Slavic Review», 1995, pp. 23-44
7- I. Getzler, Lenin’s conception of revolution as civil war,’ in «Slavonic and East European Review», 74, July, 1996, 3 pp. 469-72; Ideas and Forces in Soviet Legal History:a reader on the Soviet state and law, a cura di Z. Zile , New York, Oxford University Press, 1992, p. 78; The Blackwell Encyclopaedia of the Russian Revolution, a cura di H. Shukman, Oxford, 1988, pp.192-193
8- R. L. Tokes, Bela Kun and the Hungarian Soviet Republic: The Origins and Role of the Communist Party of Hungary in the Revolutions of 1918-1919, Stanford, Stanford Univ. Press, 1967, pp. 78-79, 145, 181
9- Marxists in Face of Fascism: Writings by Marxists on Fascism from theIinter-war, a cura di D. Beetham, Manchester, Manchester University Press, 1983, pp. 101, 165
10- Austro-Marxism, a cura di T. Bottomore and P. Goode, Oxford, Clarendon, 1978.
11- Marxists in Face of Fascism…., cit., pp. 48, 270, 274; Austro-Marxism, cit…, pp. 37-44
12- Ibid., p. 276.
13- R. Acland, The Forward March, London, G. Allen & Unwin Ltd., 1941, p. 9: E. H. Carr, Conditions of Peace, New York, The Macmillan Company, 1942, p. 9
14- M. Djilas, Wartime: With Tito and the Partisans, London, Secker and Warburg, 1977, p. 143
15- Ibid., pp. 79 e 120
16- Discorso trasmesso da BBC Radio, 14 Nov. 1945
17- W. Leonhard, Child of the Revolution, London, Collins, 1957, pp. 281, 329, 337-338
18- T. H. Marshall, Class, Citizenship and Social Development, Garden City, N.Y., Anchor Books, New York, 1965, pp. 297-300, 330
19- The Changing Pattern of Distribution, edited by N.Stacey and A.Wilson, Oxford, 1965, p. 334; citato in T. H. Marshall, Class, Citizenshis …, cit., p. 341; citato in P. Ginsborg, A history of contemporary Italy: society and politics, 1943-1988, Harmondsworth, Penguin, 1990, p. 248 (ed. or. Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi. Società e politica, 1943-1988, Torino, Einaudi, 1989)
20- P. Ginsborg, A history of contemporary Italy …, cit.,.p. 405
21- Poland under Jaruzelski a comprehensive sourcebook on Poland during and after martial law, a cura di L. Labedz , New York, Scribner, 1984, p. 102