Cerca

Il mito dell’America latina nell’Italia degli anni sessanta e settanta

Luigi Guarnieri Calò Carducci (Università di Teramo)

Maria Rosaria Stabili, (Università Roma TRE)

 [versione provvisoria, da non citare senza autorizzazione]

Il Mondo visto dall’Italia Convegno della Sissco

Milano, Università cattolica, 19-21 settembre 2002

A partire dagli anni sessanta e, grosso modo sino alla fine degli anni settanta, l’America latina acquista, in Italia, una grande rilevanza dal punto di vista politico e culturale -oggi quasi inimmaginabile- assicurata da diversi fattori. Gioca innanzitutto la crescita economica che alcuni paesi latinoamericani conoscono e il conseguente interessamento delle industrie italiane a investire. Si registra dunque, rispetto al decennio precedente, un’espansione della presenza economica italiana e dello scambio commerciale.

Ma soprattutto sono la rivoluzione cubana e i fermenti da essa suscitati in tutto il continente, le tensioni interne alla Chiesa latinoamericana e il processo politico cileno ad essere oggetto di intenso dibattito nel mondo politico e sociale italiano e che fanno considerare nel nostro paese l’ America latina una specie di laboratorio politico ricco di sperimentazioni diverse. Questo interesse ha riscontro sia nell’area riformista moderata, sia nei partiti di sinistra, sia nei gruppi della sinistra rivoluzionaria e trova eco nei giornali e in un’intensa attività editoriale.

Nel dicembre 1959, un Convegno organizzato dal “Columbianum”, un centro di studi fondato a Genova dal gesuita Padre Angelo Arpa e dal sociologo Amos Segala (che nei primi anni sessanta andrà ad insegnare a Nanterre) e che vede riuniti rappresentanti del mondo politico e della cultura di diverse appartenenze politiche, pone al centro del dibattito l’importanza, per gli europei e gli italiani in particolare, della conoscenza dei processi in atto nel continente latinoamericano.

Nel quadro della politica riformista avviata dai governi di centro sinistra, c’è, ovviamente una grande attenzione alla possibilità di riforme democratiche, perlomeno in alcuni paesi latinoamericani, congiunta alla preoccupazione per la politica aggressiva portata avanti dagli Usa in quella regione. Nel settembre del 1965 Saragat e Fanfani visitano Brasile, Argentina, Uruguay, Perù, Cile, Venezuela. Nel 1966, grazie soprattutto all’attivismo di Fanfani, viene fondato a Roma L’ Istituto Italo-latinoamericano (IILA), con il voto favorevole in parlamento dell’opposizione comunista. 21 paesi latinoamericani, compresa Cuba, sottoscrivono la convenzione con il fine di promuovere la ricerca e la documentazione sui problemi in campo scientifico, economico, tecnico e sociale e di individuare le possibilità concrete di scambio, assistenza reciproca e azione comune negli stessi settori. L’interesse della DCI per il continente latinoamericano si rafforza in quegli anni grazie anche alla vittoria elettorale, nel 1964, della democrazia cristiana cilena che con una maggioranza assoluta di voti riesce a far eleggere alla Presidenza della repubblica Eduardo Frei Montalva con un programma di riforme economiche e sociali radicali il cui slogan è “la rivoluzione nella libertà”. Frei governa per sei anni sino a quando, nel 1970, la coalizione di Unidad popular con il candidato presidenziale Salvador Allende, non vince le elezioni. E’ necessario ricordare che la DC cilena nel suo processo di costituzione (viene fondata nel 1957) guarda alla DCI come il referente più importante e in particolare Frei Montalva nei suoi scritti e nei suoi discorsi fa continuamente riferimento a Luigi Sturzo come la personalità che più significativamente ha influenzato il suo pensiero politico. I legami tra le due DC, durante il governo Frei, diventano strettissimi.

Per la sinistra più attenta ai cambiamenti rivoluzionari, l ‘importanza dell’America latina in quegli anni è data dal riferimento che offre della possibilità di cambiamento politico. Un paradigma cui risponde quest’ansia di cambiamento è quello della liberazione dei popoli, nel quale l’esperienza della rivoluzione cubana e la figura di Ernesto “Che” Guevara, argentino e cubano, rivoluzionario e guerrigliero, risponde pienamente. Bisogna ricordare la presenza del sentimento anti statunitense, in molti paesi latinoamericani che proveniva da quattro fonti diverse: quella culturale, legata alla vecchia tradizione ispano-cattolica; quella economica, conseguente di una visione nazionalista e marxista dei rapporti commerciali e finanziari tra “l’impero” e le “colonie”; quella storica, conseguenza dei conflitti armati tra Usa e i suoi vicini del sud e delle ingerenze anche recenti nella politica interna; infine quella psicologica, prodotto di un misto di ammirazione e rancore verso la migliore situazione degli USA, e dal fatto di essere comunque un modello cui ispirarsi per tutti i paesi che non avessero scelta la strada della sierra maestra.

L’esperienza della rivoluzione cubana assume quindi un significato fondamentale soprattutto a partire dalla metà degli anni Sessanta: la speranza di potersi opporre al dominio statunitense, attraverso una presa del potere rivoluzionaria, proprio mentre quasi tutti i paesi subiscono un ritorno delle dittature e dei golpe militari. Di qui la grande attenzione per la nascita della guerriglia: gli eventi di Cuba dimostrano dimostrato, ed Ernesto Guevara lo evidenzia, che non è sempre necessario aspettare di veder maturate tutte le condizioni di cui parlano le interpretazioni classiche del marxismo perché possa scattare la rivoluzione: lo stesso dinamismo insito nella lotta armata le favorisce. Se si ricorda poi che il regime castrista appoggia l’esportazione della rivoluzione attraverso la tattica del foco (in spagnolo focolare, nucleo)con la creazione e il sostegno diretto di nuclei anche piccoli di lotta rivoluzionaria, si capisce come l’esempio cubano abbia messo in crisi tutte le prospettive riformiste o evolutive di tipo elettorale per la presa del potere, in favore della lotta armata. La Conferenza di Solidarietà dei popoli di Asia, Africa e America Latina, detta Tricontinental del gennaio 1966 e la creazione della OSPAAAL (Organización de solidaridad de los pueblos de Asia, Africa y América Latina) con sede all’Avana e della OLAS (Organización latinoamericana de solidaridad), in appoggio specifico all’azione sovversiva completano un quadro di grande mobilitazione. Dopo la scomparsa del Che, avvenuta in Bolivia nel ’67, Cuba diminuisce l’appoggio delle attività sovversive nel continente che, del resto, segnano il passo anche in altri paesi. D’altro canto, i successi raggiunti con azioni compiute nelle città dai gruppi guerriglieri di vari paesi, del tutto inaspettati, convincono molti rivoluzionari della validità di sostenere la lotta armata anche in contesti urbani.

Il famoso libro Revolución en la Revolución, dell’intellettuale francese Régis Debray, viene pubblicato a Cuba nel 1967. Debray, analizza l’esperienza cubana, la tattica del foco, e l’importanza della diffusione della guerriglia nelle campagne, operando una drastica scelta tra partito e guerriglia, a favore della guerriglia. Il suo libro ha una grande diffusione in Francia ed è tradotto in italiano nello stesso anno di uscita all’estero.

Va ricordato come in quel periodo la possibilità di perseguire il cambiamento attraverso la rivoluzione, è una possibilità seriamente presa in considerazione per quanto riguarda il contesto latinoamericano, anche nel mondo cattolico progressista. Il Concilio Vaticano II provoca una revisione di molti temi della chiesa, sia come istituzione sia in relazione con il mondo circostante. L’enciclica Populorum Progressio , oltre a condannare il capitalismo, contribuisce ad affermare l’interesse della chiesa per lo sviluppo integrale dell’uomo e del continente latinoamericano. Esemplare è l’atteggiamento di alcuni vescovi, che iniziano a denunciare i sistemi d’oppressione e miseria della popolazione, tra cui Helder Cámara, arcivescovo di Recife, e mons. Podestá, vescovo di Avellaneda, Argentina. Nel dibattito che si svolge a livello delle comunità cattoliche di base affiora una chiara giustificazione dell’uso della violenza. I governi la usano, e la situazione può essere cambiata solo da una rivoluzione sociale, attraverso una rivitalizzazione delle masse, e una presa di coscienza del singolo della propria responsabilità attraverso l’educazione. Il cristiano, la chiesa, sono obbligati a lavorare per la rivoluzione quando la struttura della società impedisce lo sviluppo dell’uomo. Nelle discussioni è evidente il nesso tra chiesa e appoggio alla rivoluzione, così come l’esistenza sia di un clero rivoluzionario “in contatto con l’uomo e il suo ambiente” sia del prete operaio. Se il messaggio cristiano è in se rivoluzionario, non può che ricercare i mezzi per la rivoluzione. Ci si pone anche il tema del rapporto con il marxismo e di un eventuale percorso comune con gruppi e partiti che ad esso si ispirano.

E’ immediata l’eco negli ambienti cattolici giovanili italiani. Sul modello latinoamericano fioriscono anche in Italia le comunità di base e ampia diffusione hanno le pubblicazioni di Idoc e Idoc nuovi documenti che, richiamandosi ai problemi messi a fuoco dai latinoamericani, propongono in Italia, in contrapposizione alla versione della gerarchia ecclesiastica, un’ interpretazione rivoluzionaria del Vangelo e dell’ impegno dei cattolici.Anche in Italia, sul modello latinoamericano, si formano gruppi di Cristiani per il socialismo e la popolarità di Camillo Torres, prete guerrigliero, raggiunge quella di Castro e del Che’.

Il ruolo dell’editoria orientata politicamente nella diffusione dell’immagine di un continente in fermento, in un caso esempio rivoluzionario, in altri laboratorio di lotta politica condotta a livello istituzionale, è fondamentale. Il pamphlet d’inizio anni ‘70 dell’intellettuale cubano castrista Roberto Fernández Retamar, pubblicato in Italia, mostra chiaramente tutta una serie di spunti capaci di attrarre il sentimento anticapitalistico italiano e di identificarlo con una serie di risentimenti, assai simili, sviluppatisi nei confronti degli USA in ambienti diversissimi. Il fatto più sconcertante è che il nazionalismo latinoamericano anti-Usa degli anni ’60 e ’70 si richiama direttamente al nazionalismo tradizionale. Fernández Retamar giunge a difendere addirittura l’esperimento autocratico e oscurantista del dottor Francia in Paraguay condotto nell’Ottocento, subito dopo l’indipendenza del paese, cosa che farà anche qualche anno più tardi anche Edoardo Galeano, il cantore universalmente riconosciuto della sventura dell’America latina. La tesi dell’onnipotenza distruttrice è insomma patrimonio comune di molti intellettuali di segno diverso, ma anche di diversi regimi: Messico, Castro, i generali del Perù.

Oltre ai casi letterari già citati, ve ne sono altri che contribuiscono nell’arco di alcuni anni, in Italia, al consolidamento dell’immagine di un continente in lotta. Tralascio tutto l’apparato propagandistico e letterario legato a Ernesto Che Guevara, che costituisce oramai un mito a sé. Basti solo dire che si affaccia per la prima volta il 24 aprile del ’64, quando il suo nome è oggetto di slogan in una manifestazione per il Vietnam (da poco il Che aveva dichiarato “Creare due, tre, molti Vietnam”). Menziono invece la grande attenzione che riscuote non solo nella sinistra, ma in generale nella stampa anche moderata italiana, l’azione dei Tupamaros in Uruguay. Non solo sono pubblicati all’inizio degli anni settanta svariati saggi e documenti sul gruppo guerrigliero, ma perfino sui giornali moderati, le loro azioni, assai più mirate di quelle dei montoneros argentini e svolte con un grande appoggio da parte della popolazione, fanno parlare di “Robin Hood latinoamericani”. Debray, ancora lui, si incarica di propagandare l’azione del gruppo, con un libro, prontamente pubblicato in italiano, con il titolo La lezione dei tupamaros.

Inoltre, il boom della letteratura latinoamericana, la passione suscitata nei circoli letterari dal cosiddetto “realismo magico“, i riconoscimenti internazionali ottenuti da diversi scrittori, completano un quadro che sembra degno di essere seguito da vicino.

Questi fattori, talvolta congiuntamente, diventano costitutivi dell’immaginario politico e culturale della generazione giovanile del tempo, sia in Europa, sia in Italia.

Degno di nota e ammirazione, anche se oggi può sembrare incredibile, è anche all’inizio degli anni Settanta il tentato ritorno di Juan Domingo Perón in Argentina, poi riuscito nel 1973. Il progetto politico di Perón, assai più ambiguo, negli anni ’50 paladino di una terza posizione tra blocco capitalista e blocco comunista, viene valutato da molti esponenti della sinistra con grandi speranze, anche per il favore con il quale Perón, dall’esilio spagnolo aveva considerato l’azione dei guerriglieri Montoneros, che tra l’altro, nel 1972, avevano rapito e ucciso il dirigente della Fiat argentina Oberdan Sallustro.

Ma sono le vicende cilene che occupano un posto di assoluto rilievo nel dibattito italiano degli anni settanta. E’ con la vittoria elettorale di Unidad popular e la presidenza di Allende che la storia cilena esce dai confini nazionali e si impone all’attenzione non solo italiana, ma mondiale. Nel sistema dei partiti cileno quello italiano si rispecchia pienamente e i nostri tre partiti di massa (democristiano, socialista e comunista)registrano antiche solidarietà con i loro corrispettivi cileni. Ma nella coalizione di governo di Unidad popular sono presenti anche il Partito radicale, i Cristiani per il socialismo e il MIR (Movimento izquierda revolucionaria); in essa sono presenti sia le istanze moderate e gradualiste di riforma sociale, sia le spinte rivoluzionarie. Comunque è il tentativo di realizzare il “socialismo per via parlamentare” che fa dell’esperimento cileno qualcosa di inedito e che rende ancora più affascinante e intrigante il “laboratorio politico latinoamericano” soprattutto in un momento in cui, Cuba, ormai completamente subalterna a Mosca registra, tra gli intellettuali e politici italiani, una perdita di consenso e comunque molte perplessità. L’esigua maggioranza con cui Allende viene eletto grazie all’appoggio esterno, in parlamento della DC, il fatto che la sua posizione gradualista risulta essere minoritaria all’interno della UP e del suo stesso partito, non vengono, in Italia, tenuti in debito conto.

Scrive G. Paletta in un articolo dell’Unità del 16 settembre 1973: “Del Cile non abbiamo mai fatto un modello ma un importante esempio, importante per noi non solo nei momenti di vittoria ma anche in quelli dei dolori e del travaglio”. Per i comunisti italiani, il Cile di Allende rappresenta una speranza, quella di veder realizzata una linea politica che già a partire da Gramsci si era delineata in forte contrapposizione rispetto alla linea ufficiale imposta da Mosca.
Condannata come utopia da molti settori politici, la politica di Allende rappresenta in Italia la messa in pratica di un sogno politico che aspira all’affermazione del socialismo attraverso la legalità e la democrazia. Il Cile significa un’alternativa alla rivoluzione cruenta che sino ad allora era stata vista come tappa unica e imprescindibile per il raggiungimento e per l’affermazione del socialismo. Ciò spiega perché l’esperimento cileno appassiona gli italiani esercitando su di essi un fascino grande almeno quanto il doloroso risveglio della mattina dell’11 settembre 1973. Mentre le bombe cadono sulla Moneda (palazzo presidenziale) distruggendo ciò che rimaneva della linea politica di Unidad popular, l’Italia antifascista, sgomenta, inizia a fare i conti con le circostanze e gli errori che hanno portato la situazione a un risvolto tanto drammatico in un paese di lunga e ininterrotta storia democratica, eccezione nel continente latinoamericano.

Il bombardamento, la morte del Presidente, lo stadio lager, le fucilazioni sommarie, la giunta militare e le fosse comuni, le responsabilità della DC cilena per aver negato, a partire dal 1971 il suo appoggio ad Allende e aver favorito il colpo di stato, irrompono nella società italiana provocando un movimento di massa incomprensibile se non si indagano i profondi e articolati rapporti di solidarietà con il Cile. Lo sgomento, in primo luogo, è quello di chi non credeva possibile un tale stravolgimento in un paese di consolidate tradizione democratiche; lo sgomento è anche quello di chi comincia a chiedersi se una tale svolta può essere possibile in un paese come il nostro, così vicino al paese andino.

Alla fine degli anni sessanta la situazione politica italiana presenta una forte radicalizzazione dello scontro sociale caratterizzato dalla contestazione operaia e studentesca, dal movimento femminista, dalla lotta all’imperialismo e da una forte crescita della sinistra.Inoltre la pesante crisi economica e l’avvento del terrorismo contribuiscono a creare il particolare sfondo sociale all’interno del quale vengono interpretati gli avvenimenti cileni. Oggi è consolidata l’ interpretazione storiografica che coglie un nesso stretto tra fatti cileni e avvenimenti politici italiani.

Tutte le forze politiche italiane si sentono chiamate ad analizzare il golpe. Ma l’analisi più incisiva e maggiormente densa di conseguenze a livello politico è quella condotta da Enrico Berlinguer nei famosi tre articoli pubblicati su Rinascita il 28 settembre, 5 e 12 ottobre 1973. In questi tre articoli il segretario del Partito comunista analizza a fondo quelli che lui chiama gli insegnamenti del Cile, importanti non soltanto per la sinistra italiana, ma anche per tutta la sinistra europea. Tali insegnamenti si concretizzano fondamentalmente nell’acquisizione della consapevolezza che la sinistra non può andare da sola al governo senza una maggioranza elettorale e soprattutto sociale. Né può, in una situazione di conflitto acuto, sfidare apertamente i poteri corporativi se vuole vincere la sua battaglia.Queste riflessioni portano Berlinguer ad aprire quella fase storica del Partito comunista di ridefinizione della strategia delle alleanze conosciuta con il nome di “compromesso storico”. La politica delle alleanze con tutte le forze democratiche e in primo luogo con la Democrazia cristiana è possibile data la natura “mutevole” di quest’ultima. Si tratta di operare perché prevalgano, al suo interno, quelle tendenze che individuano la necessità di un’alleanza tra tutte le forze popolari.

Se l’analisi di Berlinguer, sostanzialmente moderata, viene criticata dai gruppi della sinistra extra-parlamentare per i quali gli avvenimenti cileni sono la prova lampante dell’impossibilità della realizzazione di un sistema socialista con strumenti pacifici e mediante riforme graduali, trova eco in alcune personalità e correnti della Democrazia cristiana.

Quest’ultima, come abbiamo già accennato, legata alla sua consorella cilena, è chiamata in causa per chiarire la propria posizione. Dopo il golpe tutte le parti politiche italiane (ad eccezione dell’estrema destra) sono concordi nella condanna del golpe militare. Ma le prese di posizione contro il colpo di stato sono in realtà decisamente più delicate per la DC. Si tratta di sconfessare pubblicamente i democratici cileni e indirettamente l’Internazionale democristiana, presieduta a lungo dall’on. Rumor, che ha sempre avallato la linea di Frei, accusato di aver favorito il golpe e diessersi reso responsabile, dopo l’11 settembre, di dichiarazioni eccessivamente benevole per il nuovo regime. La DC, in sostanzia, si trova, al momento del golpe, in una posizione di stretto rapporto e scambio politico, culturale e ideologico con la corrispettiva cilena, tanto che in un articolo pubblicato su “Politica internazionale” Ruggiero Orfei si chiede se “la DC italiana può aver incoraggiato con l’esempio e forse con le parole i democristiani cileni a tirare la corda sino al limite di rottura, per utilizzare a fondo una spinta a destra a fini di potere” rendendo vano il sistema delle alleanze e provocando la rottura dell’unità delle forze democratiche.

La politica della maggioranza della DC è di dissociazione dal colpo di stato, di condanna della violenza ma anche di pesanti critiche a Unidad popular e di minimizzazione della responsabilità dei democristiani nel processo culminato nella presa del potere da parte dei militari. Marcello Gilmozzi, in una serie di articoli apparsi sul “Popolo”, offre un’analisi spietata delle contraddizioni interne del governo di Unidad popular e della sua incapacità di governare le tensioni sociali. Tali posizioni sono le medesime espresse dal segretario politico della DC Fanfani e sostenute in Parlamento dall’onorevole Piccoli. Ma in concomitanza a queste prese di posizione ci sono quelle di altri esponenti DC, appartenenti alla sinistra del partito, che entrano più direttamente nel merito della vicenda ponendo il problema della responsabilità di Frei. Donat Cattin afferma che “il brutale soffocamento della libertà e la distruzione delle istituzioni di democrazia giunge al termine di un processo complesso ma al quale certamente organizzazioni politiche democratiche, in primo luogo la DC cilena, hanno partecipato alla cieca”. I dirigenti delle ACLI si esprimono in maniera piuttosto pesante affermando che “come organizzazione dei lavoratori cristiani ci incombe il dovere di denunciare senza mezzi termini il comportamento della DC cilena che prima ha favorito il crearsi delle condizioni per il colpo di stato e ora vergognosamente lo avalla”. Per l’ex presidente delle ACLI Aniello, le prese di posizione più conservatrici della DC, in Italia, non dipendono tanto dalle sue relazioni con la DC di Frei ma sono piuttosto insite nel ruolo scelto all’indomani del 18 aprile 1948 e cioè quello di divenire il perno di una politica conservatrice.

Insomma in Italia, le vicende cilene diventano il pretesto per i partiti politici di rifare i conti con il passato, riaprire giochi e ridefinire alleanze di fronte a una situazione, come quella dell’Italia degli anni settanta, densa di tensioni. Il dibattito alla Camera dei deputati del 26 settembre del 1973 , su cui sarebbe importante soffermarsi a lungo, offre un quadro politico dell’Italia di estremo interesse perché l’intreccio tra le riflessioni sulle vicende cilene e sulla situazione italiana è molto fitto. Non è un caso che un osservatore esterno come Cyrus Sulzberger titola un suo articolo comparso sul “New York Times”, qualche giorno dopo, “spaghetti italiani in salsa cilena”.

Ma la reazione italiana al brutale colpo di stato non si ferma a livello politico e ideologico. Va ricordata anche una pagina tra le più belle scritte dalla nostra diplomazia. Il governo italiano è l’unico paese insieme all’URSS a non riconoscere la giunta militare e a mantenere le relazioni diplomatiche con il Cile congelate sino al 1988, quando il processo di transizione democratica è decisamente avviato. L’ambasciata italiana a Santiago per i due anni successivi al golpe è il rifugio degli oppositori al regime con tutti i suoi funzionari, coordinati da un giovane incaricato d’affari, il dott. De Vergottini, mobilitati per rendere gradevole il soggiorno nell’attesa della possibilità di intraprendere la strada dell’esilio.

Ma soprattutto la battaglia si combatte anche sulle strade attraverso la voce di migliaia di manifestanti che sfilano in lunghi cortei, attraverso le gare di solidarietà che governo, partiti e società civile, offrono agli esiliati politici. E’ stato calcolato che negli anni successivi al golpe vengono approvati dai consigli comunali italiani circa 5.500 ordini del giorno di solidarietà e appoggio alla causa della democrazia in Cile. In nessuna altra parte del mondo si ha notizia di una cosa simile. Oltre alla calda accoglienza vengono messi a disposizione degli esiliati soprattutto gli strumenti che permettono loro di continuare l’opposizione, per quasi due decenni, oltre il confine cileno e di creare le condizioni favorevoli al ritorno della democrazia

C’è da notare, in una specie di amaro contrappunto come, l’Italia degli anni settanta, così sensibile alle vicende cilene, sia rimasta sostanzialmente silenziosa rispetto al golpe militare argentino del 1976, ancora più brutale e perverso di quello cileno, con i suoi 30.000 “desaparecidos”, molti dei quali italiani o di origine italiana. Il silenzio del governo, dei partiti, della società civile, dei mezzi di comunicazione di massa nei confronti delle drammatiche vicende politiche di un paese che registra un’ immigrazione di massa italiana così forte da alimentare, in altre circostanze, la retorica di “due paesi una sola nazione” è “assordante”. Andrebbe accuratamente analizzato per capire uno dei tanti lati oscuri delle dinamiche italiane di quegli anni.

Qui ci limitiamo a notare che, con la sola eccezione del Cile e, nei circoli della sinistra militante, della guerriglia centroamericana (Nicaragua e Salvador) a partire dalla fine degli anni settanta l’ America latina in Italia non è più mito. Il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro chiude una stagione d’interesse per quella regione del mondo.

La “repubblica delle banane” ancora non è comparsa all’orizzonte, o pur esistendo (il termine ha un riscontro storico, reale nei paesi del centroamerica, agroesporatori e legati a doppio filo alle compagnie internazionali, soprattutto Usa) non interessa, così come non interessa la tematica indigena, che farà la sua comparsa prepotente negli anni ’80. I paesi su cui si concentra l’attenzione e la passione hanno caratteristiche differenti. Al giorno d’oggi, in Italia, il più dinamico divulgatore del continente è un noto giornalista italiano ( non Italo Moretti, rigoroso e lucido inviato RAI in America latina degli anni ’70 bensì Gianni Minà) conosciuto anche all’estero per lo slancio con cui si occupa del “continente desaparecido”. Questa espressione, oltre a essere il titolo di un libro, è anche quello di una collana in cui pubblica libri che potrebbero definirsi “opere del pianto” che continuano a diffondere l’immagine di un continente oppresso, sventurato, “altro” rispetto a noi, immagine con cui i latinomericanisti italiani devono fare i conti ogni giorno.