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Non solo Guerra civile.

All’indomani della scomparsa di Claudio Pavone, la gran parte della stampa lo ha ricordato come l’autore del suo famoso libro del 1991, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza. È certamente giusto, perché quest’opera ha rovesciato il modo di guardare al confitto che sta alla base della nascita della nostra Repubblica. Ma se Pavone fosse solo l’autore di quell’opera non si spiegherebbe perché un pubblico assai vasto e composito ne ha condiviso la memoria in occasione della cerimonia funebre in Campidoglio: storici e storiche, archivisti funzionari e storici delle istituzioni, di ex giovani studenti che si sono laureati con lui all’Università di Pisa, colleghi, ricercatori e ricercatrici che fanno parte della grande rete degli Istituti di storia della resistenza e soprattutto persone, uomini e donne, che l’hanno conosciuto e gli hanno voluto molto bene.

Pavone era uno storico straordinariamente colto, con una formazione sicura e ampia, fondata su solide basi anche universitarie con i suoi studi di diritto e filosofia: nel ricordarlo per la rivista «Parolechiave» (da lui diretta per vent’anni) ho citato l’episodio (raccontato nel suo recente La mia Resistenza, 2015) di quando fu arrestato nell’ottobre del 1943 mentre nascondeva nella borsa una copia di un libro ‘compromettente’ come Etica e politica di Benedetto Croce! Il binomio Etica e politica lo guida non solo nelle sue prime scelte resistenziali (come racconta in La mia resistenza) ma anche nella sua professione di archivista e storico. È quest’ultimo un altro binomio assai radicato nella sua traiettoria biografica e scientifica: sulla inscindibilità delle due professioni si è giustamente insistito in occasione della pubblicazione nel 2005 del bel volume di suoi scritti Intorno agli archivi e alle istituzioni a cura di Isabella Zanni Rosiello, con un saggio di Stefano Vitali.

Ho un ricordo ancora vivissimo di quando il mio compagno, Nicola Gallerano, mi portò (forse era il 1973, ma senz’altro era l’unica visita formale che io rammenti in quegli anni) a conoscere Claudio Pavone a casa sua, a via Pereira, dove incontrai anche Giampiero Carocci: mi sarei resa conto solo molto più tardi (arrivavo a Roma da un contesto milanese impregnato di culture soprattutto economiche e sociologiche) di quanto quel colloquio fosse stato importante e significativo, per me (e anche per Nicola), di quanto, cioè, conoscere personalmente Claudio abbia rappresentato una ‘fortuna’, per noi e per molti altri giovani ricercatori di storia contemporanea. Se dovessi riassumere perché il suo insegnamento sia stato così importante tornerei all’intreccio tra etica e politica, cioè al legame imprescindibile che esiste tra slanci innovativi e riforme istituzionali. Pavone non si è mai stancato di porre l’accento sull’obiettivo della traduzione in riforme, in reti istituzionali, di ogni vero e non ideologico movimento sociale.

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Con Claudio, dentro le reti. 

Sono molte le reti istituzionali a cui Pavone ha dato vita e che ha continuato a consolidare e alimentare negli anni. Ne ricordo alcune, quelle che per altro ho “condiviso” con lui a partire dai primi anni ’70.

– Tra queste la principale e di più lunga durata è l’Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia alla cui costruzione Pavone partecipa fin dalla sua nascita, 1949, come sede deputata a raccogliere i documenti legati alla guerra di Resistenza in Italia (nel 1979 usciranno i tre volumi di documenti delle Brigate Garibaldi nella Resistenza l’ultimo dei quali è quello curato da Claudio Pavone, membro anche del Comitato scientifico). Di questa rete sono poi parte i vari Istituti regionali e provinciali sul territorio nazionale, alla cui vita Claudio ha sempre partecipato. Naturalmente il suo impegno è stato anche dedicato, soprattutto qui a Roma, all’Irsifar (Istituto Romano per la Storia d’Italia dal Fascismo alla Resistenza, fondato nel 1965): Istituto di cui anche io faccio parte e che deve molto negli anni ’80-’90 alla attività del suo amico Nicola Gallerano.

– La «Rivista di storia contemporanea» a Torino, è un’altra delle sedi in cui abbiamo intensamente collaborato (dal 1978, quando siamo entrati, alla sua chiusura nel 1995) concordando su una linea di apertura al comparatismo e alle scienze sociali.

– Nel frattempo a Roma era nata la Fondazione Basso presso la quale io lavoravo (anche come ‘comandata’ dalla scuola fino al 1984). Occupandomi della sezione di ricerche storiche ho coinvolto Pavone in più occasioni e infine nella costruzione e pubblicazione di un Annale che era anche il risultato di una ricerca universitaria (Suffragio, rappresentanza, interessi, 1988). E’ in quegli anni che Claudio entra a far parte della vita della Fondazione, legandosi di amicizia con Lucia Zannino, un’amicizia poi proseguita allorché la rivista fondata da Lelio Basso «Problemi del Socialismo» si trasforma in «Parolechiave» di cui Claudio assume e mantiene la direzione per vent’anni.

– L’ultima avventura istituzionale vissuta insieme è stata la fondazione della Società italiana per lo studio della storia contemporanea – Sissco – nel 1990. Pavone ne è stato presidente dal 1995 al 1999.

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Etica e politica.

Pavone non fu mai del Partito d’azione, e ‘azionista’ si è riconosciuto tardi: nel grande libro sulla Guerra civile.  Per questo filone di pensiero democrazia è scelta di doveri, ancor più che di diritti, ma per lo storico-cittadino Pavone c’è qualcosa in più e di diverso, dovuto, ne sono convinta, alla sua nascita. Discendente da una famiglia antica del Cilento, che annovera patrioti e generali, lettore di Pisacane (di cui abbiamo parlato molte volte, a proposito di Giaime Pintor, nei colloqui dell’ultimo anno), per lui democrazia è soprattutto scelta di diritti da conquistare per chi non ha voce e di dovere di battersi per quei diritti da parte di chi, come lo storico e l’intellettuale, quelle voce ce l’ha e la deve far sentire. Nella prefazione alla raccolta di scritti pubblicata sotto il titolo Alle origini della repubblica, 1995, egli concludeva il suo saggio osservando

 “….ancora oggi mi sembra che la questione più difficile sia comprendere se e come la moralità, le idee, la cultura informino di sé le istituzioni e se e come queste ne tengano conto, soprattutto quando vogliano essere buone e vitali. Una vena di moralismo anarchico mi spinge talvolta a pensare che l’armonia fra i due poli sia nel fondo impossibile. Il mestiere di ricercatore di storia (e ancor più quello di archivista, da me per lunghi anni praticato) mi portano in altri momenti a convincermi che quella possibilità esiste. Mi ripugna ammettere che vi sia un mondo – quello dello Stato, delle istituzioni, in definitiva, quello della politica – autonomo a tal punto da avere solo in se stesso le ragioni del proprio essere e del proprio dinamismo [… ] In una fase della mia giovinezza avevo tentato di conciliare la morale giansenista con la filosofia tomista. Ora non voglio rassegnarmi a credere che non esistano campi dell’agire umano nei quali non è possibile si manifestino valori positivi. Istituzioni e moralità sono insomma i due poli che mi hanno guidato nel mio lavoro. Se oggi ripresento questi scritti è anche come testimonianza di una irrisolta duplicità d’ispirazione”.

 

Credo che questa duplicità di ispirazione abbia guidato non solo le sue opere, ma anche il suo modo di “stare nel mondo”, che è tra le cose più importanti che ci ha lasciato in eredità.

Mariuccia Salvati