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In partibus infidelium: la diaspora islamica in Occidente

P. Branca (Università Cattolica, Milano)

Paolo Branca
Abstract
Nei libri di Oriana Fallaci e in altri simili, relativi ai musulmani, assistiamo alla sistematica costruzione dell’immagine di un nemico irriducibile con il quale non ci sarebbe alcuna possibilità di intesa. Sono testi che danno voce a un disagio reale, diffuso nell’opinione pubblica e acutizzatosi a causa dei timori collegati al fenomeno del terrorismo internazionale di matrice islamica. Davvero non vi sono forme praticabili di coesistenza tra due antiche tradizioni culturali e religiose in un’epoca nella quale esse si trovano a vivere una crescente intensificazione di contatti? Che quest’ultima comporti problemi e che non siano né pochi né di scarso rilievo i rischi che la gestione di un simile fenomeno porta con sé è del tutto evidente. Ma proprio qui sta il punto. La domanda essenziale che dobbiamo porci è appunto se il multiculturalismo sia un fenomeno gestito o semplicememente subito, di fronte al quale prevalgono atteggiamenti comunque inadeguati. Non ci vuol molto ad accorgersi infatti che, come contraltare della posizione demonizzante appena ricordata, l’atteggiamento più comunemente diffuso è quello del relativismo o, per dirla in modo più chiaro, dell’indifferenza. Che gli esseri umani si stiano mischiando è un fatto, molto meno sicuro è che le culture si stiano incontrando. La presenza tra di noi di un folto gruppo di uomini che appartengono all’islam è segno di un’evoluzione generale del nostro pianeta verso livelli di integrazione sempre maggiori che propongono in forma inedita le questioni relative al rapporto tra differenti tradizioni religiose e culturali le quali si mostrano sempre più evidentemente intrecciate, ma al tempo stesso destinate ad affrontare più direttamente, date le distanze ravvicinate, i problemi sollevati dalla loro diversità. Si tratta di sfide non prive di salutari provocazioni e spunti di riflessione per la fede di ciascuno. Se qualcosa possiamo imparare, non è meno vero che abbiamo anche non poco da proporre. Di fronte a una simile situazione, carica certamente di tensioni ma non priva di stimolanti opportunità, risulta evidente l’inadeguatezza di ogni visione che si limiti a paventare i pericoli di un Europa cristiana e civile assediata dai nuovi barbari del fondamentalismo musulmano. Anzitutto bisogna tener presente che l’integralismo religioso interessa solo una minoranza di islamici, anche se si tratta purtroppo della sola che riesca a far parlar di sé, rivendicando illegittimamente la rappresentanza di tutti gli altri. D’altro canto, neppure gli stessi paesi europei od occidentali sono riconducibili a un medesimo modello. A differenza di altri, l’Italia è un paese sostanzialmente sprovvisto di forti “paradigmi” etnico-culturali (come la Germania) o ideologici (come la Francia) che facciano decisamente pendere il pendolo verso l’assimilazione dei nuovi arrivati. Avremmo dunque, i teoria, alcuni vantaggi nello sviluppare una politica d’integrazione efficace. Nella maggior parte dei casi, invece, ci limitiamo a darci da fare per risolvere questioni concrete, come quelle legate alle prime necessità degli immigrati. Ancor più grave è la nostra tendenza a concentrarci sulle situazioni di emergenza, a reagire superficialmente quando scoppi un caso legato a fatti di cronaca o alle prese di posizione di questo o quel personaggio, spesso indebitamente sovradimensionato dal sensazionalismo dei media. Una visione di più ampio respiro e di maggiore ambizione sembra mancare, nonostante i fiumi di parole spesi in convegni e dibattiti sul multiculturalismo che lasciano generalmente il tempo che trovamo. Sembra quasi che la nostra tradizione culturale non sia uno degli elementi in gioco e, duole riconoscerlo, non tanto per un presunto disinteresse e una pretesa indisponibilità dei nostri interlocutori, quanto per la nostra carente consapevolezza di noi stessi. Si finisce così per ridursi a chiedere, nei fatti, a chi sbarca sulle nostre coste, di dimostrare la propria volontà di integrarsi più condividendo i nostri gusti gastronomici o le nostre passioni calcistiche che recependo i non pochi valori che ci derivano dall’antichità classica, dalla tradizione cristiana o dall’evoluzione politica e civile dell’Europa moderna. Temo che sia questa carenza che ci condanna all’inerzia, costringendoci a subire l’iniziativa altrui. Iniziativa che spesso viene condotta da sedicenti e improvvisati rappresentatnti di un islam bizzarro (come nel caso di non pochi convertiti) o comunque inadeguato a raccogliere le sfide e soprattutto a cogliere le opportunità che la sua dislocazione in Occidente potrebbe provvidenzialmente offrirgli. Il confronto con l’altro è spesso l’occasione per guardarsi allo specchio. Se avremo il coraggio di farlo, scopriremo che la povertà delle nostre proposte ha soprattutto in noi stessi le proprie radici.

1. Introduzione

La presenza nel nostro Continente di un numero sempre maggiore di musulmani rappresenta uno dei fenomeni contemporanei che vengono seguiti e commentati con crescente interesse e preoccupazione, ormai non soltanto da una ristretta cerchia di specialisti, ma anche da parte dei grandi mezzi di comunicazione di massa. Da un lato ci pare abbastanza diffusa, anche se non sempre esplicitamente dichiarata, la  consapevolezza che ci troviamo di fronte a qualcosa di irreversibile, segno di un’evoluzione generale dell’intero pianeta verso livelli di integrazione sempre maggiori, ove culture e tradizioni religiose distanti, se non del tutto estranee le une alle altre, saranno chiamate a convivere.  Dall’altro è altrettanto evidente che esse, proprio per questo motivo, sono anche destinate ad affrontare più direttamente, date le distanze ravvicinate, i problemi sollevati dalla loro diversità. Come vedremo, avere coscienza che questi problemi esistono e l’impegno nel gestirli adeguatamente, da parte di entrambi gli interlocutori, rappresenta un punto di arrivo ancora in larga misura da raggiungere. Resta il fatto che si è trattato di un evento sviluppatosi in tempi piuttosto rapidi, invertendo una precedente tendenza di segno totalmente opposto. Per secoli, infatti, dalla scoperta dell’America fino a metà del secolo scorso, i principali flussi migratori si erano indirizzati proprio dall’Europa verso gli altri continenti, costantemente e con dimensioni impressionanti: qualcosa come cinquanta milioni di europei hanno laciato il proprio paese per altre terre soltanto nei primo quarant’anni del ‘900! Le nuove condizioni economiche  e politiche del secondo dopoguerra hanno determinato un’inversione di tendenza, nella quale ben presto sono divenute protagoniste – tra le altre – le popolazioni dei paesi nordafricani e mediorientali, caratterizzati  da una decolonizzazione ancora incompiuta, da uno sviluppo parziale, comunque squilibrato quando non addirittura bloccato, ma soprattutto da un’impressionante presione demografica. Ciò sta avvenendo, tra l’altro, mentre l’Europa vive i passaggi decisivi della sua integrazione e in concomitanza con un profondo travaglio interno a molti paesi musulmanil che, dopo le stagioni del nazionalismo e delle rivoluzioni, han conosciuto di recente l’affermazione  progressiva di correnti e movimenti che puntano decisamente all’islamizzazione integrale della società, proponendo questa opzione come l’unica in grado si risolvere, insieme ai molti problemi che affliggono questa parte del mondo, la sua stessa crisi di identità e di rispondere all’ansia di riscatto che la pervade.

2. Il “caso” islamico e le sue specificità

Come tutti gli avvenimenti osservati “in diretta” quello della migrazione dai paesi islamici in Occidente è difficile da studiare: i dati sono contradditori e incerti, le testimonianze di vario valore, le strumentalizzazioni e le emozioni che lo accompagnano sono intrecciate ai dati oggettivi spesso in modo inestricabile. Non sono però immotivate una considerazione e un’attenzione particolari a questa presenza per diverse ragioni: spesso è infatti anzitutto come musulmani che si considerano e che si pongono gli immigrati stessi, unendosi in raggruppamenti che mettono l’accento sull’identità religiosa sia come fattore di coesione interna sia come elemento di confronto e di rivendicazione rispetto alla società ospitante. A questo proposito si può addirittura rilevare a volte una sorta di iper-islamizzazione, ossia una tendenza ad enfatizzare alcune espressioni tipiche della religiosità – aspetti esteriori e comportamentali o legati al culto – come processo di identificazione nel proprio modello originario e di distinzione dall’ambiente circostante ritenuto estraneo se non ostile. Che tale atteggiamento prevalga in un primo momento, quando si tema di venire semplicemente “assimilati” dalla cultura del paese ospitante, ci pare comprensibile e in parte legittimo, così come il timore di un’ “invasione” da parte delle società che vedono mutare profondamente la loro composizione etnica e religiosa… ma il perdurare di queste posizioni, alla lunga, rivela un preoccupante deficit di maturità che fatalmente finisce per favorire nei due fronti logiche e pratiche di esclusione, quando non di contrapposizione, fortemente controproducenti in vista di una reale integrazione.  In questo quadro possiamo rilevare il permanere, da parte delle comunità islamiche immigrate, di un legame particolarmente stretto e vincolante col mondo d’appartenenza originario, non privo tuttavia di elementi contrastanti e contraddittori. Le varie organizzazioni islamiche mantengono infatti spesso un rapporto privilegiato con determinati paesi arabi o musulmani o con associazioni islamiche internazionali da cui ricevevono varie forme di sostegno, compreso quello finanziario. Non è detto però che tutti i musulmani presenti in una città o su un dato territorio riconoscano la leadership più o meno diretta di tali governi od organismi internazionali e preferiscano organizzarsi autonomamente piuttosto che confluire nei centri già esistenti;partendo dalla loro specificità e dallo stretto legame che sussiste nell’islam tra spiritutale e temporale i musulmani presenti in Italia avanzano come in altri paesi una serie di richieste particolari a vari livelli: in un primo tempo l’esigenza più sentita è essenzialmente quella di avere un luogo di preghiera, che assolve ben presto però anche a funzioni di socializzazione primaria, seguita appena possibile – in rapporto al numero dei componenti della comunità e alle sue possibilità finanziarie – dalla ricerca di un terreno per edificarvi una moschea con un centro islamico annesso; una volta che si sia superata la fase iniziale e che l’insediamento cominci a percepirsi come stabile si passa ad altre richieste, come un luogo per la sepoltura riservato ai musulmani e soprattutto una serie di garanzie relative alle pratiche quotidiane: alcune legate al culto (orari della preghiera e principali festività) altre ad usi di vario genere (mense aziendali e scolastiche che tengano anche conto delle interdizioni alimentari previste sall’islam; macellerie che garantiscano l’abbattimento degli animali conforme ai precetti musulmani…); la questione più complessa è quella relativa all’applicazione delle norme del diritto musulmano in materia di statuto personale. A questo proposito la situazione italiana è particolare: l’immigrazione da paesi islamici – prima quali esclusivamente maschile – ha visto soltanto di recente accrescersi il numero dei nuclei familiari e sitauzioni “anomale” in questo senso, nonostante il rumore suscitato nei mass-media da rari casi di poligamia, non sono certo un aspetto dominante del problema. Sempre limitati, ma più comuni e rilevanti poiché coinvolgono cittadine italiane sono i casi di matrimoni misti, specie se conclusi con uno scioglimento che rivela le differenze tra i sistemi giuridici dei due partners nelle disposizioni relative all’affidamento della prole. E’ chiaro che queste richieste non pongono una mera questione organizzativa ma in alcuni punti rimettono in discussione delicati equilibri, come – sul breve periodo – il rapporto tra stato e religione e – più in generale e in prospettiva – i criteri di appartenenza a una comunità nazionale. La presenza islamica non è certo l’unico né il principale elemento di instabilità di un’Europa che sta faticosamente ridisegnando i suoi confini interni e ripensando la propria vocazione e il proprio ruolo: si tratta soltanto di un fattore in più che va ad aggiungersi agli altri e che forse acquisterà un peso crescente in un futuro che per certi aspetti sembra già cominciato. Ma, tra le speranze suscitate dai muri che crollano e le angosce provocate da rivalità e conflitti che rinascono sarebbe errato considerare i musulmani unicamente come un problema in più: ogni grande mutamento ci porta in territori sconosciuti e ci mette al fianco nuovi compagni di strada, la natura diversa del terreno ci potrà disorientare e le differenze tra noi e chi ci cammina accanto potranno non sempre essere semplici da accettare, ma sarà comunque meglio impiegare la nostra prudenza e la nostra creatività cercando di rispondere positivamente alla nuova situazione piuttosto che chiuderci in un mero atteggiamento difensivo.

3. Il peso del passato

Non possoamo negare, tuttavia, che i problemi e i timori che hanno per lungo tempo caratterizzato i rapporti tra mondo cristiano e mondo musulmano e più in generale tra civiltà orientale e occidentale, sembrano tornare prepotentemente alla ribalta. Con un senso di profondo disagio torna alla mente il celebre verso di Kipling: “Oriente è Oriente, Occidente è Occidente, e mai i due si incontreranno”, ma accanto alle preoccupazioni del presente occorre anche ricordare la ricchezza e la varietà delle situazioni verificatesi nel corso di una storia plurisecolare né indurre a sottovalutare le opportunità che, accanto agli inevitabili problemi e alle comprensibili tensioni, l’incontro ravvicinato in atto può offrire a ciascuno. Se infatti le relazioni tra queste due civiltà sono state spesso burrascose, gli scambi materiali ed intellettuali tra di esse non sono mai venuti meno e in molte occasioni hanno anche saputo dare mirabili esempi di fioritura culturale. I due aspetti vanno tenuti presenti insieme, da un lato per poter riprendere dalla storia gli spunti positivi di cui non è certo priva, dall’altro per non rischiare di ripetere gli errori di cui, purtroppo in misura ancor maggiore, è stata spesso testimone.

Nelle relazioni tra cristianità e islam l’aspetto ideologico che ha avuto grande peso e, come spesso accade, le somiglianze e i punti di contatto tra fedi e culture non generano soltanto possibilità di scambio e di avvicinamento, ma spesso e in misura ancora maggiore sono forieri di fraintendimenti e incomprensioni più gravi rispetto a quelli che si verificano tra realtà totalmente differenti. Il fatto che l’islam si sia presentato come une religione monoteistica e rivelata, inserita nel solco delle precedenti tradizioni ebraica e cristiana e che il suo Testo sacro contenga nomi ed episodi ben noti ai seguaci delle due altre fedi indusse ben presto la cristianità a interrograsi sulla natura di questo nuovo credo che, mentre conteneva senza dubbio una gran parte di “verità” condivisibili, dall’altra in molti punti altrettanto importanti si discostava radicalmente dalla dottrina della Chiesa. Fino al XII secolo si è quindi avuto un accostamento della realtà islamica fortemente riduttivo da parte di ferventi apologeti cristiani impegnati a dimostrare che i musulmani altro non erano che una setta particolare di eretici. I toni e le argomentazioni a cui essi fanno ricorso sono spesso simili a quelli impiegati nella lotta contro le molteplici deviazioni dottrinali di quei tempi. Fin da allora però gli spiriti più acuti già percepirono alcuni aspetti del problema che lo rendevano complesso e non riconducibile facilmente alle consuete categorie impiegate nei confronti delle sette cristiane: negli stessi scritti di Pietro di Cluny è chiara la coscienza della peculiare e irriducibile originalità dell’islam (“Questo errore non è uscito da noi…”) e la sua sostanziale diversità dai vari movimenti in dissenso con l’autorità ecclesiastica (“non si può chiamare eresia se non ciò che esce dalla Chiesa e va contro di essa”).[1] Col passare del tempo si ebbe una più diretta ed esatta conoscenza dell’islam: scuole di lingue, traduzioni più accurate, contatti diretti tra dotti delle varie religioni specialmente nelle corti della Spagna musulmana contribuirono al superamento di molti precedenti errori. Tuttavia non fu superata la tendenza a ridurre l’altro alla propria misura, né da parte di quanti cercarono una certa apertura dialogica come Nicola di Cusa, né tanto meno da parte di chi rimase all’atteggiamento di scomunica, compresi i grandi nomi della Riforma, o di chi volle continuare a riconoscere l’islam in molti simboli minacciosi dell’Apocalisse e a far coincidere la figura del suo profeta con quella dell’Anticristo.[2] I profondi mutamenti culturali verificatisi dal XVII secolo in poi portarono allo sviluppo delle scienze in forma sempre più aderente a nuovi criteri metodologici: la nascita dell’orientalismo contribuì così al superamento di molti pregiudizi e falsità ancora in larga misura diffusi intorno alla figura del fondatore dell’islam, al contenuto del suo messaggio e ai costumi dei suoi seguaci, in uno spirito radicalmente nuovo: “La verità sempre va ricercata; a me sembra lodevole uno studio che ponga fine alle calunnie e che spieghi in lungo e in largo questa religione a coloro che volessero comprenderla, senza nasconderla dietro le nubi della maldicenza o delle false interpretazioni, una comprensione cioè pari a quella che si ha nelle moschee e nelle scuole musulmane”.[3] Da parte islamica le cose non erano soatanzialmente diverse. Se da un lato va riconosciuto ai musulmani il grande spirito di tolleranza con cui permisero agli altri monoteisti di conservare la loro fede anche dopo la conquista, non diversa da quella dimostrata dagli occidentali fu la loro autosufficienza: “Atteggiamento fondamentale della comunità musulmana verso il mondo infedele fu per secoli una indifferenza sprezzante, nella inconcussa certezza di possedere essa intera la verità, norma della vita presente e guida alla futura”.[4]  Non si deve credere che i mutati rapporti di forza né i più evoluti strumenti di conoscenza abbiano risolto col tempo i problemi di incomprensione tra i due mondi. Essi hanno continuato a riproporsi sotto altre vesti fino a recentissime polemiche che, ora come un tempo, traggono nuovo alimento ed asprezza da rivalità e conflitti a vari livelli di cui le vicende umane non sono purtroppo mai avare. Le nostre conoscenze relative all’Oriente in generale e al mondo islamico in particolare sono oggi infinitamente maggiori e più esatte di quelle disponibili un tempo, ma con esse è anche aumentata la consapevolezza della relatività di ogni punto di vista e dei rischi che si corrono nell’accostare con le nostre categorie realtà tanto distanti e differenti da quella a cui apparteniamo.

3. Il presente: opportunità e rischi

Anche nelle tensioni che interessano attualmente i rapporti tra mondo islamico e mondo occidentale, la componente religiosa gioca un ruolo di notevole importanza. Essa è però percepita dai due lati in forme differenti, determinate in larga misura dal percorso evolutivo che ciascuna delle due civiltà ha conosciuto e particolarmente dalle presenti condizioni socio-culturali nelle quali i due interlocutori si vengono a trovare. Al di là di queste ed altre importanti differenze, ciò che di primo acchito emerge con evidenza crescente è l’alto grado di conflittualità che da entrambe le parti si riconosce a questo ritornante confronto. Ne c’è da stupirsene, vista la già richiamata pesante eredità di ataviche incomprensioni e diffidenze, di pregiudizi e di timori non sopiti che continuano a gravare sull’immaginario collettivo e che trovano nell’attuale temperie internazionale motivi per irrobustirsi dall’una come dall’altra parte. Eppure, basta riflettere un istante per avvedersi delle profonde differenze che non consentono di considerare i problemi presenti come una mera riproposizione di quelli del passato. Se, per ragioni diverse e in forme differenti, allora come ora il fattore religioso sembra essere quello maggiormente enfatizzato nel ritornate clash of civilizations, non si può evitare di notare che mentre quattordici secoli fa furono la forza e il ruolo che la fede aveva per entrambi i contendenti a imporre una simile sottolineatura, oggi – paradossalmente – lo stesso esito sembra prodursi invece per il modo antitetico con cui dalle due parti si concepisce il rapporto tra religione e società.

Quando, nel confronto tra i due antagonisti, predominava l’aspetto teologico emergeva chiaramente la tendenza a ridurre l’altro alla propria misura: da parte cristiana – come si è detto – si considerò a lungo l’islam una sorta di eresia, da parte islamica ci si è spesso accontentati di quanto, delle precedenti religioni “rivelate”, dicevano le proprie fonti… Se questo impediva di farsi dell’altro un’immagine nella quale questi potesse riconoscersi, non è comunque meno vero che molte affinità sussistevano e, come accade per le lingue, spesso fu proprio la somiglianza a provocare fraintendimenti e confusioni. “Per molti versi, l’islam medievale e il cristianesimo medievale parlavano la stessa lingua. […] Quando cristiani e musulmani si davano dell’infedele a vicenda, ciascuno capiva che cosa l’altro intendesse ed entrambi intendevano più o meno la stessa cosa”.[5] Le questioni politiche hanno però sempre avuto un peso determinante in questo confronto che non si è mai ridotto al solo livello dottrinale. Si potrebbe anzi dire che quest’ultimo acquistò rilievo e risonanza in forza del permanere e dell’aggravarsi delle prime: “I rapporti tra cristianità e islam, contrariamente a quel che si potrebbe pensare, non erano stati ostili nei primi tempi dell’espansione religiosa maomettana. Si deve ascrivere al fraintendimento del carattere della nuova religione da parte di male informati apologeti cristiani e poi al pericolo politico rappresentato dall’avanzata degli Arabi in Occidente la causa della violenta reazione antislamica successa dal secolo VIII al XII”.[6] Per ragioni storiche e ideologiche cominciò così ben presto quella confusione di livelli (etnico, culturale e religioso) che ancora oggi per molti aspetti perdura: “Sebbene cristianesimo e islam fossero rivali, anzi si disputassero il ruolo di religione mondiale, e nonostante condividessero tante tradizioni e credenze, tante finalità e aspirazioni, nessuno dei due era disposto a riconoscere l’altro come alternativa valida. […] Gli abitanti di varie regioni europee mostravano una curiosa riluttanza a definire i musulmani con qualsiasi appellativo dotato di connotazione religiosa e preferivano attribuite loro denominazioni etniche, allo scopo evidente di sminuirne la statura e l’importanza e ridurli ad un fatto locale o addirittura tribale. In diversi tempi e luoghi gli europei chiamarono i musulmani saraceni, mori, turchi o tàtari, a seconda di quale dei popoli musulmani avessero incontrato. La parola “turco”, cioè il nome di quello che era di gran lunga il più potente e importante fra gli stati musulmani, giunse persino a diventare sinonimo di “musulmano”, tanto che di quanti si convertivano all’islam si usava dire che fossero “diventati turchi”, indipendentemente dal luogo dove era avvenuta la conversione. Analoga, anzi identica riluttanza mostrano gli scrittori musulmani del Medioevo, che definiscono romani, slavi o franchi i propri rivali cristiani, a seconda di dove e quando li hanno incontrati”.[7] La confusione tra nazionalità e appartenenza religiosa non è dunque stata appannaggio dei soli musulmani. Anche dall’altra parte, e talvolta con malcelati intenti d’ingerenza, si giocò sull’equivoco, come quando la Russia ottenne, nel 1774, un “diritto di rimostranza, originariamente limitato ad un’unica chiesa russa situata nella capitale [ottomana, che] venne poi esteso, grazie a continui errori d’interpretazione non casuali ma voluti, e divenne un diritto d’intervento e protezione a favore di tutti i cristiani ortodossi dell’impero ottomano, compresi i molti che abitavano nei paesi arabi e la maggioranza dei sudditi ottomani residenti nella penisola balcanica. Analogamente, il diritto d’intercessione a favore dei cattolici, a lungo rivendicato dal re di Francia, si trasformò in un diritto d’interferenza, praticamente in un protettorato su una minoranza meno rumorosa, ma pur sempre significativa, dei sudditi del sultano”.[8] Negli ultimi due secoli molte cose sono cambiate. La sempre più evidente debolezza e il successivo crollo dell’Impero ottomano hanno portato l’Europa a guardare all’islam non più come una minaccia, ma come una zona di conquista politica ed economica o, nel migliore dei casi, come ad un’area da riscoprire ora tramite esotismi e mode letterarie ora mediante uno studio sistematico fondato su premesse scientifiche di nuova concezione. L’aspetto delle divergenze teologiche passò così in secondo piano, mentre anche da parte islamica il confronto con gli antichi avversari si spostava su altri piani e cambiava radicalmente di segno. L’occidente, che pure rimaneva la sede principale del cristianesimo, si proponeva soprattutto come la patria del progresso tecnico e scientifico e quindi non più tanto come un avversario, quanto addirittura come un modello di organizzazione e di efficienza che esercitava un notevole fascino sulle classi drigenti dei paesi musulmani. Come i sapienti cristiani del medioevo non ebbero difficoltà a recepire le conoscenze in fatto di astronomia o di medicina che pervenivano da fonti arabo-islamiche, così gli intellettuali musulmani del XVIII e XIX secolo sia aprirono alle realizzazioni della scienza europea con entusiasmo, per non dire con avidità, per quanto spesso “questi oggetti vennero spogliati di ogni nesso culturale e ridotti a manufatti passivi, privi di radici organiche”.[9] L’interesse, e quindi anche la polemica, si è dunque spostata su altri campi. Questo slittamento si è prodotto a causa della progressiva affermazione di nuovi orientamenti all’interno dei due mondi chiamati a confrontarsi nuovamente. In occidente infatti il processo di secolarizzazione aveva sottratto al diretto influsso della religione molti aspetti del pensiero e dell’azione umana. Il fatto che la cultura occidentale si sia in un certo senso imposta anche nel mondo musulmano come modello con il quale fare i conti ha introdotto problematiche simili in una società che al suo interno restava invece ancora sostanzialmente tradizionale. Avvedendosi del loro ritardo tecnologico e domandandosi quali fossero i fattori che avevano consentito agli europei di raggiungere un simile livello di sviluppo, gli intellettuali del mondo islamico si trovarono coinvolti in un confronto ideologico nel quale i valori-guida erano diversi da quelli propri della religione quando non del tutto estranei a essa, con una ulteriore confusione di piani e una sovrapposizione di appartenenze rispetto a quella già prodottasi in passato. Ci troviamo di fronte a una situazione  fortemente ambigua, in cui l’ “altro” rimane contraddittoriamente allo stesso tempo sia un modello sia un rivale. L’atteggiamento di attrazione persiste nell’apologetica. Essa, nel difendere l’islam dalle accuse dei suoi detrattori e nel tentativo di dimostrare la sua modernità e razionalità, implicitamente ammette dei valori propri della cultura alla quale apparentemente si oppone. I meriti dell’occidente sarebbero quelli di aver portato a maturazione le premesse scientifiche date dall’islam, grazie alla sconfitta della Chiesa oscurantista, mentre nei paesi musulmani il progresso si sarebbe fermato soltanto perché essi avrebbero cessato di essere veramente musulmani. Questo modello apologetico è doppiamente insidioso poiché da una parte ammettere alcuni valori in forma indiretta e quasi inconsapevole, dall’altra non permette che il confronto con essi si sviluppi apertamente. Nello stesso tempo l’occidente rimane anche un ostacolo, ma anche qui l’ambiguità è forte: nell’epoca del nazionalismo e della lotta anticoloniale rappresentava il nemico perché impediva il raggiungimento di quegli ideali che esso stesso aveva ispirato; oggi sembra invece l’immagine di un sistema totalmente opposto a quello islamico che proprio con il suo influsso ideologico ha impedito e continua a impedire al mondo musulmano di essere se stesso e quindi anche di risolvere i propri problemi in forma autonoma ed efficace. Il cristianesimo assume in questo quadro anch’esso una forte ambivalenza all’interno del discorso islamico radicale: da una parte è una religione che avrebbe deviato dal suo primitivo e genuino scopo, per cui la conversione all’islam dei suoi seguaci resta l’unica strada possibile perché nei loro confronti vengano meno le riserve di sempre, quale che sia il linguaggio “teologico tradizionale” o “ideologico aggiornato” attraverso il quale vengono espresse. Tuttavia non mancano valutazioni che vedono ogni religione minacciata dai vizi della società moderna e talora si preconizza un fronte comune di tutti i credenti di fronte ai pericoli che sovrastano la religione.[10] Queste “sante alleanze” non sotituiscono, ma vanno affiancandosi contraddittoriamente alle polemiche di sempre. Anche qui dunque vi è un piano apologetico che convive con uno militante. Se genericamente si parla di credenti si intravvede un loro accorpamento contro il laicismo dominante, ma se ci si riferisce propriamente al cristianesimo allora si esalta la diversità dell’islam come religione più razionale, moderna e “laica” (cioè senza clero) rispetto al dogmatismo e al clericalismo cristiani. L’influsso della situazione internazionale è importantissimo e nella ritornante immagine dei “crociati” si uniscono le negatività di occidente e cristianesimo con una significativa colorazione più religiosa che politica, assai poco aderente sia alla realtà attuale sia alla percezione che delle Crociate ebbero a suo tempo gli stessi musulmani… Se poi si passa al rapporto con l’ebraismo le cose sono ancora peggiori e il termine sionismo (alleato dei crociati!) assorbe tutta la negatività dei passati conflitti (a partire dal Profeta) senza lasciare spazio alla considerazione delle comuni radici e facendo svanire il ricordo di lunghi periodi di pacifica convivenza.

4. Quali prospettive?

Il processo di mondializzazione in atto ridefinisce tendenzialmente quando non supera totalmente sia le appartenenze antiche e recenti sia le ideologie che hanno prevalso fino a ieri e ancora influenzano il dibattito in corso. Tenendo conto di tutto ciò è evidente che sarebbe una battaglia di retroguardia soffermarsi unicamente su fasi che hanno in larga parte fatto il loro tempo e per certi aspetti sembrano soltanto stancamente sopravvivere a se stesse. La presenza crescente di comunità islamiche in occidente e l’accesso di un numero sempre maggiore di soggetti all’utilizzo di strumenti di comunicazione anche modernissimi e tecnologicamente avanzati sta trasformando non sosltanto le modalità, ma anche la natura delle relazioni tra differenti civiltà e quindi anche tra diverse tradizioni religiose. Osservatori e studi specifici sono ancora scarsi e l’interdisciplinarità dell’approccio necessario resta largamente da sviluppare, ma sono convinto che le nuove frontiere del duplice e contraddittorio confronto islam-cristianesimo e islam-occidente siano ormai davanti ai nostri occhi. La possibilità di non ricadere negli errori del passato o in nuove e ancor più gravi rischi risiede nell’impegno e nella fantasia che in quest’affascinante e ardua occasione di contatto ravvicinato i due protagonisti sapranno dispiegare. Le future generazioni avranno probabilmente nuove opportunità e compiti che ora possiamo soltanto parzialmente immaginare. L’augurio è che si possa giungere preparati a questi appuntamenti, per evitare gli errori del passato i quali, come abbiamo visto, tendono a ripetersi, anche se sotto forme rinnovate, più subdole e insidiose.

L’islam con cui abbiamo a che fare non è più quello tradizionale del Nordafrica, del Medioriente o dell’area indo-pakistana, quand’anche i suoi seguaci che vivono tra noi se ne vogliano considerare gli interpreti più fedeli e coerenti, contestando esplicitamente la pretesa dei loro paesi d’origine (o quantomeno delle loro classi dirigenti) di essere autenticamente musulmani. Per uno dei frequenti paradossi della storia, essi sono senza dubbio portatori di usi e costumi fortemente impregnati della loro tradizione religiosa, ma nello stesso tempo aderiscono a un islam sempre più “deterritorializzato”, idealmente in concorrenza – quando non in aperto conflitto – con quello delle terre natie. Un islam, dunque, figlio e prodotto della modernità, anche se apparentemente ad essa ostile e intenzionalmente alternativo, che per di più trova le condizioni ideali per svilupparsi ed esprimersi proprio nel tanto odiato Occidente, che gli garantisce diritti e gli offre opportunità inimmaginabili nei luoghi dai quali esso proviene.

La rappresentazione di un Europa cristiana e civile assediata dai nuovi barbari del fondamentalismo musulmano, tanto cara ai non pochi polemisti che si illudono di poter reagire rispolverando gli ormai arrugginiti e comunque inadeguati armamentari di una controversistica che ha fatto definitivamente il suo tempo, è dunque anacronistica. La questione è nuova e richiede nuovi strumenti di analisi e d’intervento per essere convenientemente fronteggiata.

In alcuni paesi europei, dotati di forti “paradigmi” etnico-culturali o ideologici, le politiche adottate sembrano propendere decisamente verso l’assimilazione dei nuovi arrivati. I risultati fin qui ottenuti sono stati parziali e contraddittori, dimostrando come minimo che non esistono ricette universali e di sicuro effetto. Altrove prevalgono gestioni dominate da interventi più localizzati ed occasionali. Innumerevoli sono le iniziative che cercano di rispondere ai bisogni primari degli immigrati (come la casa, la salute e il lavoro), ma esse sono nella maggior parte dei casi carenti se non del tutto prive di una dimensione culturale che le supporti e le sappia orientare. Ciò rivela un’incapacità di prendere in seria considerazione il problema dell’esito globale di quanto si intraprende, con una ingenua fiducia che, spontaneamente, le cose si aggiusteranno da sé cammin facendo, pretendendo che le buone intenzioni bastino a produrre in definitiva anche buoni frutti. Sembra quasi che non si abbia nulla da dire o da proporre a chi, accanto al basilare ma non certo esaustivo desiderio di trovare condizioni di vita migliori, è portatore anche di altre domande che non sappiamo interpretare principalmente perché noi stessi siamo i primi a non porcele più. L’assistenza ai bisognosi è certo una buona cosa, ma davvero non abbiamo altro da offrire, oltre a un letto e a un pasto caldo? Duemila anni di Cristianesimo, l’ancor più antica eredità greca e romana, oppure le recenti e sofferte acquisizioni che abbiamo pagato a caro prezzo emancipandoci dai nazionalismi esasperati e ai furori ideologici del ‘900 sono un bagaglio già così poco “nostro” da impedirci di immaginare di poterlo almeno condividere con chi bussa alla porta dell’opulenta Europa?  Il prezzo della nostra pochezza, che ci impedisce di prendere l’iniziativa, è la condanna a subire quella altrui. Potremo anche rispondere negativamente alle richieste che ci verranno poste – quando fossero delle assurde pretese – ma se continueremo a non fare il primo passo, avremo giocato solo “di rimessa” e resteremo fatalmente vittime dell’intraprendenza dei nostri interlocutori. Tra questi, oltretutto, finiranno per farsi avanti non necessariamente i più ragionevoli o rappresentativi, ma – com’è accaduto di recente nella polemica relativa al crocefisso – quelli che sapranno con maggiore scaltrezza insinuarsi nelle pieghe delle nostre miserie, senza alcun rispetto per i valori autentici di due grandi tradizioni religiose che avranno buon gioco a strumentalizzare in una sconfortante sceneggiata in cui ciascuno darà il peggio di se stesso: una partita meschina fatta di ricatti e basata sull’ambiguità.

C’è dunque il rischio che su entrambi i fronti prevalgano gli aspetti meno nobili e più effimeri della massificazione che caratterizza questo nostro grigio tempo. Agli europei la parte un po’ svilente dei benestanti, preoccupati soprattutto che i parenti poveri non siano troppo molesti, disponibili a sopportarli purché disposti a svolgere le mansioni più umili e faticose e a condividere almeno qualche rito collettivo, calcistico o televisivo, per dimostrare di non essere del tutto incivili. Agli immigrati musulmani, quella dei retrogradi ancorati a una visione del mondo medievale, teocratica e sessista, tutt’al più camuffata nella dozzinale apologetica che contrabbanda le interdizioni alimentari coraniche come norme igienico-sanitarie o addirittura la preghiera islamica come salutista, in quanto le prosternazioni che contempla sarebbero una forma benefica di ginnastica… Sarebbe ben triste se il tavolo comune al quale infine ci sederemo fosse quello di un fast-food, magari con carne macellata conformemente alla sharî’a! Eppure, l’esito di quanto sta accadendo non sarà molto diverso se ci ostineremo ad ignorare le opportunità che invece sussistono nel tratto di cammino che ci è dato di percorrere con questi inattesi compagni di strada. Il fatto che essi siano tanto profondamente radicati in una tradizione religiosa in fondo non molto distante dalla nostra, potrebbe ad esempio rappresentare per noi l’occasione per interpellarci sul ruolo marginale a cui stiamo inconsapevolmente relegando quest’ultima per far spazio ai miti di un progresso che sarà ben poca cosa se non saprà mantenersi in contatto con il proprio passato. L’analfabetismo biblico che caratterizza le nostre giovani generazioni, infatti, prima che un problema confessionale è una fondamentale questione culturale. Non molti anni fa, il corrispondente dal Medio Oriente di uno dei principali quotidiani italiani, parlando della “tomba di Giuseppe” identificò a colpo sicuro che si trattava… del “genitore di Cristo”, senza neppure essere sfiorato dal dubbio che potesse essere invece  qualcun altro, forse più importante agli occhi di ebrei e musulmani rispetto allo sposo di Maria. Resta un mistero come chi ignori evidentemente del tutto l’esistenza di un figlio di Giacobbe che portava quello stesso nome possa pretendere di comprendere e quindi di spiegare ai suoi poveri lettori quel che succede  in Terrasanta. Questo squallido episodio la dice lunga non soltanto sulle gravi lacune in fatto di religione proprie dei nostri giornalisti, ma anche e soprattutto sulle carenze di una “cultura generale” nella quale sembra che neppure i titoli delle opere di Thomas Mann rientrino nel bagaglio di una persona di presumibile formazione universitaria. A quel Giuseppe è dedicata un’intera sura del Corano, e c’è da scommettere che la maggioranza degli incolti musulmani che popolano le nostre città ne sappiano a memoria almeno qualche passo. I loro scarsi studi sarebbero così paradossalmente più adeguati di tutte le nostre tecnologie per comprendere la storia, l’arte, la musica e la filosofia – prima ancora della fede – di quel continente che li guarda con tanta supponenza e che facilmente liquida come leggende “superate” le storie alle quali si sono abbeverati per secoli quanti hanno edificato la nostra civiltà.

Una delle acquisizioni che ha contribuito in misura determinante allo sviluppo dell’Occidente è stato sicuramente l’incremento delle conoscenze sulla base di indagini obiettive e approfondite. Sarebbe un errore considerare tale conquista in contrapposizione alle certezze proprie della fede, come ancora spesso si sente purtroppo affermare. La sfida del cosiddetto multiculturalismo non potrà essere validamente affrontata senza attingere, con umiltà ma anche con determinazione, a tale dinamica di costante rigenerazione. Sorprendentemente, quanti si trovano in un certo senso “in prima linea” rispetto a tale fronte d’impegno – come gli insegnanti, gli operatori sociali e gli stessi pastori – si trovano per lo più sprovvisti di ausili che li possano coadiuvare in tale difficile compito. Più in generale, nonostante il numero impressionante di iniziative che ad ogni livello vengono promosse su questa tematica, specialmente in Italia emergono preoccupanti carenze negli strumenti di base indispensabili alla formazione di quanti si trovano coinvolti in un simile fenomeno. I richiami alla “vocazione mediterranea” del nostro Paese restano vuote frasi retoriche, non soltanto inutili, ma potenzialmente fuorvianti, in quanto lasciano credere che la nostra posizione geografica possa garantirci da sé la capacità di assolvere adeguatamente un ruolo che richiede invece ben altre assunzioni di responsabilità. La stessa proliferazione di volumi sul fondamentalismo islamico seguita ai tragici attentati dell’11 settembre potrebbe risultare una cortina fumogena che maschera l’assenza, nella nostra lingua, di testi di riferimento per una conoscenza almeno elementare del mondo in cui quegli atti di spaventosa violenza distruttrice sono maturati. Se si eccettuano alcune aree nelle quali l’Italia è stata direttamente coinvolta durante il periodo coloniale, per la maggioranza dei paesi arabi e musulmani, non esistono studi organici, specialmente per quanto riguarda la storia moderna e contemporanea. Un paese come l’Egitto, nonostante sia il maggiore stato arabo per popolazione e uno dei più importanti per le vicende recenti dell’area mediorientale, continua ad essere considerato principalmente, se non esclusivamente, la patria dei Faraoni, quando non si riduce a venir identificato con le località balneari alla moda sulle coste del Mar Rosso.  Le storie della letteratura araba sono da anni esaurite e non più ristampate… e si potrebbe continuare. L’orientalismo italiano, che pure ha avuto in passato nomi di statura internazionale, è diventato l’ombra di se stesso, così come le nostre sedi diplomatiche e gli istituti italiani di cultura si riducono spesso alla normale amministrazione. Lasciare alla buona volontà e all’improvvisazione dei singoli la gestione di questo fenomeno dimostra una miopia e una leggerezza preoccupanti. Quel che maggiormente rincresce è la mancanza di consapevolezza che proprio in casa nostra, per un fortuito caso della storia o secondo gli imperscrutabili disegni della Provvidenza, passa il “fronte” dell’incontro di due grandi tradizioni culturali e religiose chiamate nuovamente a confrontarsi. Ci sono ormai tra noi musulmani di seconda e di terza generazione, alcuni di loro parlano meglio l’italiano che non l’arabo o le altre lingue dei loro genitori. Con essi, l’islam che è in Europa potrebbe diventare l’islam “d’Europa”, con benefici riflussi sul mondo musulmano nel suo complesso. La grancassa dei media offre ben poco spazio a costoro, privilegiando personaggi molto meno rappresentativi e più folcloristici, quando non addirittura squilibrati. Non ci nascondiamo che, soprattutto tra i gruppi organizzati, l’ideologia prevalente è spesso di stampo integralista, talvolta guidata da responsabili “paracadutati” nel nostro continente che poco o nulla sanno della situazione locale nella quale dovrebbero condurre le rispettive comunità. Gli orientamenti e persino gli umori dei paesi di origine si riflettono così rovinosamente sulla situazione europea. I movimenti islamici radicali, che in casa propria non trovano le condizioni per agire indisturbati, si vedono paradossalmente garantiti i più ampi diritti di aggregazione e di espressione in quell’Occidente tanto corrotto e ostile al quale si contrappongono. Mentre i musulmani meno illuminati approfittano largamente di tutto questo, non altrettanto si può dire degli altri, che per loro immaturità e nostra indifferenza restano defilati, insieme alla gran massa di quanti sono troppo occupati dalle questioni concrete e quotidiane per potersi permettere il lusso o per avere il coraggio di fare udire la loro voce.


[1] Pietro di Cluny, cit. in G. Rizzardi, La sfida dell’Islam, CdG, Pavia 1992, p. 35.

[2] G. Rizzardi, op. cit., capp. II e III.

[3] A. Reland, De religione muhammadica libri duo, Utrecht 1717, Pref. IV.

[4]  F. Gabrieli, introd. a B. Lewis, Europa barbara e infedele, i musulmani alla scoperta dell’Europa, Mondadori, Milano 1983, pp. X-XII.

[5] B. Lewis, L’Europa e l’Islam, Bari 1995, pp. 10-11.

[6] C. De Frede, La prima traduzione italiana del Corano sullo sfondo dei rapporti tra Cristianità e Islam nel Cinquecento, Napoli 1967, p. 13.

[7] B. Lewis, op. cit. , pp. 14-15. Cfr. anche A. Pertusi (a cura di), La caduta di Costantinopoli. Le testimonianze dei contemporanei, Milano 1976; Id. , La caduta di Costantinopoli. L’eco nel mondo, Milano 1976; L. Rostagno, Mi faccio Turco. Esperienze ed immagini dell’Islam nell’Italia moderna, Roma 1983.

[8]  B. Lewis, op. cit., p. 47.

[9]  Ibidem, p. 58.

[10]  Cfr. H. Turabi “Afâq al-hiwâr al-islâmî al-masîhî” (Les horizons du dialogue islamo-chrétien), in Etudes Arabes Dossier “Le dialogue vu par les musulmans” n. 1-2/1995, pp. 140-149.