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Insegnare a insegnare la storia: appunti sull’esperienza nella Ssis della Toscana

di Gaetano Greco

Nella tradizione della Scuola italiana l’insegnamento della Storia dovrebbe costituire una parte integrante del percorso formativo di ogni allievo dagli otto ai diciannove anni. Inoltre, ad eccezione di coloro che concludono precocemente i loro studi dopo la fine dell’”obbligo” a quattordici anni (ora innalzato a quindici anni), ed escludendo anche le tante, troppe interruzioni della carriera scolastica prima di aver superato l’esame di Stato, si ritiene comunemente che ad ogni allievo, giunto alla fine del percorso scolastico, sia stato impartito un triplice corso di Storia sempre di tipo diacronico dall’antichità ai giorni nostri ma con un dosaggio crescente. Una prima volta con il cucchiaino nelle scuole elementari, poi a cucchiaiate nella scuola secondaria inferiore, ed infine a mestolate nella scuola secondaria superiore. “Repetita iuvant”, si diceva una volta, e forse in quei tempi remoti il detto avrà avuto anche una sua validità, soprattutto perché allora di questa terapia fruiva una minoranza dei giovani, che poteva contare anche su qualche volenteroso collaboratore. I pochi mass media, ai quali avevamo accesso (la radio, la prima televisione con uno o due canali di Stato), occupavano pur sempre uno spazio assai limitato e non privo di utili “ripassi” dei programmi scolastici (basti pensare ai teleromanzi o a personaggi come il maestro Manzi ed il professor Cutolo) del nostro tempo libero, nel quale invece la lettura deteneva una posizione saldamente egemonica: lettura di romanzi italiani e stranieri, di testi teatrali, di rotocalchi di attualità, di riviste indirizzate all’infanzia come il “Corriere dei Piccoli” o come quella “linea italiana” di Topolino segnata dalle parodie dei grandi classici (dall’Inferno di Topolino al Paperin meschino). Oggi chi vuole potrebbe trovare certo di meglio, certo molto di più, ma talmente frammisto ad una gran congerie di informazioni e soprattutto di pubblicità commerciale secondo tipologie talmente diverse le une dalle altre, da non potervi rintracciare quell’asse culturale che unificava il nostro sapere in formazione (di noi, esigua minoranza!): l’abitudine, acquisita precocemente, di collocare ogni oggetto della nostra conoscenza in una determinata dimensione spazio-temporale, la necessità indotta di pensare al “prima” e al “dopo”, la volontà di individuare anche se troppo spesso sulla base di un determinismo ingenuo o di un falso finalismo nessi causali fra un evento e l’altro, fra un fenomeno e l’altro. La stessa continuità nelle condizioni della vita materiale fra una generazione e l’altra consentiva la trasmissione dell’esperienza storica all’interno del contesto familiare; ma dopo le ultime rivoluzioni della tecnologia e delle comunicazioni, ma anche della sanità e delle abitazioni la comprensione fra le generazioni è saltata, perché i più giovani non hanno alcuna conoscenza diretta di nessun elemento della vita materiale degli anziani, i quali sono privi, in gran maggioranza, degli elementi culturali indispensabili per elaborare e trasmettere i loro ricordi ai più giovani. In effetti, anche per il nostro paese non mancano gli indicatori per dimostrare le dimensioni dell’enorme salto compiuto dalla qualità della vita a partire dagli anni del “boom” economico: la drastica caduta della natalità, ma anche della mortalità infantile; l’allungamento della speranza di vita; i mutamenti nel regime alimentare, con la diminuzione della quota dei cereali a vantaggio della carne bovina; la crescita esponenziale nella disponibilità personale di energia, di acqua, di elettrodomestici, di automezzi, di vestiario, di unità abitative, ecc. Così è morta la memoria degli individui e delle loro famiglie, sono venute meno le grandi narrazioni della Storia per sostenere le battaglie politiche di massa ed è svanita pure la Storia pubblica: Alessandro il Macedone come Giulio Cesare, Carlo Magno come Napoleone, Garibaldi e Mussolini, De Gasperi e Kennedy, Pio XII e Giovanni XXIII sono diventati nomi ignoti, che la maggior parte dei nostri giovani non è in grado di collocare né in un secolo preciso, né, fra di loro, in un ordine diacronico.
D’altronde, l’insistenza sul riconoscimento del ruolo della Storia nella formazione dei giovani da parte della tradizione scolastica italiana appare troppo spesso un mero artificio retorico, più o meno consapevolmente ripetuto. Chi, infatti, dovrebbe insegnare Storia nelle nostre scuole e, soprattutto, con quale preparazione disciplinare e professionale? Per prima cosa, la tendenza attuale vede lo storico di professione relegato in una posizione appartata, possibilmente dentro l’università, intento a curare le proprie ricerche, incapace di contendere a chiacchieroni di vario tipo (talora anch’essi ben inseriti nell’università per meriti scientifici poco noti) la comunicazione del proprio sapere al di fuori della ristretta cerchia dei propri allievi e di qualche collega. Basta, poi, dare uno sguardo superficiale all’ordinamento scolastico e ai regolamenti universitari, per farsi un’idea del quadro istituzionale in cui si colloca la Storia come “materia”. Sul primo piano, ricordo che fra tante riforme, che pure hanno investito la scuola secondaria italiana, a partire dall’importantissima creazione della scuola media unica, non una ha scalfito minimamente uno dei cardini della riforma di Giovanni Gentile del 1923: l’abbinamento della cattedra di Storia da una parte con quella di Filosofia nei Licei Classici e Scientifici e, dall’altra, con quella d’Italiano nelle scuole secondarie di altro ordine. Anzi, la trasformazione della Storia in “ancella” delle altre due discipline una trasformazione già denunciata sulle pagine della “Nuova Rivista Storica” da Corrado Barbagallo e dai suoi collaboratori si è aggravata proprio negli ultimi anni ed in particolare con l’ultimo concorso ordinario. Infatti, mentre nel caso della classe 37 (Storia e Filosofia) la correzione dell’elaborato di Storia era possibile solo per i candidati che avessero già conseguito la sufficienza nel compito di Filosofia, per la prima prova scritta dell’Ambito 4 (discipline letterarie) è stata eliminata la tradizionale possibilità di optare per un tema d’argomento storico: nell’uno, come nell’altro caso, l’insegnamento della Storia è diventato sempre più spesso l’appannaggio, o meglio la funzione professionale secondaria, di un laureato in altra disciplina. Il danno sarebbe stato minore, se nelle università e in particolare nelle facoltà di Lettere e Filosofia fossero rimasti in vigore quei tradizionali piani di studio, che obbligavano i laureati a compiere un percorso storico di una certa consistenza. Invece, mentre l’introduzione dei corsi di laurea in Storia si è tradotta nell’attivazione di nuove discipline specialistiche a favore di tutti i settori disciplinari di queste facoltà, la liberalizzazione dei piani di studio ha colpito proprio l’obbligatorietà di una pur minima preparazione storica: i laureati in Lettere o in Filosofia degli ultimi anni hanno un curriculum di Storia, che possiamo definire ridicolo solo per eufemismo, ed i risultati sono sotto i nostri occhi.
Proprio da questi risultati intendo partire per cercare di fornire nelle prossime pagine una prima analisi sullo stadio iniziale di applicazione del nuovo sistema di formazione professionale per gli insegnanti della scuola secondaria: un sistema che è nato solo con l’a. a. 1999/2000, in concomitanza con il faticoso svolgersi di un “rito” epocale quale è il “Concorso ordinario” nel mondo della scuola ed in un clima universitario che, almeno per quanto riguarda le facoltà di Lettere e Filosofia, oscilla fra una latitanza disinteressata e un’aperta ostilità. Nella mia attività di coordinatore della sede senese della Ssis-Toscana si sono venuti a sommare da una parte i problemi assolutamente inediti della costruzione di una nuova istituzione sul piano statutario, organizzativo e didattico, dall’altra l’esperienza concreta di commissario nelle operazioni di selezione per l’accesso all’indirizzo Linguistico Letterario nelle due tornate passate, mentre sono stato incaricato anche di coordinare i lavori del concorso ordinario in Toscana per l’Ambito Disciplinare 7, cioè per le Classi di Filosofia, Storia e Scienze Umane. Intendo iniziare proprio da quanto ho imparato nello svolgimento di queste funzioni, se non altro per il numero dei concorrenti da me esaminati: intorno ai duemila, che aspiravano ad una cattedra di Storia o con Filosofia oppure con Italiano, Geografia, e Latino ed anche Greco. Duemila laureati, ma di questi assai pochi in Storia, qualcuno in discipline storico-artistiche, antropologiche, musicali, in gran parte in Lettere nei settori classico e filologico-moderno oppure in Filosofia. La ridottissima presenza di laureati in Storia fra i candidati di ambedue gli Indirizzi, nonostante l’esistenza di corsi di laurea in Storia nei tre Atenei della Toscana, rispecchia un dato nazionale: il rapporto sul Monitoraggio Crui-Concured dei corsi universitari per la formazione iniziale degli insegnanti, curato da Maria Lucia Giovannini dell’Università di Bologna, segnala una percentuale di laureati in Storia del 6% fra gli iscritti nell’Indirizzo di Scienze Umane e dell’1% (la stessa dei laureati in Astronomia!) fra gli iscritti dell’Indirizzo Linguistico-Letterario. Per comprendere appieno il valore assolutamente infimo di questo dato, basti riflettere alla distribuzione ufficiale dei programmi disciplinari nelle rispettive classi d’insegnamento: nella classe 37, Filosofia e Storia dovrebbero dividersi l’orario-cattedra alla pari, mentre nella classe 43-50 (Materie letterarie nelle Scuole medie di primo grado, negli Istituti tecnici, nei Professionali ecc.) il peso di Storia, Educazione Civica e Geografia dovrebbe raggiungere il 40% dell’orario complessivo a disposizione della cattedra.
Le prove di questi concorsi sono state svolte secondo diverse tipologie. Nel concorso ordinario della classe 37, la prova scritta consisteva in un tema a scelta fra una terna, e la prova orale nella classica interrogazione, non sempre limitata agli argomenti scelti dal candidato. Nei due concorsi dell’Indirizzo linguistico-letterario Ssis, mentre è rimasto invariato il test a risposta multipla, il primo anno la seconda prova è consistita in una interrogazione orale, mentre nel secondo anno e immagino che tale scelta verrà adottata anche in futuro si è preferito assegnare ai candidati lo svolgimento di un compito scritto, sotto la forma del commento ad alcune fonti documentarie (ovviamente in lingua italiana e con tutte le indicazioni utili per la loro datazione). Sulla base della correzione dei compiti e dei colloqui, credo di poter esprimere alcune considerazioni complessive sulla preparazione in Storia dei nostri allievi, tenendo presenti pochi dati quantitativi, di per sé sufficientemente indicativi: nel concorso ordinario da me presieduto ha conseguito l’abilitazione in Storia e Filosofia meno del 9% dei candidati, mentre nell’ultimo concorso di accesso alla Ssis su 277 candidati (per 280 posti banditi) hanno riportato una valutazione di sette decimi il voto indispensabile nei concorsi pubblici per superare la prova con esito positivo solo 56 laureati (il 20%), mentre ben 95 (il 34%) si sono attestati fra lo zero ed il tre! Venendo all’esperienza diretta dei colloqui per le prove orali, va subito rilevato come molti candidati abbiano dichiarato espressamente di possedere conoscenze limitatissime di Storia, ed in alcuni casi abbiano ricusato di rispondere alle domande su tale disciplina; del resto, anche nella prova scritta si sono verificati casi analoghi: alcuni candidati hanno riconsegnato il loro compito di Storia in bianco, senza aver neanche abbozzato un commento elementare ai documenti storici presentati dalla commissione (i cinque “zero” sopra accennati). Se molti candidati presentavano un curricolo universitario che raramente comprendeva più di un esame di Storia (ed è facile ipotizzare che la scelta sia stata orientata spesso dal tam-tam studentesco sulla presunta “bontà” del docente), nella maggior parte dei casi i candidati laureati nel settore classico hanno sostenuto soltanto esami di Storia Greca e Romana, pur sapendo che nei programmi disciplinari delle classi 43/50 è dato grande spazio anche a Storia Medievale, a Storia Moderna e a Storia Contemporanea: difficile non individuare una responsabilità nei colleghi, che hanno corretto e approvato i loro piani di studio.
Un gran numero di candidati non ricorda né i contenuti, né i testi dei corsi monografici di Storia: poiché lo stesso risultato è emerso da parte di chi aveva sostenuto solo uno o due esami di Letteratura Italiana, è giusto domandarsi quale sia l’utilità di corsi universitari monografici spesso micromonografici in assenza di conoscenze più generali. Inoltre, la quasi totalità dei candidati ha dimostrato di non essere in grado di orientarsi sulle tavole di un atlante storico, né è abituata a leggere ed interpretare documenti; così pure non conosce alcuna opera di storiografia le eccezioni più frequenti si riscontrano fra i classicisti, ma riguardano solo la storiografia del loro settore. Del resto, ai più è apparso ignoto il contesto storico nel quale è inserito l’oggetto della propria tesi di laurea, anche quando da quest’ultima è stata tratta una pubblicazione su riviste scientifiche di livello nazionale: nella versione comunemente accettata dai nostri laureati in Lettere pare proprio che la ricerca specialistica escluda in linea di principio sia la conoscenza delle discipline contigue, sia nel caso dei laureati in Storia delle altre competenze trasversali (per esempio, generalmente chi ha seguito studi di storia economica ignora gli studi di storia religiosa e viceversa) o di altre epoche storiche (i contemporaneisti hanno in gran dispetto i medievisti, che li ricambiano con identico ardore). Ancora più diffuso è apparso il fatto che spesso i candidati non sono in grado di spiegare e discutere il significato storico delle tematiche, di cui pure si occupano attualmente in virtù di contratti di lavoro, di commesse, di incarichi da parte di enti pubblici o di aziende private. Sembrano particolarmente esemplari in negativo! i casi degli addetti alla schedatura degli archivi storici comunali, che non sono stati capaci di indicare quelle novità sostanziali come lo Stato Civile che sono intervenute nell’amministrazione pubblica con l’Unità d’Italia; ma, soprattutto, va segnalato il caso dei docenti di Religione, i quali ignorano assolutamente tanto la Storia della Chiesa come istituzione, quanto la Storia del Cristianesimo come movimento religioso, come processo di elaborazione dottrinale. In questa sede si può solo accennare alla gravità di simili carenze da parte di docenti, che già operano nella scuola pubblica senza alcuna certificazione intorno alle loro competenze storiche sui temi del loro stesso insegnamento.
La quasi totalità dei candidati ha rivendicato orgogliosamente, e direi pure polemicamente, un assoluto disinteresse nei confronti di quanto avviene attualmente in Italia e nel resto del mondo: come ho potuto verificare anche nel corso delle lezioni e dei colloqui con gli allievi della Ssis in questi due anni, solo un’esigua minoranza è abituata alla lettura dei quotidiani o alla consultazione dei nuovi media per acquisire informazioni sugli eventi politici ed economici. Del resto, la maggior parte professa una completa ignoranza su tematiche basilari di “Educazione Civica”, come la Costituzione, i diversi poteri dello Stato, la famiglia, ecc. I laureati in Storia non hanno brillato particolarmente né nelle prove scritte, né nei colloqui: addirittura, alcuni non sono stati in grado di spiegare esaurientemente il contenuto della propria tesi di laurea, o persino i termini usati nel suo titolo, come “Opera del Duomo”, oppure “mezzadria”. Molti candidati hanno accampato quale scusante della loro ignoranza il fatto di aver dovuto concentrare negli ultimi mesi i propri studi in Italiano (sui risultati di tale presunto impegno preferisco tacere, dopo aver ascoltato anche gli esami in tale disciplina!), in vista della prova scritta del Concorso ordinario. Tale risposta rende ancora più negativi i risultati sopra descritti, poiché i commissari docenti di Storia hanno assunto sempre un atteggiamento assai benevolo nei confronti dei candidati, ponendo loro domande d’ordine generale, per rispondere alle quali con esito positivo sarebbe stata più che sufficiente una preparazione di tipo liceale (o, almeno, quella che noi riteniamo debba essere una buona preparazione liceale). In conclusione, debbo rilevare una sostanziale assenza di cultura storica di base: un’assenza che significa sia carenza di conoscenze del passato, sia disinteresse nei confronti del presente.
I colleghi delle altre discipline possono offrire testimonianze analoghe, sia nei nostri ambiti disciplinari umanistico-letterari, sia nei settori delle scienze “dure”. Di fronte a risultati così negativi, da più parti si richiede ed in alcuni bandi è già stato inserito di fissare una votazione minima per l’accesso alla Ssis: è una richiesta che gode di un favore trasversale, ma che soprattutto trova consenso fra i colleghi delle Lingue moderne, delle Lingue classiche e fra i colleghi di Fisica (accomunati a noi storici dai colpi inferti da parte della riforma di Giovanni Gentile all’autonomia dell’insegnamento della propria disciplina nei Licei). Anzi, per rafforzare il carattere rigorosamente disciplinare della loro richiesta, pare che dal prossimo anno i test d’accesso per la disciplina di Fisica saranno elaborati e proposti da una Commissione nazionale. Anch’io, di primo acchito, vorrei introdurre uno sbarramento disciplinare rigido, che selezionasse i futuri docenti in primo luogo sulla base delle loro conoscenze scientifiche: uno sbarramento che non dovrebbe collocarsi al di sotto del livello di una conoscenza sufficiente del programma di Storia nel suo complesso. Tuttavia alcune riflessioni m’invitano ad una maggiore cautela. Innanzi tutto, in molti settori disciplinari, compreso il nostro, manca una metodologia sperimentata e comunemente accettata per la valutazione delle competenze degli allievi: se nel prossimo futuro la Ssis costituirà l’unico percorso professionalizzante per l’insegnamento, precludere l’accesso a questo percorso tramite meccanismi improvvisati o d’incerta efficacia aprirà la via ad un contenzioso giudiziario, che ci troverà impreparati soprattutto in quei settori come la Storia il cui statuto disciplinare negli ultimi anni è stato oggetto di dibattiti non ancora conclusi, ed in cui la sperimentazione didattica è appannaggio di pochi colleghi isolati, al di fuori di una pratica comunemente condivisa. Vi è poi il problema della necessità di assicurare la copertura del turn over a partire dal 2005, allorché andrà in pensione per raggiunti limiti d’età una massa enorme di docenti: si parla del 40% del personale attualmente in servizio (del resto, anche il più recente documento dell’Ocse denuncia che il 44,6% dei docenti italiani delle scuole secondarie superiori ha un’età di oltre cinquant’anni, rispetto ad una media internazionale del 30,2%). In tale situazione, escludere in partenza i laureati giudicati ignoranti da un processo di formazione professionale non avrà come conseguenza effettiva il loro allontanamento dal mestiere di docente, ma semplicemente il loro ingresso come precari privi di titolo e di preparazione professionale: in questo modo non si sarà neppure tentato di introdurli in un percorso virtuoso di formazione iniziale e di formazione in servizio, ma ce li troveremo lo stesso ad insegnare ai nostri nipoti. In altri settori disciplinari potremmo forse respingere quest’obiezione, facendo ricadere la responsabilità dell’assunzione di docenti impreparati sul Ministero della Pubblica Istruzione, e nell’ambito filosofico, costituito soltanto da due aree disciplinari, si può pretendere dagli storici come dai filosofi un livello sufficiente di competenze in ciascuna delle due. Ma nell’ambito linguistico-letterario dobbiamo tener conto di una specifica situazione di fatto, creata dal legislatore: qui, il sistema “a cannocchiale” (sono ammessi alle prove delle discipline classiche soltanto i candidati che superino con successo le prove di Italiano, di Storia e di Geografia) trasformerebbe la nostra disciplina in un setaccio a maglie strette per l’accesso all’abilitazione nelle discipline classiche, con un risultato certamente distorto rispetto all’esperienza concreta. Infatti, sarebbero esclusi dalla Ssis quei laureati in Lettere Classiche che, pur con gravi carenze in ambito storico, dimostrano usualmente le migliori competenze linguistiche ed il maggior impegno a recuperare i “debiti” pregressi. Infine, anche se quest’ultima osservazione parrà segno di un vetusto moralismo, non credo che sia giusto far pagare ai laureati delle nostre facoltà la nostra ignavia ormai pluri-decennale e la disattenzione dei nostri colleghi delle discipline filologiche nei confronti di una solida preparazione storica (per i colleghi delle discipline filosofiche temo che non si tratti di una mera disattenzione, ma dei frutti di una chiara concezione gerarchica del sapere, a tutto nostro danno). Alle Ssis spetta l’ingrato e incompreso compito di denunciare le carenze formative delle nostre facoltà in primo luogo in ambito disciplinare: i rimedi dovranno essere adottati nei Consigli di facoltà e le commissioni degli esami d’accesso alla Ssis devono limitarsi a scegliere possibilmente i migliori fra i laureati, valutando la loro preparazione e mettendone in evidenza le carenze ed i limiti, da colmare nel biennio di formazione professionale parallelamente alle attività specifiche della Ssis stessa.
In effetti, l’esperienza di questi primi anni ha mostrato come vi sia un rischio grave nella programmazione della Ssis, per quanto riguarda non solo la Storia, ma anche tutte le altre discipline, nell’ambito umanistico come nell’ambito scientifico: non di rado, di fronte alla grave impreparazione dei nostri allievi, i corsi dell’Area 2 (l’area disciplinare) si sono trasformati in cicli di lezioni di ripasso o di primo, frettoloso assaggio di tematiche, la cui conoscenza giustamente appariva irrinunciabile ai docenti universitari del settore stesso. In realtà, quando la Ssis era stata ideata, i corsi di quest’area disciplinare erano stati immaginati con un’altra finalità: definire l’impianto epistemologico particolare di ogni disciplina e costruire la sua specifica didattica. La necessità di colmare le lacune in questo ed in altri settori disciplinari esiste, ma dovrebbe essere assolta al di fuori della programmazione delle attività della Ssis: ricorrendo a specifici corsi universitari oppure a forme di auto-preparazione sotto la guida e la verifica in itinere oppure in occasione degli esami semestrali da parte dei docenti della Ssis stessa. Il regolamento della Ssis toscana prevede la prima scelta ma, di fatto, si è preferito non imporre un onere così gravoso, almeno in questa fase di avvio. In effetti, il perdurare di una “sacca” di laureati in Lettere, che hanno concluso il loro percorso accademico da molti anni e che per le inadempienze del Ministero della Pubblica Istruzione non hanno ancora una configurazione giuridica ben definita all’interno delle scuole, ci ha costretto a derogare alle norme che avevamo studiato per una Ssis finalizzata alla formazione professionale di giovani laureati: una Ssis a regime potrà e dovrà richiedere ai propri allievi di colmare le proprie carenze culturali nelle sedi a ciò deputate, e secondo criteri di verifica uniformi in tutti i diversi ambiti scientifici.
Quanto al corso di Storia della Ssis, che in Toscana ha preso la denominazione di “Fondamenti storico-epistemologici e Didattica della Storia”, bisogna affrontare in primo luogo quei problemi di metodo storico, la cui trattazione accompagna da secoli la ricerca storica sul campo: il riferimento normativo è al testo dell’Allegato C al D.M. 2 maggio 1998, che in relazione all’Area 2 (“Contenuti formativi degli indirizzi”) richiede la “specifica attenzione alla logica, alla genesi, allo sviluppo storico, alle implicazioni epistemologiche, al significato pratico e alla funzione sociale di ciascun sapere”. Il corso, quindi, partendo dall’analisi dei diversi significati della parola “Storia”, si sofferma su una serie di punti nodali, che compongono il patrimonio comune della riflessione sull’operazione storica, sui suoi presupposti scientifici e sui suoi specifici fondamenti epistemologici: la differenza fra la memoria individuale, la memoria collettiva e la rielaborazione critica compiuta dall’operazione storica; il concetto di “avvenimento/evento”; le diverse tipologie dei documenti e la critica alla presunta oggettività del documento; i metodi d’analisi delle fonti documentarie ed i loro strumenti; le procedure di ricostruzione e di descrizione; la ricerca e l’individuazione di una pluralità di cause fra di loro correlate, respingendo ogni tentazione derivante tanto da sistemi filosofici, quanto da concezioni religiose di ricorrere a spiegazioni monocausali o teleologiche; i rapporti fecondi con altre discipline scientifiche, dalla demografia alla psicanalisi, dalla biologia all’antropologia, dalla climatologia alla linguistica; l’impiego di modelli e l’introduzione di ipotesi interpretative; le analogie e le differenze riscontrabili fra il mestiere dello storico e quello del giudice; l’”uso pubblico” della Storia, con la sua ineluttabilità ma anche con i suoi rischi; il riferimento necessario allo spazio geografico; la dimensione temporale e le sue scansioni differenziate; la critica nei confronti dell’utilizzo semplicistico ed ideologico di termini, che pure hanno una tradizione non riducibile all’uso odierno (si pensi a parole come “antico” o come “progresso”).
Per questa specifica finalità non mancano certo testi, anche di maestri della storiografia da Johann Gustav Droysen a Jacob Burckhardt, da Marc Bloch a Edward Hallett Carr, da Lucien Febvre a Jerzy Topolski che sono utilizzabili con profitto come base per una riflessione non elementare. In Toscana, la scelta della Ssis si è rivolta verso la raccolta di saggi di Jacques Le Goff, pubblicati un quarto di secolo fa nell’Enciclopedia Einaudi e riediti successivamente con il titolo Storia e memoria : sulla base dell’esperienza acquisita negli due ultimi anni posso affermare che il grande vantaggio di questo testo è la sua leggibilità anche da parte degli allievi privi di una solida formazione nella nostra disciplina. Ovviamente, gli storici hanno continuato anche in questi ultimi venticinque anni a fornire nuovi spunti di riflessione sul metodo storico (basti qui un pur fugacissimo cenno ai contributi di Carlo Ginzburg) e sono stati aperti nuovi indirizzi di ricerca, dalla cliometria alla storia orale, dalla microstoria alla storia di genere. Deve essere cura del docente responsabile di questo corso fare in modo che gli allievi (in particolare quelli non specialisti della disciplina) non si fermino ai metodi più consolidati della storia “istituzionale”(dalla politica all’economia, dalle formazioni giuridiche alla cultura), ma vengano a conoscenza anche delle nuove metodologie che, con maggiore o minore evidenza, interessano i nostri studi e che talora offrono non si può negarlo anche una maggiore fruibilità nella mediazione didattica, un più sicuro successo fra gli allievi.
In questo contesto trova un suo spazio anche la storia della storiografia. A poco servirebbe un’arida cronologia degli storici e della loro produzione. Indubbiamente appare più utile e usuale il riferimento alla storiografia nella trattazione di quei temi particolari, che vengono scelti come momenti di approfondimento e di sperimentazione didattica durante il corso. Tuttavia, io ho tentato anche un’altra strada: nella speranza di suscitare nel mio uditorio invero interessato più al punteggio attribuito da questo o quel decreto ministeriale, che ad un processo di formazione professionale una pur minima simpatia nei confronti della disciplina, ho inserito gli elementi di storia della storiografia nella trattazione del metodo storico, operando una serie di rinvii soprattutto alla nascita della storiografia moderna, all’affermazione dell’analisi filologica dei documenti, alla precoce attenzione nei confronti della storia dei costumi sociali, alla curiosità nei confronti dell’assetto fisico del territorio abitato dalla singola comunità umana, alla possibilità grazie ai nuovi metodi di fare emergere quella dimensione esistenziale e soggettiva della storia degli uomini, che troppo spesso è esclusa dalla storia istituzionale, dai suoi documenti, dai suoi criteri di lettura.
Quanto alla didattica della Storia e al suo laboratorio (la cosiddetta “Area 3” delle Ssis), ritengo che su questi abbiano una competenza preziosa i docenti della scuola secondaria: non che manchino colleghi, pochi in verità, che abbiano speso le loro energie in tale campo di ricerca, ma nel nostro settore disciplinare i risultati della ricerca didattica sono troppo spesso irrisi da una corporazione accademica che ignora la problematica nel suo complesso, e soprattutto nella sua più recente evoluzione rispetto ai mutamenti avvenuti nella nostra società e nelle generazioni più giovani. Per questo, ci può sovvenire solo l’esperienza concreta che è stata acquisita nella pratica didattica quotidiana, purché e non paia scontato quest’esperienza sia stata stimolo di riflessione e di successiva sperimentazione: il che, ovviamente, non è prassi di tutti i docenti, né di Storia né d’altre discipline. In questa prima fase della Ssis, caratterizzata dalla cooptazione dei collaboratori, in quei settori che sono privi di una tradizione consolidata e diffusa di ricerca didattica non resta che fare affidamento sulla volontà di impegno dimostrato da molti docenti delle scuole secondarie. Ai docenti universitari può spettare, in questo contesto, il compito di presentare in modo aggiornato e critico lo stato dei temi storiografici, sui quali si eserciterà l’effettiva attività di sperimentazione didattica: ovviamente, nel rispetto delle competenze scientifiche e della libertà d’insegnamento del docente, tali temi rientrano in quel canone storiografico che è sotteso al cosiddetto “manuale”, ma dovrebbe pure essere costantemente aperto al “nuovo”, anche per educare i futuri insegnanti alla curiosità nei confronti di una ricerca storica, che è continuata anche dopo la fine dei loro studi universitari.
Venendo più al concreto, il punto essenziale di questo modulo di didattica consiste nell’insegnare teoricamente e nell’addestrare praticamente a compiere tutta una serie di operazioni didattiche, in parte comuni ad altre discipline, in parte specifiche dell’insegnamento della Storia, almeno per quanto concerne le modalità ed i contenuti. Quali le linee essenziali di questo programma? Costruire una programmazione pluriennale e annuale della Storia articolata in percorsi ed in moduli più brevi (adatti, questi ultimi, ad inserire la conoscenza storica di singoli fenomeni in un quadro d’insieme), prevedendo anche la possibilità di intese con altri docenti per affrontare nello stesso tempo taluni temi su più ambiti disciplinari (ovvio il riferimento alle Letterature classiche e moderne ed alla Storia dell’Arte, ma non trascurabile neppure il dialogo con le discipline scientifiche, la cui storia può diventare comune terreno di incontro). Individuare i prerequisiti della classe, quanto a motivazioni (da sollecitare nel corso dell’attività didattica), conoscenze, competenze e capacità di lavoro. Porsi obiettivi disciplinari ben definiti: quali conoscenze far acquisire sull’argomento scelto? quali nuove competenze e capacità far sviluppare? Allestire con congruo anticipo i contenuti disciplinari delle singole unità didattiche (il futuro docente non dovrebbe limitarsi a studiare la sua razione di Storia il giorno prima di dover fare lezione!), con i documenti da leggere e da vedere (fotografie, documentari video), nonché con gli strumenti da usare (carte geografiche, innanzi tutto, ma anche le fotografie, i filmati, gli strumenti informatici, ecc.). Elaborare una gamma di prove dal test al componimento scritto, dalla relazione alla classica “interrogazione” per la verifica del livello di crescita culturale degli allievi e per la valutazione in itinere e finale delle capacità acquisite (per esempio, la capacità di leggere, esporre ed analizzare un testo storico, come un documento od un brano di storiografia).
Vi è, infine, un elemento che ritengo irrinunciabile nella didattica della Storia: la storia della Storia come disciplina insegnata, cioè quella storia della formazione e delle modificazioni dei programmi scolastici nell’Ottocento e nel Novecento, sulla quale disponiamo del libro di Gianni Di Pietro, Da strumento ideologico a disciplina formativa. I programmi di storia nell’Italia contemporanea (Milano, Bruno Mondadori, 1991). Al percorso delineato da questo testo deve essere poi aggiunta la conoscenza almeno dei nuovi programmi della Commissione Brocca, del rilievo assunto dalla storia del Novecento nell’ultimo anno della Scuola secondaria per volontà del ministro Luigi Berlinguer, con la conseguente ridistribuzione dei contenuti disciplinari nei cinque anni, e delle indicazioni contenute nel decreto per il recente concorso ordinario. Né si può trascurare e chi scrive non l’ha trascurato un’analisi dettagliata degli effetti della programmata riforma dei cicli scolastici anche sul piano dei programmi di Storia.
Nei dibattiti recenti su questa riforma e sulla riformulazione delle indicazioni dei programmi disciplinari molti intervenuti hanno assunto un atteggiamento animoso e polemico, con toni scandalizzati e con qualche eccesso retorico, invece di esaminare i lavori della Commissione ministeriale con pacatezza e nel loro complesso, ma soprattutto con una piena informazione sullo stato reale dell’insegnamento e dell’apprendimento della Storia nella scuola italiana. La formazione dei nuovi docenti di Storia, come delle altre discipline, deve essere mirata alla “scuola che verrà”, alle sue finalità istituzionali, ai programmi del nuovo percorso formativo. Ricordo, allora, sinteticamente, almeno le grandi scelte culturali, che la Commissione ha operato nel nostro settore disciplinare. Alla Storia è stata riconosciuta e confermata “una valenza educativa trasversale a tutti gli ambiti”, perché “le categorie storiche sono una delle chiavi fondamentali di lettura di tutta la realtà”: di conseguenza il suo insegnamento è entrato a far parte dell’area delle discipline comuni che devono offrire unitarietà al percorso di istruzione dai tre ai diciotto anni, di quel “fortino” di discipline la cui valenza formativa è ritenuta indispensabile e comune per tutti i cittadini. Da questo primo assunto è derivata l’unicità del curriculum disciplinare nella scuola dell’obbligo, con una preparazione iniziale rivolta sia alla comprensione dei concetti di base (società agrarie, rivoluzione industriale ecc.) e delle categorie spazio-temporali, sia all’uso delle fonti e dei documenti. A questo “apprendistato” seguirà un ciclo diacronico articolato su cinque anni, dal quinto al nono anno: per questo ciclo sono previsti una serie di “contenuti essenziali”, che spaziano nel triennio già definito ufficialmente dal processo di ominizzazione all’Oriente nell’età moderna.
Come è stato sottolineato espressamente dalle indicazioni della Commissione, questi “punti di riferimento” per i docenti e gli allievi mirano a conciliare le due esigenze ritenute ambedue fondamentali per la formazione del cittadino: da una parte la costruzione dello specifico patrimonio culturale italiano ed europeo (e nel testo si richiamano esplicitamente tanto le civiltà classiche, quanto la formazione del sistema degli Stati europei), dall’altra parte l’apertura ai più vasti orizzonti della storia mondiale. Mi auguro che l’invito rivolto a docenti e discenti a non trascurare le civiltà africane o le forme della colonizzazione dell’Oceania prima dell’espansione europea in Oriente non getti nella più tetra costernazione i colleghi, timorosi che in tal modo venga sottratto agli allievi tempo prezioso per lo studio della civiltà occidentale. Certo è che l’identità storica di una comunità, piccola o grande che sia, non può essere immaginata al di fuori di un confronto consapevole e colto con il diverso, sul piano dei costumi come a livello giuridico-istituzionale, sul piano religioso come su quello economico: non si può pensare che nell’età della globalizzazione dell’economia e della politica, della comunicazione telematica, dell’interscambio culturale e religioso su una pluralità di livelli, si rimanga ancorati ad un canone storiografico, di cui non possono sfuggire né la formulazione semplicistica, né la ricezione acritica. Forse, per comprendere l’esigenza di addestrare i giovani a sviluppare questa forma critico-comparativa di conoscenza storica, lo studioso dovrebbe uscire dal proprio ristretto circolo culturale e prestare una maggiore attenzione alle scandalose stupidaggini per non dire alle vere menzogne, che infiorettano i discorsi dei nostri uomini politici quando discettano di tematiche connesse ad una mitica civiltà europea, dimostrando così di non possedere né alcuna conoscenza sugli “altri”, né alcuna sensibilità ai processi, nient’affatto lineari, di formazione, di radicamento e di trasformazione delle istituzioni europee, dei suoi stessi “caratteri fondamentali”. Allo stesso tempo, prevedere per tutti i giovani un percorso identico di Storia fino a quando si è consolidata almeno, per questo fine si opera nella scuola dell’obbligo l’abitudine alla lettura individuale e all’approfondimento autonomo dei problemi costituisce uno dei punti di maggior progresso “civile” dei nuovi programmi rispetto all’impostazione culturale di fondo, che ha segnato la scuola italiana del XX secolo: un’impostazione che distingueva le scuole per la formazione culturale delle classi dirigenti dagli istituti per la formazione dei lavoratori subalterni e delle massaie.
Infine, il progetto di riforma presenta un’ulteriore innovazione, che metterà la nostra scuola in linea con altre esperienze europee: il collegamento della Storia con la Geografia e le Scienze Sociali. Questo collegamento non solo comporta la costruzione di programmi integrati, che funzionino l’un con l’altro da “rinforzo”, da “volenteroso collaboratore” nell’apprendimento, ma conferma ancora di più l’alto valore di educazione civile attribuito all’insegnamento della nostra disciplina, centrando su questa l’acquisizione delle nozioni, degli strumenti conoscitivi e delle capacità interpretative dell’assetto geografico, sociale e politico nel quale viviamo: studiare il passato per saper vedere il presente e per progettare il futuro. In attesa delle indicazioni sui programmi del triennio superiore della Scuola secondaria, chiudo questi appunti con un duplice auspicio per i prossimi anni. Nell’immediato, spero che non vada disperso per visibilità di partito, o per vischiosità burocratiche o ancora per il rifiuto di tanti ad operare nei processi di cambiamento l’importante patrimonio di riflessioni, di discussioni e di proposte della Commissione ministeriale di studio sul riordino dei cicli. Nel nostro specifico disciplinare sono tuttora convinto che il nostro insegnamento possa essere articolato su un primo ciclo cronologico di cinque anni e su un successivo triennio di approfondimenti critici, mirati a realizzare percorsi didattici intorno a tematiche di rilevante interesse storiografico: queste tematiche (almeno quelle della programmazione dell’80%!) dovrebbero essere indicate a livello nazionale da una consulta di storici professionali, che diventasse soggetto attivo nella programmazione scolastica e nella progettazione ministeriale nel nostro settore. Nel breve periodo, mi auguro che per i ragazzi dai dieci ai diciotto anni sia istituita quanto prima approfittando anche dell’autonomia degli istituti scolastici una specifica figura di docente di Storia, Geografia e Scienze Sociali: un docente specializzato, il quale possegga e possa esprimere nel suo lavoro didattico quel metodo di lavoro scientifico che accomuna noi, “devoti di Clio”.
Università di Siena