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Intervista a Giunio Luzzatto, presidente della conferenza nazionale dei centri universitari per la ricerca educativa e didattica (concured)

di M. Elisabetta Tonizzi

Nel biennio 1998/2000 è divenuta operativa la normativa che, con l’istituzione del corso di laurea in Scienze della formazione primaria e della Scuola di specializzazione all’insegnamento secondario (Ssis), introduce per la prima volta un curriculum formativo universitario per svolgere la professione di insegnante. Ne parliamo con il professor Giunio Luzzatto, docente di Analisi matematica all’università di Genova, che si può considerare tra i “padri fondatori” di questi nuovi cicli di studio. Egli infatti si occupa da alcuni lustri delle questioni didattico-educative relative alle materie scientifiche e, più in generale, dell’organizzazione del sistema educativo; attualmente è membro della commissione incaricata di tenere i rapporti tra il ministero dell’Università e quello della Pubblica istruzione.
Proporrei di iniziare la nostra conversazione con qualche accenno alla genesi storica della sensibilità per la formazione degli insegnanti, non solo dal punto di vista disciplinare ma anche pedagogico. Oggi più nessuno mette in dubbio il fatto che “ad insegnare si impara”, ma la consapevolezza della scientificità della professione docente è diffusa da ben oltre un secolo, vero?

Certo; è dai tempi dell’Unità d’Italia che è diffusa l’opinione che la laurea disciplinare debba essere integrata con un curriculum specifico di tipo pedagogico/educativo. Infatti, fino dall’emanazione della legge Casati del 1859 era previsto che le facoltà di Scienze e Lettere avessero un “magistero” finalizzato alla formazione di coloro che intendevano dedicarsi all’insegnamento. Questi “magisteri”, da non confondersi con le facoltà di Magistero, dovevano svolgere attività seminariali e attivare il tirocinio; data la mancanza di adeguate dotazioni finanziarie e la costante disattenzione da parte dei poteri pubblici, l’operatività di tali “scuole” venne di fatto abbandonata alla buona volontà dei singoli. Nel 1920 Benedetto Croce le sopprime e con la riforma Gentile del 1923, che escluse che l’università potesse avere finalità professionalizzanti, non si parlò più di “magisteri”.
Devono quindi passare quasi cinquant’anni prima che si torni a discutere di formazione degli insegnanti. La ripresa di questa tematica si avrà infatti nel 1962/63 con la Commissione parlamentare di indagine sulla scuola: sono anni in cui, con l’attuazione della “media unica” e l’estensione della durata della scolarizzazione obbligatoria si assisteva all’entrata in ruolo di una pletora di professori poco preparati: il tema quindi era di grande attualità. Nel 1973, con la legge che definiva lo stato giuridico degli insegnanti, si prescriveva finalmente in termini espliciti la preparazione professionale universitaria di tutti i docenti; la cosa era però rinviata all’emanazione di una normativa specifica. Bisogna quindi attendere altri vent’anni perché venga elaborata e approvata la legge n. 341 del 19 novembre 1990, che sancisce definitivamente il principio che si diceva all’inizio: “ad insegnare s’impara” e, aggiungerei, si impara svolgendo un apposito iter di studi e non, come è avvenuto per tanto tempo, facendo soltanto esperienza sul campo. Senza contare che per svolgere la professione docente ci vogliono qualità relazionali e sensibilità specifiche che vanno stimolate ed affinate prima di entrare in servizio.

Le caratteristiche salienti della legge del 19 novembre 1990 n. 341 riguardano quindi l’istituzione di strutture didattiche universitarie per la formazione degli insegnanti che vedono coinvolti sia il Murst sia il ministero della Pubblica istruzione. Di quali strutture si tratta?

La legge predetta stabilisce che per esercitare la professione di insegnante elementare e di scuola materna occorra aver conseguito la laurea in Scienze della formazione primaria. Nelle discussioni preliminari vi erano ipotesi alternative per cui la laurea non era concepita come un percorso ad hoc, ma come il completamento di un percorso iniziato con un primo biennio di laurea disciplinare. Questa ipotesi però non è stata in allora accolta: la legge sancisce infatti l’istituzione di un corso di studi apposito, di durata quadriennale, che, nella pratica, è stato attivato presso le facoltà di Scienze delle formazione. Per gli insegnanti della scuola secondaria viene invece istituita una Scuola biennale di specializzazione – a carattere abilitante e, una volta a regime, obbligatoria – successiva alla laurea disciplinare. Anche nel caso della Scuola di specializzazione all’insegnamento secondario (Ssis) siamo in presenza di un ciclo di studi di carattere universitario; mi sembra importante sottolineare il fatto che si tratti di “una” scuola articolata in vari indirizzi e non di una pluralità di scuole separate, ognuna relativa a una diversa area disciplinare o Facoltà.
I cicli di studio, corso di laurea in Scienze della formazione primaria e Ssis, previsti dalla legge 341, sono iniziati solo nell’a.a. 1998/99 e, per quando riguarda le Scuole di specializzazione, nell’a.a. 1999/2000 L’attuazione della normativa si è avuta quindi molto in ritardo: possiamo spiegarne le ragioni?
Direi che dal 1990 al 1996 si è trattato di un ritardo dovuto a motivi di “ordinaria burocrazia”. I provvedimenti attuativi andavano infatti assunti dai ministeri competenti, Università e Pubblica istruzione, di concerto con i propri organi consultivi, Cun e Consiglio nazionale della pubblica istruzione. I raccordi tra questi diversi organismi erano difficili e lenti anche perché solo in un secondo tempo ha cominciato ad operare la Commissione interministeriale scuola-università incaricata di tenere i collegamenti tra i due enti. Va anche detto che negli ambienti del ministero della Pubblica istruzione non tutti avevano un atteggiamento collaborativo. Il nuovo corso di laurea è infatti condizione necessaria per accedere al concorso magistrale, e la scuola di specializzazione ha carattere abilitante: questo limita di fatto il pieno controllo ministeriale sulle procedure di assunzione e reclutamento del personale docente e a molti la cosa risultava poco gradita.
È stata quindi necessaria una infinita serie di passaggi che sono finalmente sfociati nei decreti del 31 luglio 1996 in forza dei quali, con il novembre 1997, dovevano partire sia il nuovo corso di laurea che le Ssis. Questi decreti sono però diventati inapplicabili perché è intervenuta, nel maggio 1997, la legge Bassanini che prevedeva modifiche all’organizzazione universitaria e l’incremento dell’autonomia degli atenei. Sempre secondo questa legge venivano abolite le Tabelle degli ordinamenti didattici precedenti, che erano sostituite da Criteri generali che andavano interamente elaborati.
Quindi la legge Bassanini, che è stata di basilare importanza per l’avvio della riforma universitaria, ha segnato, relativamente ai temi di cui stiamo parlando, una battuta d’arresto?
Sì, era assurdo creare nuove strutture sulla base di Tabelle didattiche che sarebbero state abolite dopo poco. Quindi si sono dovuti elaborare i Criteri generali anche per il corso di Scienze della formazione primaria e per le Ssis e questo ha naturalmente rimandato ulteriormente i tempi di attuazione della legge del 1990. Comunque, nel maggio del 1998 sono stati emanati i decreti attuativi e nel novembre dello stesso anno è partito il nuovo corso di laurea, mentre le Ssis sono partite l’anno successivo.

Se le principali responsabilità del ritardo sono da attribuirsi alla farraginosità della burocrazia ministeriale, quali sono stati, durante gli anni novanta, gli orientamenti espressi dal mondo universitario e dagli ambienti degli insegnanti riguardo alle riforme previste dalle legge 341?

Bisogna dire che il mondo della scuola era molto favorevole all’attuazione dei provvedimenti; le istanze relative alla necessità di una formazione universitaria, sia di carattere disciplinare che didattico/educativa, del personale insegnante sono da tempo parte della “piattaforma rivendicativa” della categoria. Un po’ più sfumato il discorso per quanto riguarda gli ambienti universitari, soprattutto relativamente all’istituzione della Scuola di specializzazione. Si tratta di un organismo interfacoltà, per il quale non esiste da noi alcuna tradizione. Quindi, a fronte di alcune frange di docenti universitari molto impegnati – mi riferisco per esempio all’attività di ricerca didattico/educativa svolta dai centri interdipartimentali costituiti, progressivamente, presso molte università, a partire da quelle di Bologna, Genova e Roma “La Sapienza” – c’era una vasta “massa grigia”, che non si può definire programmaticamente ostile ma certo poco interessata e anche poco informata. In sostanza e generalizzando: non c’è stata la capacità di cogliere tempestivamente il significato dell’impegno richiesto agli atenei e quindi è mancata una mobilitazione favorevole, con il risultato che la sabbia che “fisiologicamente”, almeno nel sistema italiano, inceppa gli ingranaggi burocratici non è stata spazzata via da una forte e condivisa volontà di superare rapidamente gli ostacoli.

Focalizziamo l’attenzione sulla Ssis e cerchiamo di definirne i tratti caratteristici e gli obiettivi formativi.
Sottolineerei innanzi tutto la collocazione interfacoltà della Scuola, che è finalizzata ad ottenere una giusta mediazione tra la componente contenutistico/disciplinare e quella educativo/pedagogica. È inoltre previsto un forte raccordo con la scuola, che si esplica tramite la presenza nel corpo docente di insegnanti secondari incaricati della supervisione del tirocinio e del raccordo di quest’ultimo con i laboratori didattici della Ssis. Questa partnership scuola/università è intesa a garantire l’integrazione tra il momento teorico e quello pratico. Gli obiettivi formativi sono ampi e molteplici. In estrema sintesi direi che, oltre all’acquisizione di competenze nell’ambito della mediazione didattica nei settori disciplinari di competenza, con riferimento anche agli aspetti storici ed epistemologici, la Scuola si propone di insegnare al futuro docente come mettersi in comunicazione con gli allievi per comprenderne i bisogni formativi, per motivarli nei confronti delle attività didattiche. La Scuola insegna anche a verificare e valutare i progressi nell’apprendimento, educa alla capacità di collaborazione con le famiglie e i colleghi e all’acquisizione della consapevolezza del ruolo sociale dell’insegnante, ruolo che oggi, in una società progressivamente multietnica, sta diventando sempre più cruciale e complesso.
Vediamo allora qual è l’articolazione dei contenuti formativi della Scuola, cui, come dicevamo, si accede dopo il conseguimento della laurea disciplinare.

Anche in questo caso il discorso è vasto e mi limito quindi a segnalare i contenuti minimi qualificanti. È prevista un’articolazione in quattro aree. L’area 1 riguarda la formazione per la funzione docente e comprende attività didattiche finalizzate all’acquisizione di competenze e attitudini nelle scienze dell’educazione e in altri aspetti trasversali della funzione docente. L’area 2 riguarda invece i contenuti formativi d’indirizzo e comprende attività didattiche relative alle metodologie di insegnamento delle diverse discipline, con attenzioni specifiche allo sviluppo storico e alle implicazioni epistemologiche dei vari saperi. L’area 3 e l’area 4 sono, rispettivamente, il laboratorio, dove si svolgono simulazioni di attività didattiche sia generali che disciplinari, e il tirocinio che è la sperimentazione sul campo di un progetto didattico che, ed è bene sottolinearlo, deve raccordarsi con la programmazione didattica della classe in cui il tirocinio viene svolto. La frequenza alle attività didattiche è obbligatoria.
Le singole Scuole devono attivare tutti gli indirizzi corrispondenti alle classi di abilitazione previste?
Attivare in ogni singola Scuola tutti gli indirizzi corrispondenti alle classi di abilitazione può risultare troppo complicato dal punto di vista organizzativo. È quindi previsto che sia sufficiente attivarne almeno due. Teniamo comunque conto che ciascun indirizzo comprende più curricula di abilitazione.
Com’è organizzata la presenza delle Ssis sul territorio nazionale?

Ce ne è, di regola, una per regione, questo obiettivo è stato raggiunto nel 2000-2001 (l’anno scorso mancava la sola Campania). Bisogna considerare che gli atenei che devono organizzare le Scuole non dispongono di un organico aggiuntivo da destinare a queste attività e quindi devono sostanzialmente basarsi sulla disponibilità dei singoli docenti.

L’iniziativa italiana in materia di formazione universitaria degli insegnanti tiene conto di modelli esteri e il titolo rilasciato dalle Ssis sarà spendibile nell’Unione europea?

Per quanto riguarda l’ultima parte della domanda la risposta è molto semplice. Si applicano anche per gli insegnanti le norme che regolano il mercato del lavoro nell’ambito dell’Unione europea. Chi ha titolo a svolgere una professione nel proprio paese lo può fare automaticamente anche negli altri stati membri della comunità. Con la legge n. 341 il titolo abilitante all’insegnamento secondario è rilasciato dalla Ssis, quindi… non mi pare ci sia molto altro da aggiungere in proposito.
Relativamente alla prima parte del quesito, si può rispondere così. è da tempo condiviso a livello europeo il principio che per diventare insegnanti occorra aver acquisito una formazione che contempli, con pesi tra loro paragonabili, la componente disciplinare e la componente didattico/educativa. L’Italia era l’unico paese in cui la laurea disciplinare era sufficiente ad accedere alla professione; in sostanza, con i recenti provvedimenti, non abbiamo fatto altro che adeguarci ad un principio e una pratica generalizzata a livello europeo. Poi, e il dato non sorprende, ogni paese ha le sue tradizioni in materia di modelli formativi: in Germania, ed oggi anche in Italia, ci vogliono sei anni di studi universitari per accedere alla professione; in tutti gli altri paesi ne bastano cinque per la scuola secondaria e quattro o cinque per la scuola di base.
La traduzione operativa della legge 341/1990, a causa dei ritardi di cui abbiamo parlato prima, si colloca immediatamente a ridosso della riforma universitaria, mi riferisco all’introduzione del così detto “tre+due”, e della riforma della scuola primaria e secondaria che prevede, come noto, la suddivisione dell’iter scolastico in un ciclo inferiore seguito da un ciclo superiore. Tutto questo influirà naturalmente sia sul corso di laurea in Scienze della formazione primaria che sulle Ssis. In sostanza, questi curricula di studio appena istituiti devono già essere profondamente modificati. Con la normativa attualmente in vigore, per svolgere la professione di insegnante nella scuola secondaria occorre una laurea disciplinare quadriennale seguita da due anni di Scuola di specializzazione. Quali novità si delineano relativamente a questo iter formativo?
Premesso che sia la riforma della scuola che quella dell’università non sono ancora compiutamente in vigore, è già comunque possibile prefigurare gli scenari futuri. Le proposte finora formulate, ed attualmente in discussione, sono sostanzialmente due. Nicola Tranfaglia, presidente della Commissione scuola-università, ha messo a punto un progetto che prevede un allungamento dell’iter formativo per gli insegnanti della scuola di base. Infatti, secondo questo programma, la cui premessa è che il futuro insegnante debba innanzi tutto disporre di una preparazione disciplinare molto approfondita, l’iter formativo deve essere scandito dalla laurea specialistica, seguita da un solo anno di Scuola di specializzazione, per un totale di sei anni. Per quanto mi riguarda, e come me la pensano molti colleghi delle aree scientifiche, dissento da questa impostazione. Mi pare che essa non corrisponda all’esigenza di accelerare, come in tutta Europa, l’accesso al mondo del lavoro – anche perché la formazione iniziale sarà sempre più seguita da quella in servizio – e che tenda a ridurre la Scuola ad una sorta di ufficio di organizzazione del tirocinio, cosa che ritengo insensata anche se sono ben lungi dal considerare gli esiti delle Ssis in termini trionfalistici. Ho quindi presentato, con Clotilde Pontecorvo, un’altra proposta che prevede, dopo la laurea di durata triennale, due anni della Scuola di specializzazione. Alla proposta di Tranfaglia di “cinque+uno” ne contrapponiamo quindi una basata invece sul “tre+due”. Questo percorso di studi, che, una volta entrata in vigore la riforma dei cicli scolastici, sarà valido per gli insegnanti sia della scuola di base che superiore, permette di cogliere l’occasione storica di costruire all’università, in stretta collaborazione con il sistema scolastico, una sede unitaria dedicata alla formazione degli insegnanti, ove le attività saranno effettivamente tutte finalizzate ad “insegnare ad insegnare”. Lo dicevamo all’inizio: “ad insegnare si impara” e, a mio giudizio, questo è il miglior modo di vedere realizzato questo principio.