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Intervista a Roberto Sinigaglia

di M. Elisabetta Tonizzi

L’entrata in vigore dei provvedimenti legislativi relativi alla riforma dell’università muterà profondamente le coordinate del lavoro didattico, in cui a vario titolo larghissima parte dei soci della Sissco è impegnata. Si tratta di una vera e propria rivoluzione che pone i docenti, così come gli studenti, di fronte ad una sfida cui è impossibile sottrarsi; per affrontarla occorre un radicale cambiamento delle abitudini e della mentalità. In altre parole, la riforma dei corsi di studio implica anche una “riforma” dei docenti: recentemente un preside di facoltà ha detto che, di fronte agli eventi in atto, gli insegnanti dell’università sono un po’ tutti “somari”. Non è escluso che qualcuno si offenda: personalmente non ho alcuna difficoltà a riconoscermi in questa rappresentazione, il cui senso profondo è la sottolineatura della necessità di rilegittimarsi nei confronti del nuovo. Per attrezzarsi adeguatamente a questo compito occorre innanzi tutto conoscere la fisionomia delle novità che ci attendono.
Con l’aiuto del professor Roberto Sinigaglia, associato di Storia dell’Europa orientale nell’università di Genova e membro del Consiglio universitario nazionale dal 1997, cercheremo di fare il punto su contenuti, obiettivi e implicazioni della riforma.

Sei entrato al Cun nel 1997, quindi l’inizio del tuo mandato ha coinciso con l’avvio dell’elaborazione delle leggi di riforma universitaria?
Sì, entrando al Cun nel 1997 ho potuto seguire fin dalle sue prime battute l’iter, che sta giungendo a conclusione solo ora, delle leggi che riguardano il riassetto degli ordinamenti dell’università italiana. La riforma infatti, come ben noto, trova la sua matrice nella legge n. 127 del 1997, meglio nota come la “Bassanini due”, in cui è sancita, su modello anglo-sassone, l’autonomia degli Atenei anche per quanto riguarda gli ordinamenti didattici. Per noi si tratta di una novità rilevante; l’autonomia didattica è infatti assente nella tradizione italiana, molto più attenta a garantire la libertà della ricerca scientifica.
Prima di proseguire, lasciami aggiungere qualche ulteriore considerazione introduttiva. Siamo, lo ripetiamo con orgoglio, una della prime potenze mondiali. Abbiamo però una istituzione universitaria ben al di sotto delle necessità del paese. Se non attuiamo con urgenza la riforma, l’università, anziché uno sprone potrebbe diventare un ostacolo allo sviluppo dell’Italia. Sviluppo che al momento sta avvenendo grazie ad una sorta di dumping sociale, basato sulla operosità e sui bassi salari anziché sui risultati di una forte ricerca nazionale: l’Italia, come è stato detto nel corso di un congresso organizzato nel dicembre 1999 dai Lincei, è al 43° posto, se facciamo un rapporto tra Pil e investimenti, nella graduatoria mondiale della ricerca scientifica. Mi piace ripetere una frase, potremmo farne uno slogan, pronunciata dal prof. Garofalo ex segretario nazionale dello Snur-Cgil: «occorre fare della questione universitaria una grande questione nazionale». A suo tempo abbiamo fatto dell’entrata dell’Italia nell’Euro un nostro obiettivo strategico. Dovremmo comprendere quale enorme significato e importanza per tutta l’economia nazionale rivesta un rilancio della didattica e della ricerca scientifica a livello universitario.
L’università come “grande questione nazionale”, dunque, che ha inoltre forti ed evidenti nessi con la nostra presenza nella Ue. La riforma infatti risponde, ma su questo torneremo più avanti, anche all’esigenza irrinunciabile di armonizzare la nostra con le altre università dell’Unione europea, che non hanno un percorso a ciclo unico come avviene da noi.
Vediamo quindi di scendere più nei dettagli. Il 3 novembre 1999 è stato approvato il dpr 509/99 contenente il regolamento per l’autonomia didattica degli Atenei, che stabilisce un radicale mutamento dell’architettura degli studi universitari: prova a riassumerne le caratteristiche salienti.

Come dicevi, con il dpr 509/99, cui vanno aggiunti i recenti decreti del ministro Zecchino, la fisionomia della nuova università è ormai chiarissima e l’attivazione di tre livelli di istruzione superiore è certamente una delle novità più qualificanti. Si tratta della laurea, raggiungibile dopo un percorso triennale; della laurea specialistica, ottenibile con un supplemento di studi biennale; del dottorato di ricerca triennale, accompagnato da altri corsi specialistici su quali non è il caso di soffermarsi. La laurea triennale dovrà rappresentare un iter in sé compiuto, spendibile sul mercato del lavoro. Deve quindi avere carattere professionalizzante: il neo laureato dovrà aver acquisito, anche se a livelli medi, metodo di lavoro e saperi critici qualificati.
La definizione “tre+due” è ormai divenuta corrente. Per quanto mi riguarda, preferisco parlare del “tre” e del “cinque”: si tratta di due percorsi che possono essere sia in sequenza sia parzialmente in parallelo. Nel senso che può non essere sufficiente, per lo studente che consegue i 180 crediti e quindi una laurea di base, iscriversi alla laurea specialistica che ne è la continuazione e racimolare altri 120 crediti. Per lo studente che, per sue esigenze culturali rispettabilissime, ha utilizzato i crediti “liberi” a sua disposizione per seguire percorsi culturali non omogenei al bagaglio di sapere necessario al conseguimento della laurea specialistica, si aprirà un delta intermedio tra i 180 e i 120 crediti e la somma non sarà più 300 ma qualcosa di più. Non è un caso che i progetti di lauree specialistiche che ci sono pervenute al Cun parlino di 300 crediti complessivi e non di 120 crediti da aggiungere ai 180.
Crediti “liberi”? Scusa ma non ti seguo, credevo che i crediti fossero, come dire?, crediti tout court! Invece, se ho capito bene, ce ne sono di vari tipi e allo studente è consentito di seguire corsi relativi ad ambiti disciplinari non coerenti con l’indirizzo di studio prescelto. Per capirci: chi vuole la laurea triennale, diciamo in ingegneria può, per soddisfare le proprie curiosità intellettuali, studiare anche storia del paesaggio agrario?
Certo che lo può fare, fa parte di quella quota “prestabilita” di crediti a disposizione dello studente. Facciamo conto che si tratti di 15 crediti. Lo studente che si è laureato in ingegneria ed ha avuto il riconoscimento di 15 crediti per i suoi studi di “musica tibetana”, può poi proseguire gli studi iscrivendosi alla laurea specialistica sempre in ingegneria, che prevede anch’essa un margine di 15 crediti “liberi”. In questo caso lo studente non avrà compiti aggiuntivi a condizione appunto che non debordi da questa ipotetica quota.
L’esempio è un po’ buffo ma efficace. Se capisco bene, allo studente verrà riconosciuto anche il tempo e il lavoro dedicato, purché entro i limiti consentiti, agli studi di “musica tibetana”. E se questa non esiste tra i settori disciplinari?
La novità interessante dell’autonomia è il fatto che lo studente può trovare un riconoscimento dei suoi percorsi di studio, anche se questi non sono previsti nei contenuti stabiliti a livello nazionale. È sufficiente la possibilità di certificare in qualche modo l’acquisizione di conoscenze.
Soffermiamoci ancora sui crediti formativi, che sono un aspetto cruciale della riforma. È intuitivo che l’introduzione del sistema dei crediti avrà un effetto profondo sul lavoro dei docenti: oltreché smettere di ragionare in termini di esame finale, si dovranno ridurre i programmi e riscrivere i manuali?
Certamente sì. L’introduzione dei crediti indurrà docenti e studenti a un nuovo rapporto col curriculum universitario, che non rappresenterà più una massa di esami da superare, ma un insieme di attività che formeranno un percorso. In questi ultimi anni la mole di libri, pagine, contenuti dei programmi d’esame, e mi riferisco in particolare alle materie umanistiche che conosco meglio, è andata aumentando in maniera non giustificata. La riduzione dei programmi credo quindi sia indispensabile; è chiaro infatti che se si assegnano un certo numero di crediti ad un insegnamento, il docente non può permettersi di imporre un carico didattico sproporzionato a questi. I crediti terranno conto di tutto lo sforzo mirato all’apprendimento: pertanto non solo le lezioni cosiddette frontali ma anche il lavoro nei laboratori, nei seminari, negli stages concorreranno alla loro quantificazione. Poniamo che ad una materia siano assegnati 10 crediti: ciò significa che, tra lezioni frontali, eventuali seminari e studio individuale lo studente non deve impegnarsi per più di 250 ore. Se questo non avviene l’alternativa è semplice: o il docente riesce a far sì che il Consiglio di corso di laurea riconosca alla sua materia un numero maggiore di crediti o deve sacrificare una parte del programma. Tertium non datur. Teniamo inoltre conto che oggi chi abbandona il corso di studi prima del termine non ha nulla in mano; in futuro, con i crediti, resterà allo studente traccia tangibile e riconosciuta del percorso formativo compiuto.
Questo non comporta qualche rischio per la libertà di insegnamento?
La libertà di ricerca e la libertà didattica sono fuori discussione, nel senso che il docente può affrontare qualsiasi contenuto didattico, con il taglio e il metodo che desidera. Insomma: nessuno dirà al docente come deve insegnare la materia, lo si inviterà soltanto a contenere la quantità del programma in modo che il carico di lavoro richiesto allo studente corrisponda alla quantità dei crediti assegnati alla materia. Quindi libertà di insegnamento ma non libertà di imporre un peso di studio a nostro piacimento. Lo ripeto: potremo aumentare la mole di lavoro solo a condizione che il Consiglio di corso di laurea assegni più crediti alla nostra materia. Questo comporta anche un coinvolgimento degli studenti nella programmazione che dovrà “tarare” i carichi di lavoro e definire la misura dei crediti attribuiti a ogni disciplina.
Sono condivisibili le preoccupazioni di coloro, e non sono pochi, che temono che con la riforma si avrà un’accentuazione dei carichi didattici che andrà tutta a spese della ricerca? Nel nostro attuale sistema le attività di ricerca sono considerate presupposto irrinunciabile per una didattica di alto livello, anche se, nella pratica, il distacco tra didattica e ricerca mi pare si sia già verificato.
È vero che l’aumento del peso della didattica può comportare un danno per la ricerca. Malignamente però penso che molti colleghi non facciano né didattica né ricerca. A parte le malignità, chiediamoci come fanno a sopravvivere i docenti delle università europee e nordamericane straniere, dove la ricerca è di buono o ottimo livello, con un carico didattico superiore al nostro.
Il dpr 509/99 prevede anche dei requisiti di ammissione alle varie classi di laurea; mi sembra un cambiamento non di poco conto rispetto a quanto eravamo abituati. Non rischiamo però di andare verso un sistema che tende a diminuire il tasso di frequenza della popolazione agli studi superiori che è considerato tra gli indicatori del successo economico di un paese?
Sicuramente si tratta di una rivoluzione rispetto alla legge 910 del 1969, che, per quanto transitoria, è rimasta in vigore per 30 anni. Tristano Codignola, che allora si occupava del problema, con atto temerario si schierò a favore della liberalizzazione degli accessi e dei piani di studio, fiducioso nel varo tempestivo di una riforma universitaria che avrebbe dovuto indicare anche i percorsi didattici da seguire. Non aveva fatto bene i conti con l’irruenza delle agitazioni studentesche e soprattutto con l’inerzia gattopardesca dell’accademia. Tornando al discorso iniziale: con le nuove norme l’iscrizione ad un corso di laurea potrà essere subordinata ad una prova di ammissione che indicherà gli eventuali “debiti” che lo studente dovrà colmare prima di iniziare il suo percorso universitario. Maggiore rigidità ci potrà essere nel passaggio dalla laurea alla laurea specialistica. Bisognerà naturalmente che l’orientamento dei giovani cominci già durante il liceo. Penso comunque che l’applicazione generalizzata dei filtri d’ammissione, peraltro alcune facoltà hanno già instaurato questa pratica, offrirà allo studente l’opportunità di valutare, o meglio di autovalutarsi, per capire se tra i suoi obiettivi universitari e la sua preparazione di base non esista un divario troppo grande. Sottolineo che non si tratta di “numero chiuso”, la finalità non è certo quella di far diminuire il numero degli studenti universitari né di ledere il diritto dei giovani ad iscriversi all’università; piuttosto l’obiettivo è quello di cercare di instradarli dall’inizio su una rotta che li conduca al successo.
Altro punto qualificante del dpr 509: l’introduzione delle classi di laurea…
L’introduzione delle classi di laurea è di portata veramente notevole se si pensa che il vecchio modello centralizzato basato sulle famigerate “tabelle” è scomparso, sostituito con standard determinati dal ministero. Per sintetizzare al massimo su un tema che è ormai largamente di dominio pubblico, almeno nella cerchia degli addetti ai lavori, possiamo dire così. Le classi vengono definite e descritte mediante obiettivi qualificanti e conseguenti attività formative indispensabili (fissate a livello nazionale), cui vanno aggiunte attività stabilite dalle singole università; corsi appartenenti alla stessa classe sono considerati equipollenti sul piano professionale. Le classi quindi rappresentano contenitori, cui è possibile, da parte dei vari atenei, aggiungere, togliere e spostare i vari settori. Interventi “centralisti” non ce ne saranno più, a meno che non si voglia abolire una classe o crearne una nuova. Mi piace fare questo esempio ai miei colleghi: la classe è un’autostrada con corsie così larghe che bisogna proprio essere degli asini per andare fuori strada. Pertanto, a mio avviso, il valore della riforma è soprattutto nelle energie che evoca, nella fine del centralismo ministeriale, assai più che in quello che essa formalmente viene a disciplinare. La bontà della riforma si misurerà nelle iniziative dei vari atenei. Se qualcosa non funzionerà non ci si potrà più scagliare contro le nequizie ministeriali: saremo noi gli stessi artefici, nel bene e nel male, del tipo di università che sapremo creare nel prossimo futuro.
Finora abbiamo cercato di precisare i contenuti più importanti della riforma. Vediamo adesso qual è la finalità e quali sono le implicazioni, alcune più, altre meno evidenti, di questo programma di risistemazione dell’università. È corretto dire che il principale obiettivo del “tre+due”, dei crediti e di tutto quanto abbiamo detto, è di rendere più flessibile l’università che, da area di parcheggio per disoccupati, deve trasformarsi in un sistema ad alta produttività che avvicini maggiormente gli studenti all’ambiente di lavoro?
L’università italiana è notoriamente molto lontana dai livelli di efficienza di quelle dell’Unione europea; abbiamo quindi la necessità impellente di recuperare e fino a tempi molto recenti non ci si è certo impegnati a fondo in questo senso. Tieni conto infatti che, secondo un rapporto dell’Ocse l’Italia è la pecora nera in Europa perché è forse l’unico paese in cui le spese per l’istruzione sono diminuite nel periodo 1990-96 (sempre in rapporto al Pil).
È una favola quella che dice che in Italia ci sono troppi laureati; attualmente i 2/3 degli iscritti si perdono per strada, nel senso che non si laureano. La maggioranza di coloro che abbandonano non arriva neppure a frequentare il secondo anno di università. Siamo al livello della Turchia e dietro tutti i paesi europei, Grecia e Portogallo compresi.
La nuova strutturazione degli studi, come evidenziavi in una delle precedenti domande, è quindi in primo luogo finalizzata ad assimilare la formazione universitaria italiana a quella del resto d’Europa, agevolando così l’ingresso nel mercato del lavoro nazionale ed europeo dei nostri laureati, e a porre termine agli sperperi finanziari e di risorse umane dovuti ai fenomeni dell’abbandono degli studi e dei fuori corso. Tra i laureati, solo uno su tre si laurea in tempo, cioè nel numero di anni previsto, tutti gli altri impiegano sette/otto anni. A meno di non postulare un più basso quoziente intellettuale dei nostri studenti rispetto a quello dei colleghi europei, dovevamo pur interrogarci sulle cause che costringono tanti giovani a parcheggiarsi nelle università italiane per un numero di anni decisamente più alto di quanto non facciano gli studenti francesi, tedeschi o inglesi per ottenere un titolo equipollente.
Non pensi che il fenomeno del ritardo negli studi sia in larga misura da ricondurre ad una frequenza episodica, quando non del tutto assente, ai corsi? è evidente che la riforma tende a far proprio il modello anglosassone di un’università strutturata e governata come un’azienda, che dovrebbe sostituire quello humboldtiano – inteso come luogo di formazione ampia e approfondita delle classi dirigenti prima ancora che come strumento di formazione professionale – cui tradizionalmente si ispira il nostro sistema. In questo senso si colloca anche la valutazione dei docenti da parte degli studenti che i vari Atenei, con criteri autonomi e non senza polemiche, vanno introducendo. Affinché i provvedimenti diano risultati positivi in rapporto agli obiettivi previsti non bisognerebbe coerentemente anche introdurre altre caratteristiche del modello anglosassone come la frequenza obbligatoria ai corsi? In sostanza: cambiare la mentalità dei docenti va bene, ma deve modificarsi anche quella degli studenti che, tra l’altro, solo frequentando regolarmente potranno esprimere un giudizio serio e motivato sulla qualità e l’efficacia della didattica.
Ti dirò francamente che la questione della frequenza non mi appassiona più di tanto. Bisogna sicuramente rivitalizzare il rapporto che lega studenti e docenti e certificare la quantità e qualità dell’impegno didattico di questi ultimi. Resta il fatto che in un mondo sempre più informatizzato il concetto di “frequenza” sarà rivoluzionato. Non voglio negare l’importanza che ha il docente come punto di riferimento, ma ormai anche qui in Italia i corsi cominciano a circolare su Internet e il docente funge da organizzatore e distributore di conoscenze e di cultura. Voglio dire insomma che la lezione frontale tradizionale è superata e in declino e quindi quando si parla di frequenza occorre tenerne conto.
Vediamo un altro aspetto. È giusto dire che una delle finalità sottese alla riforma è la concorrenza tra Atenei?
Certamente: l’autonomia didattica innescherà un gioco concorrenziale tra atenei e anche tra le facoltà. Le università usciranno dalla sfera dell’autoreferenzialità e dovranno confrontarsi con (e saranno giudicate da) istituzioni culturali, mondo del lavoro e studenti – utenti. Si avranno forti differenziazioni tra struttura e struttura e questo non potrà che favorire il miglioramento di tutta la macchina universitaria.
In che modo sarà premiato l’Ateneo di livello più alto?
Io penso che non dovremo attendere molto tempo. Ora quasi l’85% delle risorse dei vari Atenei italiani sono di provenienza ministeriale: sono semplici risorse finanziarie che Roma dirotta alle sedi periferiche. Ma ci sono già delle novità. Esistono alcuni parametri capaci di premiare le strutture virtuose e di penalizzare gli atenei “pigri”. La novità potrebbe essere rappresentata dalla mobilità studentesca come avviene in Gran Bretagna. Gli studenti migrano rispondendo a loro precise esigenze: possono scegliere tra l’Ateneo scientificamente più prestigioso, o didatticamente più vivace, o anche di manica più larga perché anche questo è un criterio di scelta.
Non è possibile allora che la “mano invisibile” del mercato finisca per premiare non i più virtuosi ma la pigrizia mentale di chi vuole fare tutto senza faticare?

Per ovviare a questo rischio occorre che a supporto della mobilità studentesca ci sia un consistente numero di borse di studio (in Gran Bretagna sono erogate dai comuni, dalle contee, da associazioni di ogni tipo) che possano costituire quasi un bonus in mano agli studenti e anche un’edilizia di accoglienza degna di questo nome. Altrimenti accade che uno si iscriva all’Università sotto casa, anche se è la più scadente, se le condizioni economiche non gli permettono di raggiungere università più prestigiose, anche all’estero.
Restiamo in tema di parametri di valutazione. All’inizio dell’estate scorsa sono state pubblicate da un noto giornale graduatorie che hanno gettato nello sconcerto tanti colleghi universitari che hanno lamentato un trattamento ingiusto derivato da criteri giudicati assai discutibili.
è evidente che non fa piacere a nessuno essere collocato in fondo a una lista, le classifiche toccano la suscettibilità di rettori, presidi e docenti. Penso tuttavia che queste “pagelline” ci facciano uscire dall’autoreferenzialità. Quanto ai parametri, so assai bene che possono essere discutibili. Ma anche qui è necessario fare passi avanti. All’inizio possiamo introdurre tutti i parametri che vogliamo. Soprattutto noi umanisti che talvolta giochiamo in modo esagerato sulla peculiarità dei nostri saperi. è necessario però che questi parametri, anche se sono troppi, e addirittura anche se molti di loro sono sbagliati, siano accettati da tutti. L’importante è uscire da un “idiotismo” provinciale che ci pone al di fuori di ogni giudizio. Poi si potranno modificare, migliorare, ridurre, o addirittura proporne di nuovi.
C’è chi paventa che la nuova laurea, mi riferisco evidentemente a quella triennale, punti a premiare l’aspetto professionalizzante abdicando a obiettivi di formazione generale.
è una preoccupazione assai viva nel nostro ambiente; io però mi preoccupo del contrario; temo che i nostri atenei non siano capaci, in tempi brevi, di trasformare dei curricula tutti improntati a criteri generali e di metodo in percorsi con una compiutezza professionalizzante. Permettimi ancora una pignoleria. Io parlo di laurea tout-court che immetterà lo studente sul mercato del lavoro. Questa è la laurea vera, e, come dicevo prima, non può che essere professionalizzante, seppur a livello medio. L’altra sarà la laurea specialistica.
Non c’è allora il pericolo che la laurea sia svalutata rispetto alla laurea specialistica e che lo studente non punti direttamente a quest’ultima?
Il rischio c’è, ma se la laurea sarà realmente professionalizzante molti si fermeranno al primo stadio.
Il rischio vero è quindi quello di una presenza esigua di studenti alle lauree specialistiche?
Questo però non lo classificherei come un rischio; i dati sugli indici di mortalità universitaria li abbiamo già messi in evidenza. Rispetto alle nostre, lasciami dire “tragiche’, condizioni di partenza, arrivare ad avere un’università che laurea in tre anni il 90% degli iscritti è una specie di sogno. Che di questi solo il 20% si iscriva alle lauree specialistiche mi può andar bene, almeno per ora. Si verrebbe a creare un problema serio di occupazione per noi docenti in alcune aree disciplinari. Ma non possiamo certo essere così corporativi da subordinare gli obiettivi della riforma ai nostri interessi di categoria.
Resta il fatto che molti vedono dietro l’angolo il pericoloso profilarsi di uno scadimento/snaturamento dell’università. Una laurea triennale professionalizzante in cui non si prevede neppure la stesura della tesi non rischia di abbassare gli atenei italiani al livello di semplici licei?
L’abbassamento del livello della preparazione di base è un problema che riguarda tutto il mondo e non solo l’Italia. Chi ha frequentato le università straniere ha potuto constatare come il livello di cultura media sia molto basso. Allora è necessario prendere atto della realtà senza atteggiamenti stupidamente aristocratici e snobistici. È inutile lamentarsi per l’abbandono di un tipo di università, come l’attuale, in cui, come dicevo, la maggioranza si perde per strada e chi si laurea frequenta poco e consegue il titolo in sette/otto anni, mentre all’estero ci si laurea a 22 anni. Inoltre, chi vuol coltivare l’eccellenza non avrà che da sbizzarrirsi nelle lauree specialistiche.
Ti ringrazio per gli spunti di riflessione che ci hai offerto. Spero vivamente che il nostro dialogo possa rappresentare un punto di partenza per avviare un ulteriore confronto di opinioni sui contenuti e i possibili esiti della riforma universitaria. Per facilitare chi voglia intervenire in proposito segnalo l’indirizzo di posta elettronica di entrambi:
roby@lettere.unige.it; etonizzi@tin.it.