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L’ immagine dell’America latina nel fascismo italiano

Eugenia Scarzanella – Angelo Trento

[versione provvisoria, da non citare senza autorizzazione]

l Mondo visto dall’Italia

Convegno della Sissco

Milano, Università Cattolica, 19-21 settembre 2002

Nel periodo tra le due guerre, la pubblicistica italiana sull’America latina continua in parte a seguire le linee di tendenza affermatesi tra Otto e Novecento ma, soprattutto a partire dalla fine degli anni ’20, presenta tratti innovativi in termini tematici, con una progressiva diffusione di studi e analisi nei quali emergono sempre più prepotentemente preoccupazioni di carattere geopolitico. I nuovi indirizzi, a volte annacquati nell’alveo di problematiche più vaste, si affermano anche a causa di fattori esogeni, in particolare le trasformazioni che il subcontinente deve affrontare in seguito alla crisi del 1929. La letteratura italiana degli anni ’30, relativa a quest’area, finisce così per portare in primo piano ciò che nel decennio precedente era formulato assai più sommessamente e cioè un progetto di egemonia politica, ideologica e in subordine culturale da parte del governo di Roma sui paesi del subcontinente, rielaborando almeno parzialmente e adattandolo alla nuova situazione il mito della “più grande Italia”.

Per quanto riguarda il primo e il più classico dei due filoni, alimentato soprattutto da giornalisti che ormai attraversano in largo e in lungo l’America latina per conto delle loro testate (il più noto e il più prolifico dei quali fu Mario Appelius, del “Popolo d’Italia”: Le isole del raggio verde, Alpes 1928; Le terre che tremano, Alpes 1930; Cile e Patagonia, Mondatori 1933), esso ripercorre molte tappe della pubblicistica precedente, dalla descrizione, a volte entusiasta, delle bellezze naturali e dei paesaggi a quella delle popolazioni, del clima e via dicendo. In questa produzione, il rischio della stereotipizzazione è sempre in agguato: sporcizia e trascuratezza sovrane, apprezzamento per la mescolanza razziale ma con commenti che tradiscono un razzismo di fondo, entusiasmo per popoli giovani e dinamici, di cui si sottolineano (salvo per il mondo indio) allegria e vitalità, disponibilità e ottimismo. In questa chiave di lettura, manca qualsiasi problematicità e, nello specifico, manca la complessità dell’”uomo cordiale” proposta nel 1936 da Sérgio Buarque de Holanda. Compare, semmai, la semplicistica assimilazione ai meridionali, ai napoletani (“Avana è una Napoli tropicale” dirà, appunto, Appelius, ma con lui tanti altri), per l’estroversione, il piacere dei colori e dei suoni, ma anche per la diffusione del clientelismo politico e del pragmatismo nell’affrontare la vita.

Come in passato, poi, praticamente non esiste pubblicazione dedicata all’America latina che non parli degli italiani e che non ne esalti il contributo allo sviluppo e alla modernizzazione delle società di ricezione, non solo delle aree che avevano ricevuto grandi contingenti ma anche di quelle in cui la nostra presenza era ridotta a poche centinaia di individui, magari soffermandosi su glorie del passato (artisti, viaggiatori, missionari). Era a questi lavori che alludeva Gino Doria – nella prima opera storica sull’America latina prodotta da un italiano, che raccoglieva le tre voci che l’autore aveva stilato per la Treccani e intitolata, appunto, Storia dell’America Latina, Hoepli 1937 – quando bollava le “sciagurate impressioni di viaggio” e gli studi incentrati sull’emigrazione come strumenti incapaci di far comprendere le realtà storiche d’oltreoceano, proposte sempre in maniera parcellizzata e mai inserite in un contesto più ampio. Anche l’opera di Doria, tuttavia, incentrata sul periodo coloniale e sulle lotte di indipendenza, non mancava di valorizzare le presenze italiane (dai navigatori a Garibaldi) e presentava addirittura, come appendice, un precedente saggio sulla partecipazione dei soldati napoletani alle lotte contro gli olandesi in Brasile tra il 1625 e il 1641.

Il rinnovato interesse per il subcontinente, indissolubilmente intrecciato, però, con la presenza italiana, è esemplarmente testimoniato dal cammino seguito dal Touring Club Italiano che, a partire dal 1924, offrirà al pubblico peninsulare una finestra sul mondo latinoamericano attraverso una rivista specializzata – Le Vie d’Italia e dell’America Latina – che farà ampio ricorso all’efficacia divulgativa della fotografia. Nel 1932 la rivista muterà titolo e raggio d’azione divenendo Le vie d’Italia e del Mondo, senza peraltro dimenticare l’originario interesse per quell’area in cui tanto rilevante era la nostra immigrazione. Anche le guide e le carte geografiche e gli atlanti curati dal TCI testimoniavano di uno sforzo di informazione, per la verità soprattutto orientato in direzione delle nostre collettività all’estero (così come avveniva con un’altra rivista, che usciva negli stessi anni, la Rivista d’Italia e d’America, creata nel 1923 da un medico italoamericano, Filippo Cassola).

Per quanto riguarda specificamente gli immigrati, si palesa la tendenza a descrivere ottimisticamente le loro condizioni e il loro peso nelle società latinoamericane, confinando nel passato le difficoltà, i sacrifici, le miserie. Ma, se è vero che il forte rallentamento dei flussi e l’ormai lunga permanenza degli italiani in questi paesi aveva necessariamente attenuato le asprezze dell’inserimento economico e sociale, i toni edulcorati prevalenti avevano lo scopo di dimostrare (e spesso ciò veniva chiaramente esplicitato) che, con il fascismo, i cittadini all’estero godevano finalmente di una tutela sconosciuta in precedenza. Non è casuale che solo autori antifascisti (come Magrini, In Brasile, Gobetti 1926) riportassero l’insistenza con cui il governo di Roma cercò di barattare un contratto d’emigrazione con il Brasile (con scarse garanzie per i nostri connazionali) con la concessione della clausola della nazione più favorita.

L’idea di utilizzare gli immigrati come merce di scambio con paesi che avevano necessità di manodopera era, d’altronde, di antica data e venne ripresa da più parti anche nel periodo tra le due guerre allo scopo di rinvigorire gli esangui scambi con l’America latina. La scarsa consistenza degli stessi e la latitanza di capitali provenienti dalla madrepatria furono spesso lamentati da chi si occupava del subcontinente e tale insoddisfazione crebbe nella seconda metà degli anni ’30, in conseguenza del grande balzo in avanti fatto dalla Germania nelle relazioni commerciali con l’America latina, grazie al ricorso ai marchi compensati.

La dimensione quantitativa delle nostre collettività venne poi utilizzata per prospettare un’affermazione politica dell’Italia o, ancor meglio, per diffondere l’ideologia fascista. Gran parte di chi difende queste posizioni lamenta però la latinoamericanizzazione dei figli degli immigrati, auspicando magari maggiori sussidi da parte del governo di Roma per le scuole italiane in quei paesi ( Rocca, Avventura sudamericana, Alpes 1926). Assai più che in passato, c’è la convinzione che i discendenti siano perduti per l’Italia e che anzi si siano trasformati nei più accesi nazionalisti di quei paesi (tesi, questa, espressa dallo stesso Doria, ma comune a molti analisti, ad esempio Foà, Nazionalismi sudamericani, Il Popolo d’Italia 1937).

Non isolate sono, comunque, le voci che, soprattutto negli anni ’20, fugano i timori di perdita dell’italianità e indicano nelle organizzazioni fasciste trapiantate oltreoceano gli strumenti operativi di questo scampato pericolo. Certamente, anche a uno spoglio affrettato della pubblicistica, appare evidente non solo come il subcontinente e la collettività italiana suscitino l’interesse del regime (Villa, L’America Latina problema fascista, Nuova Europa 1933, Federzoni, Parole fasciste al Sud America, Zanichelli 1938), ma anche come esista una determinazione, da parte di quest’ultimo, di diffondere il proprio modello attraverso gli immigrati. A dimostrazione dell’avvio precoce di operazioni in tal senso possiamo citare la missione di Dinale nel 1923 e, soprattutto, la crociera della nave Italia, guidata da Giuriati, nel 1924. Tale crociera, tesa alla promozione di merci e cultura italiane ma palesemente indirizzata anche alla valorizzazione dell’immagine del fascismo, fece sì che l’America latina occupasse le pagine dei principali giornali per un lungo periodo di tempo, anche a causa della presenza a bordo dei loro corrispondenti, ognuno dei quali raccoglierà poi in volume i propri articoli (Carrara, Ventotto porti dell’America Latina, Giani 1925; Rocca, Avventura sudamericana, Alpes 1926, Miserocchi, L’America Latina attraverso il mio oblò, Grazzini 1925, Belli, Al di là dei mari…, Firenze 1925).

Come è noto, il regime procedete alla “fascistizzazione” della collettività italiana in America latina con maggiore o minore successo a seconda delle aree, ma ovunque tale operazione fu portata avanti facendo leva sull’orgoglio nazionale (Parini, Gli Italiani nel mondo, Mondadori 1935, Orano, Avanguardie d’Italia nel mondo, Pinciana 1938) e sul prestigio ottenuto in campo internazionale. Nella creazione di un consenso allargato, ebbero peso, assai più dei Fasci, le sezione dell’OND e, soprattutto, il corpo diplomatico. Sta di fatto che la pubblicistica sull’America latina descrive sempre le collettività italiane come compattamente a favore del fascismo o, quantomeno, di Mussolini. Le eventuali manifestazioni di dissenso (più frequenti negli anni ’20) possono essere attribuite alle subdole manovre dei servizi segreti inglesi e statunitensi (Rocca 1926). Frequentemente si registrano scene di folle plaudenti e inneggianti al fascismo e alla nuova Italia.

Le terre americane non vengono più viste, ovviamente, come sbocchi emigratori ma come aree aperte all’esercizio di un’egemonia culturale, politica e ideologica, non necessariamente per il tramite dei connazionali residenti. Come accennato, un nuovo approccio nell’analisi delle realtà locali fu in gran parte determinato dalla crisi del 1929, che indusse ad analisi a volte anche abbastanza corrette (come nel caso del volume curato da Silvio Pozzani, Panamerica e spazio orientale asiatico. Due blocchi in formazione, ISPI 1940), a partire dalla convinzione che per il subcontinente non sarebbe più stato possibile un mero ritorno ai modelli economici del passato. Di qui derivava la necessità di percorrere nuove vie sul piano politico e di cercare nuovi modelli, che, nel clima di indebolimento generalizzato dei convincimenti democratici e liberali di origine britannica (assunti sin dall’indipendenza) avrebbero potuto essere quelli del totalitarismi europei.

Così, a partire dal 1930 e grazie anche a una capillare propaganda, il fascismo cercò di proporsi come referente se non addirittura come guida. Conseguentemente, l’opinione pubblica peninsulare sentì parlare assai di più dell’America latina. Ciò avvenne anche grazie all’ascesa di numerosi governi autoritari, quando non decisamente dittatoriali, presentati come soli garanti di un’evoluzione di “ordine e progresso” (per riprendere il motto positivista della bandiera brasiliana). L’insistenza nella descrizione di tali realtà derivava anche dalla frequenza con cui questi governi manifestavano simpatie nei confronti de fascismo o, per male che andasse, di alcuni dei suoi principî, dal corporativismo al controllo sindacale, e di alcuni suoi percorsi, come il dialogo con la Chiesa.

Poco importa che molte delle somiglianze così tenacemente sbandierate fossero tali solo sulla carta e che, in realtà, ciò che prevaleva fosse sostanzialmente l’autoritarismo (venato a volte da toni populisti e con basi di sostegno totalmente diverse da quelle del fascismo); la pubblicistica italiana insisteva comunque sulla filiazione “ideale” dal regime mussoliniano, rinfrancata, in questo giudizio, dalle missioni militari ed economiche (inviate, per la verità, solo in Ecuador e in Perù), dal rifiuto di alcuni paesi di applicare le sanzioni comminate dalla Società delle Nazioni in occasione della campagna etiopica e dalla nascita di gruppi e partiti fascisti (in Brasile, in Cile, in Messico, tanto per citare i casi più importanti), visti però anche con una certa diffidenza, proprio a causa del loro nazionalismo.

Dal 1930 in poi (ma a volte anche prima), la letteratura sull’America latina è prodiga di elogi agli uomini forti del subcontinente, dall’argentino Uriburu al cubano Machado, dal cileno Ibañez del Campo all’uruguayano Terra. Ma saranno soprattutto il Venezuela e il Brasile a richiamare l’attenzione. Dal primo dei due paesi, governato dal dittatore Juan Vicente Gomez, si farà giungere, per tradurlo nel 1934, il libro di Laureano Valenilla Lanz sul cesarismo democratico, in sostanza sulla necessità di essere governati da uomini forti. Del Brasile, verrà esaltata la figura del presidente e poi dittatore Getúlio Vargas (Araldi, Il Brasile sotto la presidenza di Getulio Vargas, La Filografica 1939, Carrazzoni, Getulio Vargas, CEDAM 1941, Cantalupo, Brasile euro-americano, ISPI 1941), che, al pari di Mussolini, guidava il Brasile con “pugno sicuro” e che, come affermava Marpicati nella prefazione del libro di Carrazzoni vantava il merito di aver abilmente adattato alle esigenze del suo paese, molte delle “conquiste ideali e pratiche del fascismo”, creando un nuovo tipo di cittadino.

La democrazia ormai svalutata veniva poi accoppiata alla prassi imperialista statunitense. La traduzione della dottrina Monroe nell’abusata formula dell’America ai nordamericani ricorre in una pubblicistica che è unanime nella condanna. I paesi dell’area, specie quelli caraibici e centroamericani, vengono descritti, naturalmente, come mere colonie statunitensi, ma qualcuno intuisce che chi si oppone a questo strapotere (Argentina sopra a tutti) lo fa perché ha relazioni altrettanto strette e subordinate con la Gran Bretagna.

Il tema del panamericanismo si colloca al centro dei due filoni di ricerca sull’America latina, che si sviluppano nel decennio 1930: politica estera e geopolitica. Nel 1933 viene fondato l’Istituto di Politica Internazionale (ISPI) a Milano. Attraverso le sue riviste ( in particolare con la Rassegna di Politica Internazionale, dal 1939 ribattezzata Storia e politica internazionale) sono analizzati i rapporti passati e presenti dell’America latina con l’Europa e con gli Stati Uniti.

Nel 1936 l’ISPI organizzò il I convegno nazionale di politica estera. E’ significativo che il programma prevedesse una sezione sull’America Latina ( accanto a quelle dedicate al Mediterraneo orientale, al problema danubiano, al problema delle materie prime e al ruolo della Società delle Nazioni). L’importanza data dall’ISPI a questo settore di studi è confermata dal fatto che la relazione generale fosse affidata a Gioacchino Volpe, uno dei primi fautori della necessità di promuovere la conoscenza della politica internazionale, sia tra i ceti dirigenti sia tra i cittadini.

Come notava un relatore al convegno la creazione dell’Impero non doveva oscurare a vantaggio dell’Africa altre aree del mondo altrettanto se non addirittura più importanti, ora che l’Italia era divenuta ” non solo una Potenza mediterranea ma oceanica”.

Volpe metteva tuttavia in chiaro come l’interesse italiano per l’America latina andasse soprattutto ai paesi dell’America del Sud al di sotto dell’Equatore, e precisamente al cosiddetto gruppo ABC ( Argentina, Brasile ,Cile,), più il piccolo Uruguay. In ciò vi era un implicito riconoscimento dell’egemonia statunitense sul resto del continente. Solo i paesi di immigrazione italiana potevano essere reali interlocutori dell’Italia, anche se Volpe ammetteva che con la politica roosveltiana del ” buon vicinato” e con le sanzioni anche loro erano stati trascinati nella corrente del panamericanismo.

Le relazioni presentate a Milano offrono un panorama degli studi italiani e delle iniziative di divulgazione della conoscenza geografica , economica e storica sui paesi latinoamericani. Il Prof. Alberto Asquini, reduce da una missione commerciale oltreoceano, tesa a riattivare gli scambi con l’Italia, depressi dalla crisi economica era il presidente di un neocostituito Centro Italiano di Studi Americani, volto ad approfondire lo studio dell’area. Il Centro pubblicherà un proprio Annuario tra il 1938 e il 1943 ( mentre dal canto suo l’ISPI a partire dal 1937 allargherà il contenuto del proprio Annuario – inizialmente limitato all’Europa – anche ad altri continenti, tra cui appunto l’America Latina).

Dopo il convegno l’ISPI, attraverso la rivista prima citata, e altre come Relazioni Internazionali e Popoli ( curata tra il 41 e il 42 da Federico Chabod e Carlo Morandi), continuò la divulgazione della conoscenza delle aree extraeuropee, attribuendo alla geografia ( in combinazione con l’economia, la politica estera e la storia) un ruolo rilevante.

Convinti non solo dell’importanza della geografia ma del suo ruolo di indirizzo nella “scienza delle relazioni internazionali” erano i cultori della geopolitica, disciplina che in Italia giungeva alla fine del decennio 1930 come ricezione degli studi sviluppati in Germania da Haushofer.

La rivista Geopolitica – fondata nel 1939, con l’appoggio di Bottai e curata da Ernesto Massi dell’Università di Milano e Giorgio Roletto dell’Università di Trieste – attribuì una costante attenzione all’America latina e le dedicò un numero speciale nel 1940.

La constatazione della frammentazione di tutta l’economia mondiale, dell’impossibilità per tutti i paesi di tornare al vecchio sistema del libero scambio portava, secondo i collaboratori della rivista, alla formazione di “economie a grandi spazi” o “spazi vitali”.

L’economia mondiale era ormai divisa in blocchi continentali. Se ne individuavano sostanzialmente tre: l’Eurafrica, il blocco orientale asiatico e la Panamerica ( Roletto). Si prendeva atto di come l’idea panamericana si diffondesse e l’opposizione ad essa, che un paese come l’Argentina continuava a manifestare, era giudicata come volta solo a “trasformare l’unilateralismo della dottrina Monroe nel multilateralismo di una lega americana”, non certo come frutto di “amori extra-continentali”.

L’approccio geopolitico individuava nelle tre aree continentali un nocciolo strategico, rappresentato dai rispettivi “Mediterranei” .

Nel “Mediterraneo americano” gli Stati Uniti si comportavano come l’Inghilterra nel “Mediterraneo europeo”( conquista di basi strategiche). Il pronostico era quello di un successo nordamericano nel suo settore ( così come del Giappone in quello del “Mediterraneo asiatico”) e di una sconfitta dell’Inghilterra a favore dell’Italia in Europa.

La conquista dell’Etiopia era vista come un passo per creare e rafforzare un’asse eurafricana, ma la nostalgia per la solidarietà latina non cessava di affiorare anche nei più realisti dei teorici della geopolitica( Roletto), magari come richiamo all’universalità di Roma e ai “legami di sangue e di sudore” che legano l’Italia ” a tutti i popoli di tutti i continenti”.

I primi anni di guerra stimolarono anche altri studi sul tema del panamericanismo, tra cui otre a quello già citato di Silvio Pozzani, i saggi di un collaboratore di “Civiltà Fascista”, Odon Por (Il divenire panamericano, Roma, 1941) e di studiosi di economia e diritto come Ernesto Manuelli ( Panamericanismo economico, Milano Hoepli, 1940) e Ugo Cereti ( Panamericanismo e diritto internazionale, Milano, Giuffrè, 1939).

In questi studi e sulle pagine di Geopolitica e Storia e Politica Internazionale si approda a una visione (per la verità non priva di contraddizioni) che in qualche misura riconosceva e legittimava la creazione di uno spazio autarchico americano.

Per riassumere i contenuti delle diverse immagini dell’America latina e del panamericanismo presenti nella pubblicistica italiana negli anni del fascismo può essere utile fare riferimento a qualche esempio.

Colombo ( 1926-1931) era una rivista edita dall’Istituto Cristoforo Colombo (presieduto da Vittorio Emanuele Orlando). L’Istituto nato per favorire una propaganda culturale italiana nelle Americhe e assistere la nostra emigrazione. Nel 1930 si confrontarono sulle sue pagine un economista, Benvenuto Griziotti, e un diplomatico, Mario Orsini Ratto, in tema di rapporti tra Nord e Sudamerica. Secondo Griziotti il compito dell’Italia doveva essere quello di sostenere i paesi latinoamericani nella ricerca di indipendenza politica ed economica dal nord. Orsini Ratto replicava sostenendo una tesi opposta ( sviluppata nel volume L’Avvenire dell’Argentina, Roma, 1930) , secondo cui l’Italia non si doveva contrapporre agli Stati Uniti, ma collaborare con essi per valorizzare le risorse del Sudamerica. Chiave di volta di questa collaborazione avrebbero dovuto essere le comunità italiane immigrate nel sud e nordamerica. Tra l’altro la creazione di istituzioni finanziarie italo-nordamericane per la promozione di attività imprenditoriali in America latina avrebbe consentito agli Stati Uniti sia di fronteggiare la concorrenza inglese sia l’ostilità antimperialista di molti stati latini .

Questo confronto polemico mostra come nel giudizio sul rapporto tra Stati Uniti e America Latina giocasse ancora, all’inizio degli anni Trenta, un ruolo rilevante il tema dell’emigrazione. Ma accanto a chi si proponeva di fare della presenza massiccia di nostri connazionali uno strumento di relazioni preferenziali, sia economiche sia politiche, tra Sudamerica e Italia, in concorrenza con gli Stati Uniti, c’era chi invece prendeva realisticamente atto del ruolo dominante di questi ultimi, pur cercando di ritagliarsi tuttavia una piccola sfera di influenza.

Del resto quest’ultima strategia era quella avvallata da Mussolini, che , con disappunto di alcuni diplomatici (R. Cantalupo), favoriva il distacco dell’America Latina dall’Europa ( approvando ad esempio i progetti di una Società delle Nazioni americana), riconosceva l’egemonia americana e cercava forme di collaborazione con la potenza anglosassone, senza ovviamente rinunciare alla innocua retorica della “fratellanza latina”.

Quello della latinità, come arma da contrapporre all’imperialismo statunitense, aveva in realtà caratterizzato le analisi sull’America latina sin dagli anni ’20, condizionando in gran parte anche gli studi del decennio successivo. In questa ottica, il panamericanesimo, come pianta da estirpare, viene quasi sempre accoppiato alla valorizzazione del suo opposto, il panlatinismo, di cui ci si premura di tracciare nitidi contorni. La latinità racchiude, ovviamente, il concetto di grande famiglia etnica, ma per gli autori fascisti occorre non limitare questo orizzonte a una hispanidad basata sulle comuni origini e lingua (e ancor meno, è evidente, a una Francia che all’America latina ha prestato solo la definizione terminologica). Madrid non è, infatti, in grado di offrire quel patrimonio di spiritualità (necessariamente contrapposta alla natura esclusivamente economica del panamericanesimo) di cui il subcontinente ha bisogno e che, invece, può ampiamente garantire Roma, che è la vera capitale del mondo latino e che è rappresentata oltreoceano da milioni di immigrati e discendenti. A quanto questa civiltà può offrire in termini di spiritualità – latinità e cattolicesimo – si aggiunge poi il prestigio della nuova Italia, che diventerà l’elemento su cui la pubblicistica si troverà costretta a insistere maggiormente (rispetto al panlatinismo) quando Roma si legherà indissolubilmente a Berlino.

La prospettiva della guerra e la guerra stessa faranno però cambiare i termini della discussione. Come esempio di questo cambiamento si può leggere la contrapposizione sulle pagine della rivista dell’ISPI, Storia e Politica Internazionale ( 1941) tra le tesi di un fautore della creazione di una Euroamerica, e quelle di chi si è ormai “rassegnato” all’esistenza di una Panamerica. Roberto Cantalupo ribadisce argomentazioni già espresse negli anni precedenti ( e frutto anche della sua esperienza diplomatica in Brasile) : sostiene che la guerra ha definitivamente contrapposto le due Americhe, quella “cattolica e tendenzialmente umanistica” e quella “protestante e anglica, progressista e radicale, finanziaria e massonica”. La eterna lotta dell’America Latina contro i progetti egemonici degli Stati Uniti sarebbe oramai imposta non solo da ragioni culturali ma anche economiche. Così le elenca: 1° la impossibilita del mercato americano di sostituirsi a quello europeo come sbocco delle produzioni latinoamericane ; 2° l’affinità tra i sistemi economici e sociali adottati dalle “razze giovani d’Europa” con quelli utilizzati anche in Sudamerica ( e rivelatisi ben più efficienti del “capitalismo plutocratico anglosassone”); 3° l’ormai “aspro cozzo” tra l’imperialismo Usa e quello britannico, che imporrà all’America latina una assoluta egemonia di Washington. Ne conclude che “se gli Stati Uniti, nel corso della guerra europea, vorranno tirare a sé le convenienze del continentalismo i meridionali saranno costretti a difendersi sotto i tendoni regionalistici”. Non crede a questa prospettiva Silvio Pozzani : sarà il continentalismo ad imporsi e non solo per ragioni economiche ( il potere della finanza americana supera il difetto di complementarità tra le economie del sud e del nord) ma anche per ragioni politiche: la guerra è una guerra ideologica e con la formula dell’antitotalitarismo “la propaganda panamericana si svolge più liscia”. Non ultime vengono le difficoltà al crearsi di un regionalismo latinoamericano dal ” piccolo patriottismo criollo”, “mezzano dell’imperialismo”( Pozzani utilizza qui le parole del leader dell’unico movimento regionale che, a suo avviso, avrebbe potuto unificare politicamente i paesi latino-americani, Haya de la Torre). Tali difficoltà affondano anche nelle “diversità razziali”, nelle rivalità di frontiera, nella debolezza delle economie, nella concorrenza commerciale.

L’unica speranza che l’egemonia americana non si affermi è costituita dall’andamento della guerra, se gli Stati Uniti entreranno nel conflitto, forse gli stati latini non li seguiranno, forse , si illude Pozzani, l’Argentina come la Bulgaria potrebbe alla fine decidersi ad aderire all’Asse.

Naturalmente questa prospettiva continua ad essere caldeggiata dai fautori della latinità che ( come Luigi Villari o Ettore de Zuani sulla Nuova Antologia) offrono ai paesi del sud, contro la “prepotenza anglosassone”, la difesa dell’Asse e soffiano sul fuoco di vecchie e nuove rivendicazioni latinoamericane contro il colonialismo inglese ,dalle Malvine all’Honduras Britannico ( G.B.Festari in Storia e politica internazionale e De Zuani in Geopolitica).

Non manca neppure il ricorso allo stereoptipo razzista, che contrappone la giovane America ( di Colombo, di Bolivar e perfino di Monroe, recuperato come autore di una “serena dottrina panamericana” a carattere difensivo), all’America del “fronte ebraico-massonico”, “ricettacolo di tutti i rifiuti politici e razziali”.