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La dispersione dei poteri

Alessandro Pizzorno

Alessandro Pizzorno
Testo provvisorio dell’intervento al Convegno Sissco, Siena 9-10 Novembre 2000
La democrazia nel Novecento. Un campo di tensione
1. Specializzazione e indipendenza. Nel pensiero politico del Settecento il principio della separazione dei poteri era generalmente assunto a caratterizzare un regime politico che non fosse dispotico. Nell’idea di “separazione” erano presenti due componenti: quella di specializzazione e quella di indipendenza. “Specializzazione” significava che non era di competenza di coloro che erano impiegati a svolgere una delle tre funzioni, di occuparsi anche delle altre due: voleva cioè dire che vigeva la distinzione delle competenze. “Indipendenza” significava che chi svolgeva un compito relativo a una delle tre funzioni non poteva ricevere ordini da chi aveva ruoli nello svolgimento delle altre; e qui era appropriato parlare di “potere”.
Su cosa era fondato tale potere? Istituzionalmente, sulla chiamata in giudizo di chi non rispettasse quella condizione d’indipendenza. In realtà, sia Montesquieu, sia, più esplicitamente Blackstone, che applicherà l’idea di Montesquieu alla Gran Bretagna, hanno ben chiara un’interpretazione sociologica delle forze sociali che sostenevano il potere di cui parlava quella formula. I tre poteri rispecchiavano le forze sociali e culturali riferentisi rispettivamente alla monarchia, alla proprietà agricola aristocratica e alla proprietà commerciale (quest’ultima preminente nel legislativo, ma accettando la presenza delle altre due, nella formula King in Parliament).
2. Separazione dei poteri come equilibrio tra forze sociali. Il principio della separazione dei poteri, in quanto andasse al di là di una mera descrizione, del resto non fedele, dell’organizzaione delle funzioni statali, quindi, rifletteva e dava giustificazione istituzionale a una situazione in cui poteri già in qualche modo autonomi, cioè capaci se necessario di mobilitare forze proprie, cercavano di trovare un punto di equilibrio istituzionale, assicurandosi la garanzia contro casi di esercizio arbitrario del potere e sconfinamenti di competenze.
Contrapponendo il regime costituzionale caratterizzato dalla separazione dei poteri al regime dispotico, si considerava che l’arbitrio da cui proteggersi non poteva che essere quello del monarca. Con poco distacco storico rispetto al precisarsi della dottrina costituzionalista si affermava però una diversa fondazione della sovranità, quella popolare. E anch’essa era accompagnata dalla minaccia di una potenziale assolutezza. Poteva allora la separazione dei tre poteri, come originariamente definita, fungere da struttura di vincoli che limitasse le potenzialità assolutistiche del nuovo sovrano (o di chi ne interpretasse la volontà)?
3. Maschere e voci del nuovo sovrano. L’organizzazione dello Stato moderno non poteva non porsi il problema della distinzione sistematica delle competenze degli uffici. Affermarla come separazione dei poteri comportava però assegnarle il compito di prevenire l’identificazione di un potere superiore agli altri, cioè sovrano. Ora, un potere è sovrano se può fondarsi su una realtà comune riconosciuta da tutto il corpo sociale, la quale sia pre-politica, cioè non derivante da decisioni prese nel corso delle controversie politiche e riflettenti i disaccordi che le caratterizzano. Solo così il riferimento a un potere sovrano permette di richiedere l’obbedienza a una norma da esso emanata anche quando non si sia d’accordo con il contenuto di essa.
L’attribuzione di sovranità al popolo permetteva di costituire tale situazione, se si assumeva che il popolo esistesse prima dello Stato. Si presentavano allora i seguenti problemi: a) come identificare chi fosse il popolo (problema dell’identificazione); b) come interpretare la voce con cui si riteneva che il popolo potesse esprimere la sua volontà (problema dell’interpretazione); c) come far ubbidire coloro cui la definizione del corpo politico attribuiva potere sovrano (problema del consenso).
4. Identificare il sovrano o costruirlo?. Benchè il primo problema che sembra presentarsi nella storia costituzionale delle liberal-democrazie, cioè dei regimi rappresentativi, appaia appunto essere quello di organizzare la rappresentanza, ciò è dovuto alla circostanza che quel tipo di regime si sia presentato dapprima in situazioni dove la definizione di chi fosse il popolo sembrava non porre difficoltà: o perchè il riferimento a un’identità tradizionale era implicito nella pratica della common law — e questo rendeva superflua una definizione costituzionale unificante (Gran Bretagna); o perchè l’identificazione avveniva attraverso scelte individuali volontarie di appartenenza ad una società in farsi, e il popolo sovrano si formava con l’atto di accettare la preformata costituzione (Stati Uniti). Si poteva dire, cioè, che là fosse la Costituzione, invece del popolo (inteso come Volk), a offrire la necessaria realtà di riferimento, unitaria, prepolitica, quindi irrefutabile.
Ma sul continente europeo, e in particolare negli Stati formatisi dopo la rivoluzione francese, dopo cioè che la nozione di volontà popolare sovrana appariva l’unica possibile fondazione del potere costituente, il problema di come identificare il popolo, anche se non espresso esplicitamente, è all’origine di momenti chiave nella storia costituzionale e politica dell’Ottocento. Per gli Stati (soprattutto dell’Europa centro-orientale) che si formano dopo la prima guerra mondiale, come mostra Mazower, le difficoltà che la soluzione di questo problema comportava furono tali da far naufragare ben presto quasi ovunque in quei paesi i regimi rappresentativi che vi si erano appena formati.
Ora a me sembra che le tecniche di costruzione del popolo sovrano adottate in diversi momenti e con diverso impegno negli Stati europei possono dirsi essere soprattutto quattro. Si tratta essenzialmente di tecniche di costruzione di solidarietà, cioè di modellamento di quel corpo solidale in nome del quale si poteva pretendere l’ubbidienza alle norme anche nell’eventuale dissenso ideologico sul contenuto. Poichè la loro storia è ben conosciuta, mi limiterò qui a elencare rapidamente i tipi di solidarietà cui esse miravano:
a) solidarietà penale: è quella che si ottiene separando — per usare una formula felice — le classi laboriose dalle classi pericolose; costituendo così una solidarietà tra tutti coloro che, indipendentemente dalla loro posizione nei confronti del regime, si sentono minacciati dal nemico interno che si manifesta con il crimine. La polizia — nata, con l’eccezione della Francia, dove essa è più antica, contemporaneamente ai regimi liberal-democratici — è l’istituzione emblematica di questo tipo di solidarietà, in quanto viene posta ai confini del “corpo sano” della nazione;
b) solidarietà militare: quella che si ottiene nel porsi contro nemici esterni e nel forzare il popolo alle armi ad essere solidale. Qui l’istituzione emblematica è ovviamente il servizio militare obbligatorio;
c) solidarietà culturale: è costituita sia grazie al formarsi di una più o meno capillare rete di ritualità (festività, cerimonie, parate, celebrazioni…) che obbligano o invitano il popolo sovrano a manifestarsi in vari parafernali, e ad elaborare attraverso esse una memoria unitaria; sia soprattutto grazie al controllo della socializzazione, con l’educazione pubblica obbligatoria. I vari Kulturkaempfe dei Nationbuilders, da Bismarck a Jules Ferry, pur nella loro così diverse radici ideologiche, rispondevano al comune bisogno di dare alle nuove generazioni che entravano nella società nazionale una formazione religioso-civile — sottraendola ovviamente alla Chiesa — così che i governanti avessero un popolo omogeneo, zuverlaessig, attendibile e religiosamente devoto allo Stato, cui potersi rivolgere come a loro sovrano. L’educazione obbligatoria, pubblica o pubblicamente controllata, è la principale istituzione a fondamento di questa solidarietà.
4. Solidarietà utilitaria: si riferisce essenzialmente a quegli insieme di provvedimenti che sono andati variamente sotto i nomi di Sozialstaat, Welfare State, Etat providence. Questi provvedimenti vengono introdotti in diversi momenti storici per varie ragioni, militari, sanitarie, di acquisizione di consenso. Ma a tutti è comune di assumere che il popolo è oggetto di definizione utilitaria, portatore di bisogni, preferenze, utilità. Che quindi la sua voce, venga essa espressa o no (si sa che negli Stati in cui per primi è apparso, Germania, Gran Bretagna, Svezia, i primi provvedimenti dello Stato sociale non rispondevano a domande dei partiti popolari, bensì erano stati programmati da rappresentanti della burocrazia pubblica e degli esperti civili), può venir decrittata unicamente in termini di utilità. Una nuova disciplina accademica, l’economia del benessere, viene creata con l’impegno di arrivare alla determinazione obiettiva e quantitativa dei contenuti possibili della volontà popolare in termini di utilità. Da Pareto ad Arrow si dimostrerà l’impossibilità logica di portare a compimento questa impresa, e così di dar contenuto altro che soggettivo o arbitrario, alla nozione di “volontà popolare”.
Può essere interessante notare che questi quattro tipi di solidarietà fanno riferimento, in due casi, alla dimensione del nemico comune (nemico interno e nemico esterno); in due casi alla dimensione dell’esperienza di un tempo comune (il passato, la comune tradizione e memoria, quanto alla solidarietà culturale; un possibile futuro comune, quanto alla costruzione dello Stato sociale).
5. La rappresentanza e le sub-solidarietà. I modi di costruzione del popolo sovrano attraverso le tecniche di solidarietà descritte nella sezione precedente avevano tutte per oggetto la nazione nel suo insieme. Si potrebbero chiamare processi di nazionalizzazione della società condotti dallo Stato. Ma contemporaneamente andavano sviluppandosi forme di solidarietà indotte dall’altro insieme di istituzioni, che, assumendo che il sovrano fosse ben costituito e identificato, erano volte a dar voce alla sua volontà: le istituzioni della rappresentanza. Esse intendevano dar soluzione sia al problema dell’interpretazione della volontà del sovrano, poichè gli prestavano voce; sia a quello del consenso, poichè permettevano al popolo, attraverso la mediazione dei rappresentanti, di partecipare alla formazione dei comandi cui doveva poi obbedire.
Si sa che la posizione minimalista quanto a determinazione della voce del popolo sovrano, era quella che la collocava nel momento del voto. Il popolo è sovrano unicamente quando, in uno stesso giorno in tutto il paese, entra nelle cabine elettorali e deposita i bollettini di voto. In quel momento parla, per tutto il resto del tempo resta in silenzio. La storia delle ideologie democratiche può leggersi come la successione di proposte di espedienti miranti a smentire l’esclamazione rousseauviana che nei regimi rappresentativi il popolo è sovrano una volta ogni quattro anni, per il resto del tempo è schiavo; cioè a cercare la volontà sovrana altrove che meramente nell’atto di votare. Ma è una storia che, come spesso accade, contiene un’involontaria ironia. Essa conduce da un’idea di popolo come portatore di volontà a un’idea di popolo come simbolo. Essendo anch’essa una storia di fatti ben conosciuti, cercherò ora di rileggerla per brevi note sotto questa luce particolare.
6. Le interpretazioni e la deferenza. L’abolizione del mandato obbligatorio e l’affermazione costituzionale del diritto/dovere del rappresentante non di portare in parlamento le domande dei suoi rappresentati, bensì di comportarsi seguendo la propria interpretazione del bene della nazione, giudice soltanto la propria coscienza, definiva il parlamento come luogo di dibattito nel quale si doveva entrare senza posizione prestabilite, per giungere dopo discussione razionale aperta a definire quale dovesse essere il bene comune. Nei fatti non fu mai veramente così, ma l’assunto che così fosse comportava altri postulati: a) che esistesse un unico bene comune, cioè un interesse collettivo, non visto chiaramente da tutti, e quindi non coincidente con gli interessi singoli soggettivamente intesi in un momento determinato, in quanto sarebbe emerso nel lungo periodo; b) che costituendo l’interesse collettivo anche il vero interesse a lungo andare per tutti, non bisognava, come diceva il principio liberale, ritenere che “ognuno fosse il miglior giudice del proprio interesse”, bensì che per ogni individuo, contro un interesse non illuminato di breve periodo, esistesse un vero interesse, coincidente nel lungo andare con l’interesse comune; e che questo secondo potesse emergere soltanto dopo la discussione politica; c) che quindi il metodo del principio di maggioranza nel determinare le decisioni non era volto a riflettere la maggioranza degli interessi, bensì la maggioranza delle interpretazioni; d) che la scelta del rappresentante attraverso le elezioni doveva condurre a scegliere quella persona che si aveva fiducia fosse in grado o di rispecchiare l’interpretazione dell’intesse collettivo cui sarebbe giunto l’elettore stesso se illuminato; o in ogni caso di giungere per virtù propria a un’interpretaziona corretta, nel caso che l’elettore stesso a un’interpretazione qualsiasi non fosse stato in grado di giungere.
Che fosse necessario assumere, anche senza formularlo apertamente, che queste erano le premesse, derivava dal fatto che non c’era altro modo di passar sopra alla constatazione di due circostanze che avrebbero altrimenti minato il principio della sovranità popolare e quindi della razionalità dei meccanismi rappresentativi e del principio di maggioranza. Queste due circostanze erano: la possibile, e probabile, ignoranza degli elettori quanto agli affari dello Stato e la potenziale divergenza degli interessi, intesi come interessi di singoli, tra rappresentanti e rappresentati. La scelta effettuata mediante elezioni, insomma, non poteva che fondarsi sulla fiducia che il rappresentante fosse meglio in grado di interepretare quale era l’interesse comune, quindi il vero interesse di entrambi, elettore ed eletto, se non nell’immediato, certo nel lungo andare. Fondata o no che fosse la premessa, certamente non verificabile, dato il difficile controllo delle vicende parlamentari, essa rimandava in realtà a una fiducia che aveva in generale un solido fondamento pre-politico nel rapporto di deferenza sociale che legava l’elettore al suo rappresentante. Gli eletti erano dei signori che portavano in pubblico il loro popolo, in tal modo imprestandogli una ben filtrata voce, e figurandolo per un giorno come sovrano, dal corpo tenuto insieme col collante delle mille deferenze tradizionali, tale da essere assai simile a quel corpo che ancora qualcuno poteva andare a vedere nella figura di frontespizio della prima edizione del Leviatano.
7. Le interpretazioni e le solidarietà parziali. Ancora negli anni ‘4O del secolo scorso J.S.Mill poteva ritenere che la funzione del Parlamento non dovesse essere quella di amministrare lo Stato, e neppure quella di legiferare (anche questa era da riservare di fatto al governo), bensì quella di “aprire il governo al pubblico”, “to throw the light of publicity on governmental acts”. Il Parlamento doveva considerarsi il ‘committee of grievances” della nazione, il congresso dell’opinione pubblica. Si può dire che in tal modo definiva il Parlamento come noi oggi definiremmo la sfera pubblica.
Non passeranno molti anni, però, che sia sul continente, sia anche in Gran Bretagna, nasceranno i partiti ideologici organizzati. Nella linea del discorso che vado qui presentando, questo fatto può esser visto comportare le seguenti conseguenze:
a) si amplia l’area di partecipazione alla formazione delle interpretazioni, sia come ampliamento demografico, sia come moltiplicazione di sedi al di fuori del parlamento dove si svolge il dibattito interpretativo degli interessi collettivi;
b) il parlamento non è più neppur nella finzione il luogo dove si forma l’interpretazione del bene comune dopo deliberazione aperta, bensì il luogo dove si arriva con idee già formate e dichiarate nella richiesta di fiducia all’elettore, e che non si è pronti ad abbandonare se si viene convinti che ce ne possono essere altre migliori. Anzi, queste idee ci si deve impegnare a sostenerle fino al voto, per dimostrare così la fedeltà all’elettore, o al partito di appartenenza di entrambi. Si può dire che implicitamente si ricostituiva in tal modo una forma di mandato, non formulato, come ai vecchi tempi, nei “cahiers”, ma nelle direttive del partito;
c) il criterio di scelta del rappresentante non si riferisce più a una deferenza fondata sul sentimento di inferiorità sociale, bensì a una presunzione di comune concezione della società desiderabile. La componente della deferenza non si cancella però interamente: si sceglie di venir rappresentati da colui verso il quale si è deferenti perchè gli si riconosce superiorità intellettuale, di capacità di interpretare quali siano i veri interessi collettivi, e quale il cammino da percorrere per soddisfarli;
d) l’accesso alla classe politica si amplia e tende a professionalizzarsi, cioè a rendere possibile di vivere di politica, nel significato dato a quest’espressione da Weber. Il criterio di selezione non si riferisce più a un potere sociale pre-politico, bensì al possesso di capacità persuasive, e, in genere, di capacità di generare, organizzare e preservare solidarietà.
e) Il formarsi di una classe politica introduce interessi propri di natura politica. Tra questi l’interesse all’allargamento del suffragio come modo di rafforzamento del potere politico rispetto ad altri poteri sociali (oltre che come modo di controllo delle rivendicazioni popolari); e l’interesse a sollecitare la partecipazione politica e a costituire sub-culture politiche tendenti a rafforzare e preservare l’identità e la distinguibilità delle appartenenze fondate su comuni concezioni della società futura da realizzare, o almeno di condivisi programmi di attività di governo. Nasce allora la stagione della speranza politica, cioè dell’idea che con la politica si possa trasformare la società.
f) La distinguibilità di un’identità collettiva politica dall’altra diventa la condizione che rende possibile la scelta elettorale. Ma ogni identità collettiva politica si distingue anche, più o meno radicalmente, dall’identità che viene riferita alla nazione. Considerando inoltre che le distinzioni di parte politica tendono a coincidere, anche se mai completamente, con distinzioni di classe sociale, ne deriva che l’opera di nazionalizzazione della società, come premessa della identificabilità di un popolo sovrano, viene ostacolata e tende a generare conflitti. Nasce la stagione del pluralismo.
8. Lo Stato sociale. Ho indicato nella sez. 4 come la costruzione dello Stato sociale possa venir compresa come uno tra i diversi processi di nazionalizzazione della società miranti alla costruzione di un popolo unitario. Ma questa non è la sola funzione (cioè cioè non il tipo di effetti per il sistema politico) cui dar rilievo nella linea d’analisi che stiamo seguendo qui. Tratterò successivamente dei seguenti sviluppi connessi direttamente o indirettamente con la nuova attività dello Stato: a) il rafforzamento dell’esecutivo sul legislativo (sez. 9); b) il mutamento nella natura della legge, e la conseguente giudizializzazione delle decisioni politiche (sez. 10); c) la moltiplicazione delle aree d’interesse, l’organizzazione degli interessi privati differenziati e la loro penetrazione nei processi normativi (sez.11).
9. Il rafforzamento del potere del governo. Se la distinzione tra l’attività volta a produrre le norme che debbono reggere la vita sociale e l’attività di farle eseguire sembra a prima vista semplice e ovvia, la sua realizzazione pratica ha sollevato problemi sin dagli inizi dei regimi rappresentativi. Nella Gran Bretagna del Settecento alla funzione legislativa partecipavano, abbiamo visto, i diversi poteri della corona, dei Lords e dei Commons. Questo permetteva di considerare il potere legislativo, con il Parlamento nel quale esso si attuava, come potere supremo. E tale viene esplicitamente definito da Blackstone. Ma prima di lui, Bolingbroke, da un punto di vista tory, aveva avvertito come il principio di maggioranza in un Parlamento diviso in due partiti, sia nella votazione per la fiducia al Governo, sia in quelle per l’approvazione delle leggi, avrebbe finito per assimilare governo e maggioranza e quindi riprodurre dispotismo all’interno del governo parlamentare. Se la qualificazione di “dispotico” è meglio resti riservata ad altri tipi di regimi, è indubbio che la costituzione britannica è andata di più in più concentrando tutti i poteri nel Gabinetto, lasciando, alla maggioranza in Parlamento, per quanto riguarda l’attività legislativa più rilevante, meramente l’approvazione delle iniziative governative, più la gestione di quella che chiameremo la “micropolitica”; e all’opposizione una funzione di controllo e di critica, praticamente impotente.
In Francia, nel periodo rivoluzionario, l’emergenza di un “potere governativo”, concettualmente distinguibile da quello “esecutivo” (come diceva Sieyès: “le pouvoir executif est tout action, le gouvernement est tout pensée; celui-ci admet la délibération, l’autre l’exclut à tout degrés de son echelle”) si attua come rovesciamento dell’inizialmente eccessivo potere assegnato al legislativo, che non permetteva al governo neppure la facoltà di iniziativa di legge. Poichè diventava impossibile non concedergliela per i casi di emergenza o di relazioni internazionali, come i trattati, le dichiarazioni di guerra e simili, il governo, distinto dall’amministrazione, che pur ne dipende, viene posto come potere autonomo e superiore, tendente a inglobare di fatto il legislativo poichè ne controlla la maggioranza. E, da costituzione a costituzione, tra una rivoluzione e l’altra, il processo di rafforzamento è continuato. Gli altri Stati del continente europeo non hanno seguito vie diverse.
Naturalmente ho indicato in tal modo una tendenza generale, che varia da paese a paese, e che conosce eccezioni per momenti particolari.
Si noti inoltre che, soprattutto negli Stati a diritto romanistico, il governo controlla di fatto il potere giudiziario, sia attraverso le nomine alle posizioni più alte di una gerarchia che appare molto rigida, sia attraverso il ruolo di controllo sulle attività giudiziarie che viene affidato ai procuratori, gerarchicamente subordinati ai Ministri della Giustizia.
Il significato dell’accentramento dei poteri statali nel governo va ricercato: a) nell’accresciuto contenuto tecnico e burocratico delle decisioni interessanti la collettività; b) nell’intento di tenere lontani da ogni partecipazione al processo decisionale i rappresentanti delle parti sociali potenzialmente interessate al sovvertimento dell’ordine politico, o almeno di settori di esso. Il governo appare di fatto l’espressione di una classe politica oligarchica, che è parte di una classe economicamente dominante relativamente omogenea.
10. Il mutamento nella natura della legge. Nei regimi liberali classici le legislature tendevano a limitarsi a emanare leggi che potevano venire considerate conferma, o mera traduzione istituzionale, di norme pre-giuridiche, morali o di costume. Si trattava di norme, come si usava dire, che già erano “onorate in azione”, di giusta condotta, coerenti con la coscienza normativa dei membri della società e con l’aforisma romanistico “cuique suum tribuere”, quindi volte a prevenire o regolare i conflitti, a mantenere indisturbato il flusso delle aspettative reciproche nelle relazioni sociali, e con questo la pace sociale. Il diritto, cioè, non veniva considerato mezzo a qualche scopo collettivo, confermava invece semplicemente un ordine sociale il quale poggiava sulle aspettative formantisi autonomamente nella società. La normazione era scarsa e stabile, consisteva in disposizioni generali, in formulazioni astratte. Il sistema delle fonti normative era semplice, la legge di origine parlamentare era praticamente l’unica fonte che contava.
Mutamenti tecnologici, economici e sociali, e l’ampliamento, col suffragio, della società politica conducono a nuovi tipi di domande di intervento pubblico. Lo Stato allora si deve attrezzare per i più varii compiti: da quelli di alleviare la povertà, migliorare la salute della popolazione, assicurare una vecchiaia vivibile ai lavoratori, fino a proteggere i consumatori e assicurare che la concorrenza sui mercati venga mantenuta, sanzionare i contratti collettivi tra lavoratori e imprenditori, introdurre un codice della strada, e via discorrendo. Agli interventi normativi coercitivi si accompagnano gli interventi di raccomandazione (programmi e direttive indirizzati ad agenti privati ai quali si indicano obiettivi che sarebbe desiderabile conseguire)
Tutto ciò conduce a un radicale mutamento dell’ordine giuridico, dei modi della produzione di norme e della stessa natura della legge. Questa non si presenta più come statuizione generale ed astratta, bensì come strumento per programmi politici. La normazione si estende quantitativamente in maniera incontrollata e incontrollabile, perde di generalità, appare in continuo mutamento, incorpora, per l’abbondanza con cui viene prodotta e il rapido succedersi di interventi legislativi su uno stesso oggetto, norme che spesso risultano contradditorie. La legislazione è espressamente diretta al mutamento sociale. Il contenuto del dibattito parlamentare riguarda la convenienza dei programmi politici, non la giustezza delle norme generali. Come osserva della nuova natura della legge un costituzionalista italiano: “raramente questo atto giuridico viene impiegato, in conformità alla sua funzione astratta, per creare o modificare il diritto che deve regolare il rapporto tra i cittadini e l’attività dei pubblici poteri… (esso viene invece) usato per conseguire obiettivi contingenti”. Con le leggi delegate (statuizioni programmatiche, non suscettibili di immediata applicazione) avviene poi una traslazione di poteri legislativi alla Pubblica Amministrazione.
Le conseguenze di tali nuove condizioni dell’ordine normativo che interessino il nostro discorso sono soprattutto tre: a) il moltiplicarsi delle attività private che risultano in qualche modo toccate dall’intervento dello Stato, e che quindi generano convenienza ad influenzarne le decisioni; b) il mutamento nella natura dell’attività giudiziaria, con accrescimento della sua rilevanza politica e sociale, che giunge in molti ordinamenti fino al potere di controllo della costituzionalità della produzione legislativa; c) l’istituirsi di nuovi centri di decisione autoritativa (commissioni regolatrici, autorità indipendenti) che non sono responsabili di fronte al Parlamento (cioè di fronte al popolo sovrano), bensì di fronte ad organi giudiziari, e che adottano metodi decisionali di natura giudiziale.
11. Il regime di rappresentanza e pressione. Il modo migliore per definire il significato del sistematico organizzarsi degli interessi privati (intendendo naturalmente come “privati” anche gli interessi di gruppi organizzati all’interno delle pubbliche amministrazioni) è di descrivere i regimi liberal-democratici come regimi a doppio sistema di rappresentanza: da una parte i canali di rappresentanza politica (cioè territoriale), dall’altra i canali di rappresentanza degli interessi. Il regime rappresentativo sarà allora meglio denominato “regime di rappresentanza e pressione”. Del fatto ci si accorge assai presto, già dalla fine del secolo scorso, e in diversi paesi nascono dottrine corporativistiche. E in alcuni casi si tenta di dar sanzione costituzionale a questa nuova realtà creando istituzioni corporative, o addirittura regimi corporativi. Ma i tentativi di introdurre istituzioni corporative falliscono ovunque; e ciò per la ragione assai semplice che quei tentativi contraddicevano sia alla premessa di base dell’ordine sociale moderno, quella dell’uguaglianza politica formale; sia al significato proprio dell’attività di pressione, che era appunto di aggirare gli effetti di quella uguaglianza, lasciandola formalmente intatta e indiscussa, e riattribuendo per altra via un peso politico reale al potere economico privato.
Il sistema di pressione (la quale può esssere, vedremo: diretta e indiretta) reintroduce il primato dei principi del mercato (non di quello competitivo, ma di quello che opera per alleanze, aggruppamenti e combinazioni) nel funzionamento del sistema politico. Introduce quindi le risorse finanziarie come alternativa all’impegno di partecipazione volontaria per motivi ideologici, e lo scambio politico come principio di congiunzione alternativo alla solidarietà.
Della disuguaglianza politica di fatto che in tal modo si genera si possono distinguere tre componenti:
a) quella fondata sulle risorse finanziarie che permettono maggior capacità organizzativa, propagandistica, di sostegno diretto ai rappresentanti, con eventuale opera di corruzione, e in ogni caso di condizionamento dell’attività legislativa nella quale saranno impegnati;
b) quella fondata sulla capacità di exit, propria del capitale finanziario e industriale, che consiste nel provocare danno politico trasferendo capitale all’estero, o solo minacciandolo, o implicando, di farlo; questa influisce sulla politica economica nazonale dei governi;
c) quella fondata sul “potere intermedio di organizzazione”, proprio di agenti in posizione di monopolio di competenze in settori produttivi che interessano un alto numero di elettori (tipicamente servizi o distribuzione di beni essenziali), o che sono in qualche modo cruciali per il funzionamento dell’azienda paese, del quale vengono considerati responsabili i rappresentanti politici. Di questi agenti produttivi, attraverso le categorie che li organizzano, si può dire che godono di un potere di rappresentanza assai superiore al peso numerico che hanno come elettori.
12. Conseguenze dei processi sin qui descritti. Quanto rapidamente schizzato nelle pagine precedenti intendeva segnare i cammini attraverso cui si è giunti al formarsi di alcuni tratti caratteristici dei regimi contemporanei di democrazia liberale. Procederò ora così: indicherò sommariamente quelli che ritengo essere questi tratti caratteristic, e cercherò poi di rendere più esplicite le connessioni con i processi che, nell’ipotesi, ne hanno costiuito le premesse.
Gli aspetti che mi interesserà mettere in rilievo sono:
a) Il declino della centralità dei partiti politici, e la connessa caduta della partecipazine politica tradizionale; b) l’emergere di movimenti sociali o diretti a obiettivi specifici, o di natura identitaria; c) la frammentazione della rappresentanza e la conseguente diffusione di forme di decisione congiunte, cioè con la partecipazione di rappresentanti di interessi privati; d) l’emergere di un potere giudiziario di controllo.
13. Il declino dei partiti politici. I partiti politici organizzati su base permanente per tutto un territorio nazionale, o gran parte di esso, con sezioni locali attive non unicamente durante le campagne elettorali, sono stati un fenomeno temporaneo dei regimi rappresentativi. Essi appartengono a quel periodo in cui il suffragio veniva allargato, nuove masse di popolazione entravano nell’area della partecipazione politica potenziale, la sovranità poteva dirsi ancora unificata, i governi nazionali erano ancora visti come possibili agenti di trasformazione della società — il periodo che ho appunto indicato prima come quello della speranza politica, o, per certuni più arditi, ma anche più sfortunati, dell’illusione del Palazzo d’inverno. La loro forza organizzativa era spesso radicata in realtà sub-culturali, poggiava cioè su solidarietà parziali, di area geografica, di categoria socio-professionali, di comunità religiosa o linguistica. Il dissolversi di quelle solidarietà, l’evidenza della perdita di capacità riformatrici dei governi nazionali, il crescere di quella che, in alternativa alla speranza politica, potremmo chiamare speranza di mercato, hanno, senza sorpresa, provocato l’indebolimento dei partiti politici e insieme la caduta della partecipazione politica, dell’interesse per la politica, così come della fiducia nelle istituzioni.
Su questo fenomeno occorre però evitare di restare sul generico giornalistico. Alcuni indicatori del declino del ruolo dei partiti — per i quali possediamo oramai comparabili serie storiche riguardanti almeno tre decenni in Europa e in America — sono molto elequenti per tutte le situazioni nazionali, e non lasciano dubbi sulla tendenza in atto: gli iscritti diminuiscono (non in tutti i paese europei, si noti), diminuisce l’attività politica di base, diminuisce la partecipazione elettorale, cadono la fiducia nelle istituzioni, l’interesse per le vicende politiche e la stima per i membri della classe politica nel loro insieme. Altri indicatori, però, hanno significativamente segno inverso. Con l’eccezione recente di Francia e Italia, aumenta notevolmente la disponibilità finanziaria dei partiti, aumenta il personale pagato dai partiti, si rafforza la struttura organizzativa e l’autorità disciplinare delle segreterie sugli eletti. I partiti mutano quindi di natura. Non sono più agenti di socializzazone della popolazione alla politica, formatori di cultura politica, informatori e mediatori attivi tra la popolazione e il governo del paese; diventano piuttosto componenti della struttura di autorità dello Stato (da cui ricevono, si noti, in quasi tutti i paesi, finanziamenti crescenti). Svolgono per lo Stato la funzione di selezionare il personale politico; o, quando non ne curino la formazione per carriera organizzativa interna, di definirne e sanzionarne il passaggio dalle occupazioni civili a quelle politiche. Soprattutto presiedono, quali esperti liturgici, al rituale che serve a qualificare il regime democratico come diretto da personale politico scelto dal popolo tra gruppi di candidati con identità politica distinta. Curano cioè la presentazione di questo personale al pubblico e la sua distinguibilità a fini elettorali.
14. La stratificazione del coinvolgimento in politica. Da quanto ora detto, emerge una struttura del rapporto della popolazione con la politica descrivibile in quattro classi, seguendo il grado di coinvolgimento della persona:
A. Gli indifferenti o esclusi. Non votano, non seguono le vicende della vita politica, non ritengono che una qualsiasi forma di loro intervento o partecipazione, anche emotiva, nelle vicende politiche possa avere rilevanza per i loro interessi, o modifichi alcunchè. Possono essere clienti dei servizi erogati dall’organizzazione pubblica, ma senza che il loro eventuale giudizio di soddisfazione o meno si rifletta in giudizio politico. Non appartengono ad associazioni che svolgono attività anche indirettamente politica, come potrebbero essere ad esempio i sindacati. Ciò non vuol dire che la loro presenza non sia rilevante politicamente. Lavorano e contribuiscono alla produzione sociale, possono venir chiamati a difendere il paese con le armi, i loro modi di vita possono provocare problemi di rilevanza per tutta la collettività. Inoltre in circostanze eccezionali, potenzialmente di crisi, possono venir mobilitati, per proteste, o invece per acclamazioni plebiscitarie.
B. Gli spettatori. Generalmente votano, ma il loro voto non è nè di solidarietà nè è calcolato in vista di benefici da ottenere personalmente se vince questo o quel candidato, o se si realizza questo o quel programma. Parteggiano per parti politiche nel modo in cui parteggiano per squadre sportive. Ricevono le informazioni sulla situzione politica, e a volte le commentano, ma senza che ciò possa trasmettersi per qualche via a coloro che ‘fanno politica’.
C. I micro-coinvolti. Hanno interessi specifici, di lavoro o di affari, che possono venir favoriti o danneggiati da decisioni politiche, o influenzati dalla politica. Sono quindi in contatto con uomini politici, o cercano di esserlo, per scambio di favori o altre forme di solidarietà. A volte si iscrivono a un partito politico. (In altri tempi, in Italia, quando questo serviva, a più d’uno). Il loro voto è mirato a benefici che possono ricevere direttamente da questo o quel candidato o partito, o da qualche specifica misura; non da benefici che possono ricevere dalla realizzazione di un programma di governo.
D. La classe pubblica. E’ quella che popola le istituzioni, o ha a che fare con le istituzioni, per le sua attività private, ed è in grado di influenzarne le decisioni. Vi vanno inclusi quindi coloro che partecipano all’attività politica, che occupano posizioni direttive nelle organizzazoni pubbliche o parapubbliche e tutti quei privati che, per i loro interessi, o la loro autorità pubblica, hanno potere di influenzare, o contribuire ad influenzare, le decisioni degli organi dello Stato.
Benchè le classificazioni correntemente usate nelle ricerche quantitative e nei sondaggi non siano tali (pur sarebbe augurabile che lo fossero) da permetterci di fare una stima anche solo approssimata nè dell’entità quantitativa, nè della composizione sociale di queste classi di coinvolgimento, possiamo all’ingrosso avanzare l’ipotesi che le classi A e B negli ultimi decenni si siano ingrossate; e che misurando da A a D si possa trovare una correlazione, sia pur non alta, con le classi di reddito e di posizione sociale.
15. Selezione del personale politico e sua personalizzazione. Un’altra conseguenza delle tendenze ora rilevate riguarda la funzione di selezione del personale politico. Dopo l’epoca della deferenza sociale, la selezione del personale politico viene svolta o all’interno della politica quotidiana nell’organizzazione dei partiti, per cooptazione, elezione e altri processi competitivi. O all’interno dell’organizzazione statale, attraverso vari tipi di carriere. Nel primo caso i criteri di selezione si riferiscono soprattutto alla capacità di avere contatti con la popolazione, di stabilire reti di buoni rapporti, di stringere alleanze, di indurre a fiducia, in una parola, di mobilitare il consenso. Nel secondo caso i criteri sono soprattutto quelli dell’efficenza organizzativa e della competenza programmatica.
Recentemente si è andato affermando un diverso criterio di selezione, quello che si riferisce all’immagine del candidato, connesso al fenomeno della personalizzazione del leader e dell’attribuzione a questi non tanto capacità di trascinamento, o di organizzazione o competenza programmatica, quanto qualità relative alla sua vita quotidiana. Il politico di successo sembra porsi come attore scenico immacolato. Si personalizza, cioè, la figura del leader politico presentandola con qualità che, a chi lo deve scegliere, appaiono giudicabili anche sulla base di una competenza ordinaria, quotidiana. Considerando che l’attività di governo di un paese tende a essere sempre più condizionata da forze di mercato nazionale e internazionale, difficilmente un uomo politico può plausibilmente venir giudicato come responsabile dell’andamento dell’economia di una paese. E’ difficile sceverare quanto sia dipeso da lui da quanto sia dipeso da condizionamenti che erano fuori del suo controllo. A questo forte vincolamento dell’attività di governo si aggiunge la poca distinguibilità delle linee di governo seguite da partiti contrapposti, e ancor più dei programmi che le presentano agli elettori. Difficile valutazione tecnica e poca distinguibilità dei programmi e dell’azione effettiva conducono allora a rivolgersi ad altri criteri di distinguibilità che servano a scegliere il leader politico. Due persone sono ovviamente maggiormente distinguibili che non due programmi di governo. Due vite private sono ovviamente più facilmente giudicabili che due politiche economiche. Allora si presta crescente attenzione alle immagini fisiche e alle storiedi vita dei leaders politici; e trionfa quella che è stata chiamata la “politics by other means”, la politica moralistica, l’erezione, attorno alla scelte politiche, delle “scandal machines”, all’interno delle quali (composte da giornalisti, gole profonde, avvocati, procuratori, commissioni d’inchiesta) più che all’interno dei partiti, si costruiscono e distruggono i candidati, prima che questi giungano a presentari alla consacrazione elettorale. E’ come se si rispondesse a un bisogno di scegliere un leader non per la sua competenza a svolgere i compiti della carica che andrà ad occupare, bensì perchè incarna il tipo umano che si vuole caratterizzi la società desiderabile, indipendentemente dalla sua capacità di realizzarla poi effettivamente.
Si consideri come le circostanze ora descritte incidano sul tipo di uomo politico che tenderà a venir selezionato. Verranno scoraggiati tutti coloro che, pur ritenendosi competenti a svolgere bene i compiti richiesti nell’attività di governo, o politica in genere, sono vulnerabili per (passate) forme non conformistiche di vita privata. Saranno scoraggiati coloro che rifuggono dai valori tendenzialmente narcisitici e non obiettivamente fondabili dominanti nella sfera pubblica, che pur contraddicono a quei valori di serietà di impegno professionale che hanno diretto una carriera di successo. Le norme deontologiche delle professioni della società civile indicano il giudizio dei pari, o tutt’al più dei clienti, fondato sulla competenza professionale, come l’unico valido a valutare un membro della professione. L’esporsi a una visibilità extra-professionale tende a indurre a una valutazione negativa da parte dei pari, perchè solleva il sospetto di un probabile deficit di valore professionale. La visibilità, e quindi l’attivismo di scena pubblica, diventati necessari per la partecipazione alla vita politica, saranno quindi schivati come “non seri” per questa potenziale contraddizione con il giudizio dei pari, su cui si era retto l’impegno professionale che aveva condotto al successo. (Considerazione pertinente in particolar modo per le professioni accademiche, che in alcuni paesi e in alcuni periodi, diventano vivaio di uomini politici).
Le tecniche della personalizzazone valgono solo per i casi di punta dei candidati alle cariche politiche (anche se ovviamente funzionano come criterio di speranza di successo lungo tutta una carriera). La società civile, malgrado l’effetto selettivo negativo prima descritto (che opera, per sua natura, sulla qualità più che sulla quantità), continua ad alimentare il pool di candidati alla direzione dello Stato. Il fatto che costore non passano attraverso esperienze di partecipazione all’attività politica di base costitusce un’ulteriore elemento che contribuisce ad accrescere la distanza tra dirigenza politica e popolazione. In questo senso l’esperienza della campagna elettorale, che obbliga a capillari prese di contatto con i cittadini non politicizzati, con quei pur finti, ma non privi di effetti, esercizi di umiltà populistica già osservati da Tocqueville in America, dà alle procedure elettorali una funzione più sostanziosa che quella meramente rituale.
16. Sfera pubblica e soggetti collettivi. Se analizzassimo ora con cura la nozione di “sfera pubblica” e il ruolo delle attività che la costituiscono, si confermerebbe quanto appena detto sulla componente di presentazione che giuoca un ruolo centrale nella politica contemporanea. Ho discusso altrove la distinzione che fa Habermas tra “società civile” e “sfera pubblica”, e non è il caso che riprenda oggi questo tema. Dirò solo brevemente che la distinzione come la pone Habermas non è convincente. Essa tende a collocare nella società civile (diventata in tedesco “Zivilgesellschaft“, si noti, non più “Buergeliche Gesellshaft” come in Hegel e Marx –ma con descrizione vicina a quella della società civile di Gramsci — perdendo così anche la corrispondente precisione concettuale) le attività di organizzazione o degli interessi privati o delle “cause” universalistiche. Ed assume quindi che per queste attività vigano le regole della razionalità strumentale. Mentre quelle della razionalità comunicativa, orientate al telos del mutuo intendersi, regolerebbero le attività della “sfera pubblica”. Questa assumerebbe quindi una funzione di appianamento dei conflitti e di trasferimento coordinato delle rivendicazioni alla sfera delle decisioni politiche.
In risposta mi sembra occorra dire, anzitutto che, per il noto paradosso della produzione di beni pubblici, nessuna azione collettiva, sia essa volta al perseguimento di interessi privati o invece guidata da fini universalistici, può essere generata da motivazioni di tipo strumentale. Tutte le attività che si svolgono nella “società civile-sfera publica” (caratterizzate tra l’altro dall’enorme fiorire di movimenti sociali che, tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta, e non completamente sfioriti tuttora, sono apparsi sulla scena pubblica europea e delle due Americhe) vanno viste come attività di presentazione. Ciò vuol dire che la loro razionalità (se si vuol continuare ad usare questo termine) è quella della costituzione-presentazione di nuove identità collettive, generate nei punti di deficit delle identità collettive tradizionali. Da quest’ottica si può osservare che la stessa specificità della democrazia rispetto ad altri regimi, non sta tanto nella presenza di istituzioni rappresentative, quanto nel godimento di diritti che rendono possibile la continua presentazione pubblica di nuove identità collettive, la continua libertà di conversione (nel mercato, del resto, come nella sfera pubblica). Libertà, quindi, più simile a quella degli antichi, per riprendere Constant, che alla mera libertà negativa dei moderni; anche se esercitata di fronte a pubblici molteplici, non a quello unitario della polis. Libertà che si presenta come risposta a un deficit, non conquista. O questa seconda in quanto modo, o ridescrizione, della prima.
Ora, poichè il nostro tema è quello della distribuzione dei poteri, il descrivere come ho appena fatto il fenomeno della sfera pubblica conduce a indicarla luogo di passaggio dal godimento privato all’azione pubblica delle risorse sociali, individuali o collettive, materiali o simboliche, che privatamente si siano formate, o attraverso le relazioni di scambio sul mercato, o attraverso le relazioni di devozione e solidarietà della vita collettiva. O luogo, per meglio dire, il luogo dove queste risorse possono venir ricosciute pubblicamente come mobilitabili in una realtà collettiva comune. In funzione delle risorse che essi sono in grado di mobilitare, i soggetti così riconosciuti andranno ad operare nelle varie esistenti sedi dove si generano decisioni vincolanti per la collettività nel suo insieme.
Poichè non è possibile attardarsi nell’analisi delle nozioni in tal modo delineate, accennerò rapidamente a un’interpretazione storica che ne potrebbe conseguire. I cosiddetti movimenti identitari apparsi sulla scena recentemente (etnici, linguistici, territoriali, di genere e simili) non sono di natura differente da quelli conosciuti nella storia del primo secolo e mezzo di regimi democratico. Anche non volendo considerare i movimenti per l’emancipazione dei cattolici degli anni Venti dell’Ottocento; o quelli anglo-americani in favore della temperanza e numerose altre crociate morali, gli stessi movimenti operaio, o cattolico, o quello per l’allargamento del suffragio, possono anch’essi venir considerati movimenti identitari, sorti là dove in quei momenti si manifestavano particolari deficit di identità tradizionali. La decisione individuale di scegliere di militare in tale tipo di movimenti non può venir spiegata come motivata da obiettivi personali da conseguire nel breve o lungo periodo, bensì come parte di un processo di realizzazione di un’identità collettiva nuova da affermare e far riconoscere pubblicamente. Ciò che muta, rispetto a movimenti più recenti è il contenuto del riconoscimento in nome del quale ci si unisce, questo essendo funzione di punti di deficit identitario diversi.
A differenza di quanto sembrerebbe dover far derivare dalle formulazioni di Habermas, la sfera pubblica non è il luogo dove, regnando il telos dell’intendersi, i fini si negoziano e giungono a trasmettere domande ricevibili dal sistema di decisioni collettive. E’ piuttosto il luogo dove si lotta per il riconoscimento di identità collettive e per il rifiuto di concederlo.
17. La penetrazione degli interessi. Nella sez. 11, accennando al conformarsi del regime rappresentativo classico in regime di rappresentanza e pressione., ho descritto l’azione, per dir così, esterna delle organizzazioni degli interessi privati, cioè, appunto, la loro azione di pressione. Più interessante, però, e più direttamente connessa ai mutamenti nella natura dell’ordine normativo (di cui alla sez.1O) è la penetrazione degli interessi privati nelle sedi delle decisioni pubbliche. Mi riferisco a quella che è stata chiamata (Amselek, cit) la “cogestion des conduites, qui s’inscrit dans un dialogue permanent et complexe entre les gouvernants et les gouvernés eux mêmes”. Più ampiamente e spesso, infatti, lo Stato interviene e più è costretto, per ragioni di efficacia, a cercare l’accordo dei soggetti di cui intende modificare la condotta, allargando così, automaticamente, l’area di regolazione. Ciò avviene in vari modi. Intanto attraverso quel fenomeno che è stato chiamato l’eteronormatività del contratto, per il quale i contratti stipulati con le autorità pubbliche e volti a indurre i privati a determinati comportamenti, da “leggi per le parti” diventano leggi che regolano i comportamenti di tutti i soggetti che si trovano in situazioni analoghe. Per questo, tra l’altro, si è potuto dire che il governo rappresentativo si è trasformato in un processo gigantesco e confuso di contrattualizzazione tra gruppi organizzati (Dahrendorf). E i gruppi d’interesse vengono associati ai processi in cui si forma la legislazione in così numerosi altri modi (dalla partecipazione a Commissioni miste, a semplici accordi), che si sarebbe tentati di dire che è ritornata in vigore la vecchia massima del diritto medievale che recitava: “quod omnes tangit ab omnibus approbetur”.
Il latino ci conduce al punto che maggiormente giustifica il nostro titolo. Perchè infatti, il quesito che si apre qui è di determinare chi sono gli “omnes” che si vuole che ad ogni decisione approvino, ma che anche ovviamente ad ogni decisione sono altri. Non certo ogni volta l’insieme dei componenti della società nazionale, quella che attraverso i riti che conosciamo elegge i suoi rappresentanti. Nelle sedi dove si concordano tra autorità pubbliche e rappresentanti di qualche privato, pezzi vari e sconnessi, ma spesso pesanti di conseguenze, di legislazione, — la grandissima parte dei componenti del corpo politico della nazione resta ovviamente assente. Sono presenti soggetti più o meno organizzati, passati, nei migliori dei casi, attraverso i riconoscimenti della sfera pubblica; e che quindi, assieme al personale amministrativo e politico in senso proprio, sono parte di quella classe pubblica che descrivevo (classe D) nella sez. 14 di questo testo come composta da esigua minoranza. Nel sistema di rappresentanza più pressione (e penetrazione) le armi di cui sono forniti coloro che si muovono nella prima arena sembrano provenire dalle armerie che rifornivano le piazze saltuariamente rivoluzionarie dell’Ottocento; chi si muove nella seconda sa inventare ogni giorno qualche arma nuova. Parlare a questo punto di “democrazia amministrativa” (Cassese) è certo un modo realistico di fare di necessità virtù e di dipingere una nuova realtà con le vesti di un vecchio mito. Ma sarà preferibile che l’analisi realistica proceda lasciando ben nude le figure che con difficoltà si adopra a delineare.
17. Un potere recuperato. A lungo nella storia costituzionale delle democrazie liberali il cosiddetto potere giudiziario è come rimasto in un angolo ben guardato. Pur essendo alle origini il primo potere attraverso cui lo Stato moderno è entrato in contatto con le sue popolazioni (cf.le analisi di Strayer), offrendo giustizia (soluzione di conflitti privati) in cambio di consenso (e di entrate) — quando la divisione delle competenze si sistematizza, la posizione del Giudiziario, e la sua indipendenza (“il giudice a Berlino”), sono più marginali di quanto la mitologia costituzionalistica lasci apparire. Le cose naturalmente sono differenti nei tre maggiori tipi di sistemi, l’inglese, l’americano e il continentale; ma all’ingrosso si può dire che i potenziali contrasti restano ben controllati. Contribuiscono a ciò sia la forte omogeneità sociale della classe cui appartiene chi occupa le posizioni superiori nella carriera giudiziaria come in quelle politica e amministrativa; sia gli strumenti organizzativi (gerarchie, nomine, interventi attraverso la magistratura inquirente, che dipende direttamente dall’esecutivo) in mano al governo. Le cose incominciano a essere diverse quando si manifestano i fenomeni di mutamento strutturale della legislazione, cui ho accennato più sopra (nella sez.10). La soggettività interpretativa (quindi potenzialmente politica) del giudice diventa allora criterio inevitabile e inoccultabile. Non che esso fosse mai assente, anche negli ordinamenti di natura romanistica, e che mai avesse corrisposto alla realtà l’immagine del giudice “bouche de la loi”. Ma la stretta gerarchia, i controlli sull’attività dei giudici di grado inferiore, i criteri di promozione, la superiorità procedurale del “parquet” sul “siège”, permettevano di mantenere al minimo le conseguenze della soggettività. La moltiplicazione delle norme e, paradossalmente, in molti casi, la loro stessa maggior specificità, obbligano il giudice non soltanto ad interpretare il dettato della norma, ma a decidere, secondo criteri inevitabilmente soggettivi, quale norma applicare a quale caso. Quanto più la norma è specifica, infatti, tanto più lascia libero un territorio di accadimenti contigui, ci quali possono venir inclusi in questa o in quell’area definita da qualche norma, senza che vi siano strappi alla correttezza giuridica.
A tale accrescimento della discrezionalità del giudice si aggiunge, a conformare un nuovo ruolo potenzialmente politico del Giudiziario, l’accrescimento della domanda di norme, fenomeno di cui si è parlato a lungo, e su cui non mi soffermerò oltre. Era allora inevitabile quella avesse luogo quella che è stata chiamata “the global expansion of judicial power”
Ma per il discorso che stiamo facendo qui, l’aspetto di questo mutamento di posizione del Gudiziario che, a una concezione classica dei regimi rappresentativi, appare maggiormente rivoluzionario, è certamente l’introduzione, in gran parte delle costituzioni redatte dopo la seconda guerra mondiale, del potere di sindacato di costituzionalità delle leggi e di un organo supremo che lo esercita. E’ difficile stabilire con esattezza le condizioni che hanno condotto, quasi come scelta inevitabile, all’introduzione di questa figura costituzionale. Il contributo delle istituzioni rappresentative a fare cadere, tra le due guerre, più d’una democrazia liberale; l’utilità di un organo che rispondesse al bisogno di coerenza di chi doveva operare con gli strumenti di una produzione legislativa sempre più caotica e contradditoria; l’esempio del successo bisecolare della costituzione americana: tutte queste considerazioni hanno probabilmente giocato una parte. Resta il fatto che solo ritualmente oggi nel regime democratico liberale si può collocare nel parlamento e nelle istituzione rappresentative, e quindi nel “popolo” di fronte al quale esse si considerano responsabili, la sede della sovranità.
Se a tutto ciò si aggiunge la crescente importanza delle autorità indipendenti, non ritenute responsabili di fronte al popolo, bensì di fronte al giudiziario, o ad altri agenti, che o sono solo assai indirettamente collegati alla rappresentanza popolare; o addirittura sono di fatto responsabili nei confronti di agenti sopranazionali (si pensi alle Banche Centrali), non può non apparire evidente come sia compito di un pensiero politico aggiornato quello di ridescrivere e giudicare in termini nuovi un regime che solo per abitudine continuiamo a chiamare “rappresentativo”.