Cerca

La salvaguardia delle fonti e il diritto di accesso

Paola Carucci
Quaderni I/2001
SEGRETI PERSONALI E SEGRETI DI STATO.
Privacy, archivi e ricerca storica

a cura di Carlo Spagnolo
Parte I
Privacy e codice deontologico

I due temi trattati nella giornata, i documenti dei servizi segreti e la normativa sulla tutela dei dati personali nell’ambito della ricerca storica, hanno un nesso stretto con il funzionamento della democrazia. E’ innegabile che i regimi totalitari o comunque non democratici diano luogo – soprattutto attraverso l’attività dei servizi segreti e di informazione – a delle fonti insostituibili per la ricerca storica, ma questo non può essere un motivo per augurarci regimi antidemocratici. E’ evidente che in un regime democratico, dove si devono salvaguardare le libertà civili e politiche delle persone, la produzione delle fonti, la loro gestione e la selezione per la conservazione comportano la presenza di meno fonti documentarie. Premesso questo, credo che dobbiamo attenerci alla situazione concreta e cercare di vedere come si può arrivare ad applicare le norme sulla tutela dei dati personali nella maniera più favorevole possibile alla ricerca storica, ma nella salvaguardia di quei diritti che la legge si prefigge di tutelare.
In primo luogo, dobbiamo considerare che nelle leggi archivistiche di tutti i paesi, ed anche prima che intervenissero le leggi sulla tutela dei dati personali, esistevano, e continuano ad esistere, dei limiti alla consultazione dei documenti per motivi di sicurezza dello Stato, per motivi economici in certi paesi, per motivi legati alla demografia in altri o per la tutela dei dati personali, che fino a qualche tempo fa rientravano in un più generale concetto di “riservatezza”.
La ricerca di storia contemporanea in Italia è stata ampiamente possibile nell’ambito della tutela garantita dalla legge archivistica del 1963, con delle cautele che hanno consentito il più largo uso delle fonti, senza che, a distanza di tempo, le interpretazioni basate su serie archivistiche da cui alcuni documenti erano stati sottratti alla consultazione siano state ribaltate da una successiva possibilità di accesso. La novità , come ha sottolineato Rodotà , è che il concetto di riservatezza personale ha acquistato un sapore diverso che è, appunto, un esplicito richiamo ai diritti della persona e alla tutela dei dati che permettono l’identificazione o possono ledere la dignità della persona. Romanelli prima ha parlato di controparte: penso che non sia esatto. Credo che in pochi altri casi, come nell’applicazione di questa normativa, si stia verificando, da parte degli archivisti, degli storici, dei rappresentanti del Ministero dell’interno e della Commissione per l’accesso ai documenti e da parte del Garante la volontà di arrivare a trovare delle modalità di applicazione che favoriscano al massimo la ricerca storica. Direi che in questo caso non ci sono controparti, siamo tutti impegnati a favorire la ricerca storica, ma nel contempo a salvaguardare i diritti delle persone.
Va anche ricordato che la tutela della riservatezza, così come la tutela che nasce da alcune leggi sul segreto, sia per motivi di sicurezza dello Stato che per motivi di tutela dei diritti delle persone, costituisce una delle garanzie fondamentali per la conservazione delle fonti. Ove non esistessero dei limiti all’accesso immediato delle fonti, si arriverebbe a distruzioni lecite ed illecite dei documenti, assai più dannose per la ricerca storica che non il vincolo di qualche anno di differimento all’ accesso. Chi fa l’archivista, e quindi lavora nelle commissioni di sorveglianza, conosce gli archivi correnti dei Ministeri e degli uffici periferici dello Stato. Si ha così l’opportunità di vedere della documentazione di grande rilievo per la ricerca storica ma esplosiva se ammessa ad un accesso indiscriminato, ove non sia decorso un certo lasso di tempo o non si sia riusciti ad acquisire altre fonti, giudiziarie, investigative, o di altra natura, cioè un corpus di fonti che consenta, effettivamente, di studiare, in tutti gli aspetti, un determinato fenomeno storico. Come archivisti, cioè come conservatori delle memoria storica del paese, abbiamo anche il dovere di salvaguardare le acquisizioni di nuovi versamenti negli Archivi di Stato, e quindi di fare sì che i ministeri e gli uffici periferici dello Stato versino con tranquillità le loro carte negli Archivi di Stato che provvedono alla salvaguardia fisica delle fonti per la ricerca storica. Questo è un punto di grande rilevanza dal momento che, al di là di ogni normativa garantista, non è difficile fare scomparire i documenti. Atteggiamenti troppo giacobini sulla liberalità dell’accesso facilitano distruzioni indiscriminate. Quindi, saper trovare il punto di equilibrio per salvaguardare la legittimità della produzione, la conservazione, l’uso e l’accesso delle fonti è un problema delicato che si pone in tutti i paesi in cui esigenze di democrazia vogliono un’ampia trasparenza dell’azione amministrativa nel rispetto dei diritti personali e del diritto alla ricerca: è ingenuo pensare che tutta la documentazione che produce l’amministrazione possa essere immediatamente consultabile. Il punto su cui anche i ricercatori debbono riflettere è che l’esistenza di vincoli all’accesso costituisce una garanzia alla salvaguardia fisica delle fonti per la ricerca storica.
Rispetto ad altre cose che sono state dette in precedenza, è importante rilevare che la legge 675/1996 sui dati personali si rivolge essenzialmente agli archivi correnti e quindi al momento in cui i dati sensibili sono trattati dalle amministrazioni attive. E’ evidente, quindi, che vi siano previste delle restrizioni tanto più che un’altra legge, la 241 del 1990, introduce il principio della trasparenza del procedimento amministrativo e quindi l’accesso per le persone interessate a documentazione recentissima relativa ad affari in corso: questo diritto di accesso, inevitabilmente, rende più pressante l’esigenza di tutela dei dati personali dei terzi. L’esigenza di tutelare i dati personali è altresì resa più forte dallo sviluppo dell’automazione che, accanto ai vantaggi derivanti dalla possibilità di rendere più agile e funzionale l’azione amministrativa, comporta seri rischi di limitazione della libertà personale. La normativa in materia si collega a un’elaborazione di principi fondamentali svolta da organismi della Comunità europea e deriva da precisi vincoli per i paesi che ne fanno parte.
Il decreto legislativo 281/1999 si rivolge invece ai dati personali ricavabili da documenti conservati negli archivi storici, quando ormai è decorso un certo lasso di tempo dalla loro produzione. La tutela di gran parte dei dati sensibili elencati all’ art. 22 della legge 675/1996 e richiamati dal d.l. 281/1999 risulta incomprensibile per chi si occupi di ricerca storica: va rilevato però che, laddove sia rispettato il termine dei quarant’anni per i versamenti, la ricerca negli Archivi di Stato e negli archivi storici degli enti pubblici non viene limitata da quelle disposizioni. Il decreto 281/1999 infatti modifica e integra gli articoli 21 e 22 della legge archivistica, stabilendo che i dati sensibili diventano liberamente accessibili 40 anni dopo la loro data; il limite è di 70 anni se si tratta di dati relativi alla salute, alla vita sessuale e a situazioni familiari particolarmente riservate; è soppresso il precedente limite relativo ai processi penali. La possibilità di accesso ai dati viene estesa anche agli archivi privati non ancora dichiarati di notevole interesse storico. Nulla invece è innovato circa il limite di cinquant’ anni per i documenti riservati per motivi di politica interna ed estera dello Stato. Inoltre, se negli Archivi di Stato si trovano documenti di data più recente – secondo una linea politica che tende ad acquisirli, in deroga al quarantennio – è possibile ottenere l’autorizzazione al trattamento di quei dati con l’adozione di alcune cautele. Non sempre infatti, anche nella ricerca storica contemporanea, è strettamente necessario riportare il nome e cognome delle persone qualsiasi mentre, per le persone pubbliche, si determina un’affievolimento del diritto alla riservatezza. Esistono cioè dei margini entro i quali è possibile estendere l’area della consultabilità dei documenti.
Un punto importante per quanto riguarda la salvaguardia delle fonti ed anche il nostro lavoro di archivisti nel riordinarle ed inventariarle, nel costituire cioè il patrimonio di fonti da mettere a disposizione degli utenti, è rappresentato dal decreto legislativo n. 135 del 1999 che riconosce al trattamento dei dati da parte degli archivisti di Stato e degli enti pubblici un rilevante interesse pubblico. Quindi noi possiamo promuovere i versamenti, ordinare le carte, inventariarle ed arrivare al momento della comunicazione agli utenti senza chiedere l’autorizzazione delle persone cui i dati si riferiscono. Non so se risulti a tutti evidente quanto questa disposizione semplifichi la predisposizione delle fonti; al tempo stesso però, questo dà agli archivisti delle responsabilità nei confronti delle persone citate sui documenti: queste non debbono essere interpellate, ma è necessario operare delle cautele per tutelarne il diritto alla riservatezza.
Sottesa alla disciplina prevista dal decreto 281/1999, e in connessione con il decreto 135/1999, è la distinzione tra la “comunicazione” e la “diffusione” dei dati. Prima di queste norme, in sostanza, la responsabilità sull’uso congruo dei documenti recenti era tutta dell’archivista o dell’autorità che dava l’autorizzazione; salvo che per la responsabilità penale, che è sempre personale, in caso di contestazione da parte delle persone che ritenevano di essere state incongruamente citate, lo storico poteva dire di aver avuto l’autorizzazione alla consultazione di tali documenti e quindi di poterli utilizzare come voleva. Oggi sussiste una distinzione tra la comunicazione dei dati (ovvero dei documenti che contengono i dati), che è compito dell’archivista, e la loro diffusione, che chiama in causa esplicitamente la responsabilità dell’utente. Ne consegue che il fatto di essere stato autorizzato al trattamento dei dati non esime l’utente dal rispetto della legge sulla tutela dei dati personali che ne impone un uso responsabile. La legge ammette la diffusione di dati che siano pertinenti ed indispensabili alla ricerca: è ovvio che non si può fare una casistica di che cosa si possa definire pertinente ed indispensabile, anche perché queste condizioni di essenzialità e pertinenza variano in rapporto alla natura e al taglio della ricerca. E’ importante, invece, sviluppare – e qui diventa determinante il ruolo di chi insegna e forma i nuovi ricercatori – un senso di autodisciplina nell’utente. Questo è il punto chiave, innovativo ed importante, della nuova disciplina: lo sviluppo di un senso di autodisciplina dell’utente, che non è necessariamente uno storico, nell’utilizzazione dei dati a cui ha avuto la possibilità di accedere.
Rispetto agli obblighi e alle eventuali sanzioni per archivisti e utenti, è abbastanza facile individuare gli obblighi dell’ archivista. Noi abbiamo anche, nell’ambito del Consiglio internazionale degli archivi, delle raccomandazioni di comportamento, essendo riconosciuto in tutti i paesi un ruolo di mediazione degli archivisti nella gestione delle fonti storiche e quindi nella comunicazione dei documenti agli studiosi. E’ ovvio che noi dobbiamo garantire il massimo accesso alla ricerca storica, nella salvaguardia della tutela dei diritti delle persone; dobbiamo garantire parità di trattamento nel confronto degli utenti; non possiamo utilizzare per ricerche personali dati sottratti alla consultazione degli studiosi; altri eventuali obblighi possono essere individuati. Essendo appartenenti ad un settore professionale ben definito, per noi è facile prevedere anche delle sanzioni disciplinari in caso di violazione di queste prescrizioni; le stesse potrebbero valere per gli archivisti comunali e in tutti i casi in cui è prevista una specifica qualifica di archivista. Meno facile capire, per esempio, che tipo di disciplina applicare a chi gestisce archivi privati. Quindi la difficoltà di adottare eventuali sanzioni non riguarda soltanto gli utenti ma anche chi gestisce fonti archivistiche private o, comunque, non rientra in una figura professionale chiaramente qualificata. La violazione del diritto alla tutela dei dati personali da parte degli utenti può avere dei risvolti di natura civilistica che possono comportare il risarcimento del danno. E’ tuttavia necessario valutare il ruolo che le associazioni cui eventualmente aderiscano i ricercatori possono assumere in tema di sanzioni disciplinari.
I punti delicati del decreto 281/1999 sono a mio avviso due. Il primo riguarda il fatto che se l’utente viene autorizzato a consultare i documenti ed anche a diffonderne i contenuti, questo non significa che quei documenti diventino liberamente consultabili. L’autorizzazione è strettamente personale e quindi l’uso è legato alla responsabilità della persona che sia stata autorizzata; è pur vero che, a parità di condizioni, non può essere negata l’autorizzazione ad altra persona che ne faccia richiesta. Per definire la “parità di condizioni” è però necessario individuare qualche parametro che consenta una valutazione oggettiva. Noi archivisti, per esempio, stiamo cercando, anche sul modello di quanto avviene nella sala di studio dell’Archivio nazionale di Parigi e di altri importanti istituti archivistici stranieri o per le richieste di contributi al Consiglio nazionale delle ricerche, di modellare la domanda di studio in maniera più dettagliata, con una più chiara definizione del progetto e delle linee di ricerca, con l’indicazione della bibliografia principale o degli ultimi cinque anni del ricercatore, richieste che sono già presenti nei moduli di accesso alle sale di studio ma vanno configurate in maniera più chiara e vincolante.
Il secondo punto riguarda, invece, la possibilità che la persona che si senta lesa nella sua dignità dalla diffusione dei dati personali chieda, sia pure con moltissime cautele e restrizioni, il blocco dei dati. E’ veramente difficile prefigurare gli eventuali sviluppi di questa disposizione. Si tratta di una questione che chiama in causa il senso di responsabilità del ricercatore. Non so se sia chiamato in causa anche l’editore, e questo è un problema che forse dovrebbe essere chiarito, ma certamente il blocco dei dati potrebbe aprire una reazione a catena, disastrosa per la ricerca storica. Se cioè, leggendo un libro, una persona si vede citata in maniera che ritiene lesiva per la sua dignità , può chiedere il blocco dei dati e ottenere anche che quel libro esca dalla circolazione; altre persone che hanno letto quel libro, pur non trovandovisi citate, possono pensare di essere in una situazione analoga e quindi potrebbero venire nell’Archivio di Stato per vedere eventuali documenti che li riguardano e chiedere ed ottenere il blocco dei dati, con conseguente esclusione di una fonte per altri ricercatori, anche per ricercatori seri che non ne farebbero un uso incongruo. Questo è il punto su cui è sicuramente opportuno che si sviluppi il senso di responsabilità dell’utente non soltanto nei confronti dei dati sensibili che tratta ma anche nei confronti del diritto alla ricerca dei suoi colleghi. un’autodisciplina, cioè, intesa a non provocare delle restrizioni alla ricerca, che vadano a danneggiare i ricercatori più seri.
Per quanto riguarda altri aspetti previsti dalla norma, ci muoviamo nell’ambito di una tradizione consolidata: non ci sono altri punti che creino difficoltà di applicazione rispetto a quanto è sempre avvenuto nell’ambito della ricerca contemporanea. Il punto più importante è proprio questo cambiamento di sensibilità di fronte ai dati personali. Sotto questo aspetto è importante sottolineare l’utilità del lavoro che sta facendo la Commissione consultiva, istituita nel 1997 dal Ministero dell’ interno. L’avere riunito intorno ad uno stesso tavolo tutte le componenti che in qualche misura applicano delle leggi che afferiscono al problema dell’accesso ai documenti, sta avvicinando i nostri punti di vista e ci fa capire quale sia lo spirito sotteso alle diverse leggi che vengono ad incrociarsi su questo tema. Consente inoltre un’analisi comparata di tutta la casistica, che è abbastanza complessa per certi aspetti ma ripetitiva per molti altri.
Nell’ambito di questa casistica, per esempio, un dato ricorrente è che la maggior parte dei documenti per i quali si pone il problema della tutela dei dati sensibili riguarda il Ministero dell’Interno. Le serie archivistiche del Ministero dell’interno costituiscono una fonte privilegiata per la storia politica, ma si rivelano essenziali anche per tanti altri aspetti della storia. Ma le carte del Ministero dell’interno, delle questure e delle prefetture costituiscono proprio i fondi archivistici dove più alto è il rischio di dati che possono porre dei problemi, anche quando non risultino esplicitamente elencati nell’art. 22 della legge 675/1996. Il problema di indagini in atto che non arrivino a conclusione, e quindi dati su persone che sono accusate, per esempio, di far parte di associazioni sovversive, quando non sia possibile arrivare a valutare la situazione personale di ciascuno fino al proscioglimento completo o quando non sono conclusi i processi. Non dimentichiamo che stiamo entrando in un’area storica, l’ultimo trentennio, in cui gran parte dei fatti eversivi non hanno ancora trovato una definitiva soluzione giudiziaria. Presso l’Archivio centrale dello stato si trovano fonti di carattere generale che arrivano agli anni ’70-’80, quali il Gabinetto della presidenza del consiglio e il Gabinetto del Ministero dell’interno, ma non abbiamo ancora le carte del ex-Ufficio riservato del Ministero dell’interno. Se ci arrivassero queste carte ci troveremmo di fronte a problemi di delicatezza oggettiva.
Anche la questione dei dati economici, non elencati tra i dati sensibili, pone problemi di riservatezza e può essere considerata sotto diversi aspetti. La richiesta di sussidio da parte del dipendente di un ufficio è un caso diverso rispetto alla situazione patrimoniale di un imprenditore, la cui attività dall’impresa richiede trasparenza sia se ci occupiamo di archivi correnti sia, a maggior ragione, se ci occupiamo di archivi storici. Non può ignorarsi che, soprattutto nei fascicoli personali, è possibile trovare notizie sulla situazione patrimoniale, che possono essere obiettivamente delicate e ledere la dignità delle persone. Credo che se il ricercatore si ponesse sempre la 54 Segreti personali e segreti di Stato domanda: “Che effetto mi farebbe vedere pubblicata questa notizia, se riguardasse me o i miei familiari?”, troverebbe immediatamente la giusta misura per utilizzare quelle fonti per le quali ha avuto un’autorizzazione all’accesso con la condizione di cautele particolari in ordine alla diffusione. dall’altro canto, è vero che i dati sensibili non prevedono gli aspetti economici nè altre questioni che possono ledere la “dignità delle persone”, ma questa espressione è esplicitamente citata nel decreto a proposito del blocco dei dati. Esistono anche il diritto all’immagine e altri diritti che sono tutelati dal sistema giuridico del nostro paese.
In conclusione, si può rilevare che la nuova normativa allarga la possibilità di accesso alle fonti, ma richiede una più esplicita responsabilità dell’utente. E’ possibile comunicare una fonte che contenga dati sensibili anche nella sua integrità , affidando alla responsabilità dell’utente la diffusione dei dati essenziali e pertinenti alla sua specifica ricerca. Quindi – al di là delle prescrizioni e delle cautele che potranno essere definite nel codice di comportamento degli archivisti e degli utenti – resta fondamentale l’equilibrio tra un inevitabile margine di discrezionalità nella valutazione dei documenti che potranno essere comunicati e l’autodisciplina del ricercatore.