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La scoperta cattolica dell’America

Daniela Saresella

[versione provvisoria, da non citare senza autorizzazione]

Il Mondo visto dall’Italia Convegno della Sissco

Milano, Università cattolica, 19-21 settembre 2002

Il Novecento è stato definito il “secolo americano” per l’importanza che il paese d’oltre oceano ha assunto a livello mondiale; non solo il suo straordinario sviluppo economico lo ha portato alle vette della produzione mondiale di merci, ma la politica internazionale statunitense ha influenzato le sorti del pianeta, mentre l’American way of life è diventata il punto di riferimento obbligatorio per chi volesse procedere sulla strada della “modernità”. Ciò ha indotto gli storici a riflettere sul rapporto di azione e di reazione fra il “mittente” americano ed il “destinatario” italiano; tale rapporto, al di là delle riduttive definizioni spesso utilizzate di “americanismo” o “americanizzazione”, non è stato semplice e lineare ma ha implicato processi di adattamento e di selezione, e dunque di filtraggio dei valori che ci venivano proposti. La cultura cattolica italiana, che rappresenta una delle componenti essenziali della nostra tradizione nazionale e che si è sempre caratterizzata come custode di principi e modelli, è stata un elemento di importante mediazione rispetto alle sollecitazioni provenienti dal mondo americano.

Tradizionalmente gli esponenti della cultura politica italiana, consapevoli dell’arretratezza del nostro paese, hanno avuto come punto di riferimento l’esperienza delle nazioni europee più progredite, giudicate come espressione stessa della modernità; in realtà, durante il periodo liberale, gli orizzonti di costoro si limitarono per lo più all’ambito europeo se è vero, come nota la Rossini, che si accorsero degli Stati Uniti solo nel 1918, quando il mito di Wilson e dell’America si diffuse nel nostro paese sia a causa del messaggio liberal-democratico – Wilson aveva affermato che intendeva “rendere il mondo sicuro per la democrazia” -, sia per la campagna propagandista che il presidente promosse attraverso le filiali della Croce rossa americana. La Chiesa e il mondo cattolico italiano, invece, anticiparono di parecchi decenni la cultura politica italiana: così, mentre prima della grande guerra nessuno dei principali quotidiani nazionali aveva un corrispondente a tempo pieno negli Stati Uniti – cosa paradossale se si tiene conto che il paese nordamericano si stava affermando come leader economico mondiale – la rivista “Civiltà Cattolica” poteva invece utilizzare come giornalisti i gesuiti italiani che abitavano negli Stati Uniti, e avere notizie sempre aggiornate sulla situazione di quel paese.

La “scoperta dell’America” da parte del mondo cattolico italiano avvenne nell’ultimo quindicennio dell’Ottocento, quando una élite di credenti elaborò il cosiddetto “americanismo”, una tendenza religiosa destinata a influire fortemente sulla cultura della Chiesa del vecchio continente. Gorge Tyrrell, uno dei principali esponenti della successiva crisi modernista, così avrebbe descritto la riflessione dei credenti del paese d’oltre oceano:

“[…] la mente dei cattolici americani va diventando cieca e inadattabile a quella interpretazione dell’autorità che è comune ai cattolici tradizionalisti della loro Chiesa. Educati ai principi democratici, essi tendono irresistibilmente a invertire la piramide gerarchica, con ogni cura tenuta in bilico sul suo apice – il Papa – per riporla nuovamente sulla sua larga base, come cosa che poggi su fondamenti terrestri e non sembri caduta a capofitto dagli spazi aerei.

E’ questo decadere delle vecchie categorie dell’assolutismo che sta alla radice di quel movimento che è conosciuto sotto il nome di ‘americanismo’”.

Se i francesi guardarono con attenzione alle sollecitazioni che provenivano d’oltre oceano, la maggior parte dei cattolici italiani vedeva con sospetto il riconoscimento della funzione pedagogica dello stato e mostrava preoccupazione per la rivendicazione dei credenti americani di quella armonica separazione tra lo Stato e la Chiesa che si era realizzata negli Stati Uniti, e che certo non poteva piacere a chi ancora considerava “usurpatore” lo stato italiano; i credenti statunitensi, lontani dalle polemiche che avevano contraddistinto il cattolicesimo europeo nel periodo post-rivoluzionario, accettavano di fatto il liberalismo e le sue espressioni culturali e politiche, suscitando nel nostro paese talora entusiastici commenti – esemplificati dalla rivista “Rassegna Nazionale” o dal alcune prese di posizione di Romolo Murri, esponente del cattolicesimo democratico – ma soprattutto ferme riprovazioni, espresse con forza dai gesuiti italiani e dalla loro rivista “La Civiltà Cattolica”.

Gli “americanisti”, che vivevano in una società in cui le teorie di Darwin e Spencer riscuotevano grande successo e in cui si esaltava il liberalismo e la libera concorrenza, accettavano il progresso come valore, anche se ciò risultava in contrasto con le convinzioni del cattolicesimo europeo e con i dettami della Chiesa, che nel Sillabo del 1864 aveva stigmatizzato tali principi. Jhon Ireland, uno dei maggiori esponenti del cattolicesimo liberale statunitense, ribadì tali convinzioni nell’autunno del 1892, durante le manifestazioni organizzate dal governo Usa a Chicago in occasione dell’esposizione colombiana; in quella circostanza furono anche organizzati dalle autorità politiche dei convegni internazionali, dei quali significativo fu quello del “Parlamento delle religioni” pensato come momento di incontro e di confronto tra gli esponenti delle diverse religioni. Al dibattito decisero di partecipare anche importanti esponenti del cattolicesimo americano, disponibili a un confronto ecumenico che avrebbe suscitato forti riprovazioni nelle componenti più conservatrici del cattolicesimo del nostro paese. Inoltre, e la cosa preoccupò le gerarchie vaticane, alcuni credenti francesi e italiani, sollecitati da tale esempio, proposero di tenere anche in Europa, e precisamente a Parigi, un convegno analogo per avviare una discussione tra uomini di fede differente, ma l’iniziativa venne repressa sul nascere dalla Santa Sede, preoccupata che le eterodossie del cattolicesimo americano si diffondessero anche nel vecchio continente.

I prelati statunitensi, scontrandosi con i loro colleghi del Québec decisamente attestati su posizioni conservatrici in ambito sociale, avallarono anche la scelta di molti lavoratori cattolici di iscriversi al sindacato dei Knights of Labor, un’organizzazione che seppur lontana da teorie radicali, rivendicava la necessità di un sindacato di classe per la difesa dei diritti dei più deboli. Tali prese di posizione suscitarono vive reazioni nel mondo della Chiesa, impegnata in quegli anni nella elaborazione della prima enciclica sociale, la Rerum novarum (1891), che seppur portatrice di una riflessione nuova sui diritti e doveri di lavoratori e padroni, non scioglieva il nodo del ruolo del sindacato nella società contemporanea, proponendo ancora un’ipotesi corporativa che lo sviluppo industriale e i mutamenti sociali avevano reso inattuabile. Se tali sollecitazioni non furono raccolte dai cattolici liberali italiani di “Rassegna Nazionale”, preoccupati del mantenimento dell’ordine e dei propri privilegi di classe, è evidente che i messaggi furono invece recepiti dai movimenti cattolici-democratici europei; nel nostro paese fu Murri il primo a teorizzare la separazione degli interessi tra le parti sociali e a scuotere i cattolici affinché abbandonassero il mito della presunta armonia della società medioevale e accettassero le sfide e le regole del mondo contemporaneo.

Nella polemica americanista lo scontro fu essenzialmente tra il clero irlandese, attestato su posizioni per lo più liberali e sostenitore dell’unificazione linguistica della componente cattolica, e quello tedesco, più conservatore e propugnatore delle scuole parrocchiali articolate per componente etnica; quasi ignorato dagli storici risulta l’apporto alla discussione degli appartenenti alle congregazioni italiane che rappresentavano invece, seppur minoritari numericamente e per lo più giunti da poco oltre oceano, un importante canale di trasmissione delle informazioni tra il clero nordamericano e la Santa Sede. Non si può parlare per l’americanismo di un apporto teorico specificamente italiano alla discussione, ma ciò non toglie che nella prassi le congregazioni, a contatto diretto con le difficoltà materiali di una società multireligiosa, furono indotte ad affrontare problemi, quali quelli delle chiese multietniche o nazionali e dell’insegnamento nelle scuole parrocchiali, che ben si inserivano nel dibattito di quegli anni. Analogamente l’Italia non avrebbe vantato nella controversia modernista, profondamente debitrice nelle sue analisi delle riflessioni del mondo cattolico liberale statunitense, personaggi dello spessore intellettuale di Tyrrell e Loisy, ma sarebbe risultata importante per l’azione promossa da preti minori, ben documentata dagli appassionati lavori di Bedeschi e Ranchetti.

Nel nostro paese la “scoperta dell’America” a livello di massa avvenne con l’emigrazione, quando centinaia di migliaia di nostri connazionali, provenienti dalle zone più differenti del paese, abbandonarono le loro terre e le loro tradizioni per trasferirsi oltre oceano; il nuovo mondo accoglieva i diseredati del vecchio continente, dando loro una speranza di vita migliore e di riscatto sociale ma imponeva anche l’adesione ai valori e ai modelli della civiltà americana. E’ stato giustamente notato che “being American is to embrace an ideology, a set of ideas that conditions how one acts. To be an American is to be one who subscribes to a ‘republican’ ideology. […] ‘Republicanism’ in an ideology that has at its heart freedom. This freeedom can only be had through the preservation of individual liberty” . A confermare la particolarità e la superiorità della nazione americana vi erano le esaltanti prospettive e le novità politiche e sociali che si aprivano negli ultimi anni del secolo: era il periodo del “destino manifesto” e della “politica della porta aperta”, ma anche dei fermenti e delle ribellioni operaie; chiusa la fase della guerra civile, gli Stati Uniti si apprestavano a raggiungere e a superare l’Europa. Si delineava così un periodo di passaggio, caratterizzato dall’alternativa tra l’impossibile recupero del passato, che ormai aveva assunto i caratteri di un mito, e una nuova strada difficile da prefigurare e ricca di stimolanti incognite.

L’atteggiamento della Chiesa di fronte all’emigrazione cattolica in America fu di preoccupazione, perché “masse di contadini ed operai abbandonavano le zone di tradizionale e fiorente vita e cultura cristiana per insediarsi in luoghi dove le difficoltà per una regolare pratica religiosa erano enormi” e ciò sia per motivi ambientali, istituzionali e culturali. Nel 1891-1892 fu pubblicato sulla rivista dei gesuiti “Civiltà Cattolica” un romanzo a puntate in cui si raccontava l’esperienza di alcuni connazionali che, partiti per l’America in cerca di fortuna, in realtà venivano sopraffatti dalle difficoltà, e dovevano rendersi conto di quanto inconsistenti fossero le loro aspettative; il messaggio destinato ai sacerdoti che rappresentavano per lo più il pubblico della rivista, e che spesso venivano sollecitati dai parrocchiani a fornir loro aiuto per poter partire, era che l’emigrazione non era una soluzione e che il nuovo mondo non era la “terra promessa”. In realtà, tra i personaggi che nel nostro paese assunsero la figura di mediatori del mito americano perché si mostravano disponibili a leggere le lettere degli emigrati che decantavano le opportunità offerte dall’America, ci furono proprio i parroci, che a contatto con la povertà e le sofferenze della popolazione ne condividevano le aspettative di palingenesi economica e sociale.

Le varie componenti cattoliche, del resto, guardavano con sospetto all’America, nazione protestante ed evangelica, materialista e massonica, dove l’emigrante italiano rischiava di perdere la propria fede: i credenti temevano quel mondo sconosciuto, plasmato, come diceva Jules Verne, da “un popolo di armatori, mercanti e meccanici”, dove si era imposto un valore di attivismo e di iniziativa che traeva le proprie origini dalla galassia protestante e che risultava estraneo alla cultura cattolica italiana. In particolare, i contatti che i nostri connazionali avevano quotidianamente con la componente protestante, numericamente preponderante, faceva temere che oltre al pericolo dell’abbandono della fede ci fosse anche quello di diventare prede delle confessioni riformate. Era necessario, dunque, serrare le fila e riorganizzare le proprie forze perché se in Europa era terminato il periodo delle guerre e delle contese, e il continente si era ormai definitivamente diviso tra zone di influenza cattoliche e protestanti, in America il gioco era ancora aperto. Pressante risultava il bisogno di organizzare l’insegnamento religioso, e dunque di potenziare e valorizzare le gerarchie e il clero là residente, ma anche quello di garantire un’assistenza religiosa a quei cattolici, delle più diverse nazionalità e lingue, che si trasferivano oltre oceano; da qui la nascita della Società di S. Raffaele, e l’invio di vecchie e nuove congregazioni per assicurare il bisogno di conforto religioso agli emigranti. In particolare furono gli scalabriniani e le cabriniane gli ordini che maggiormente operarono in quel paese al fianco degli emigranti, e il loro impegno fu per lungo tempo l’unico aiuto che veniva loro fornito dalla madrepatria, perché abbandonati al loro destino da uno stato italiano incapace di disciplinare e di coordinare l’esodo di centinaia di migliaia di propri cittadini. Anche in questo caso il mondo cattolico italiano dimostrò il profondo rapporto che poteva vantare nei confronti di quel “paese reale” che ormai aveva fatto proprio il mito della “terra promessa”, a differenza dei politici liberali che troppo spesso si erano mostrati estranei ai valori e ai modelli delle classi popolari.

Un altro elemento essenziale che pose gli Stati Uniti al centro dell’interesse cattolico fu lo scoppio, nel 1898, della guerra ispano-americana, che rese palese la forza economica e militare della potenza d’oltre oceano. Il conflitto, poco significativo per il lettore dei quotidiani laici italiani, risultava straordinariamente importante per la Santa Sede e per il mondo cattolico, come si può ben vedere sfogliando le riviste di quel periodo e soprattutto “L’Osservatore Romano” , perché il paese iberico, uno degli ultimi baluardi del cattolicesimo in Europa, ne sarebbe uscita sconfitta e sarebbe caduta in una crisi di identità culturale. Tali novità dovevano però risultare interessanti per chi nel nostro paese era alla ricerca di un nuovo modo di concepire il rapporto tra fede e mondo moderno. Era ancora Murri a contrapporre la Spagna, “estranea quasi intieramente ai problemi, ai progressi, alle agitazioni della società contemporanea” e “sulla via di una crescente decadenza economica”, agli Stati Uniti, civiltà “giovane, vivace, audace e moderna”; gli Usa, osservava il leader del cattolicesimo democratico italiano, avevano elaborato una concezione “progressista” della religione che era “l’estremo opposto della Santa Inquisizione spagnola”. Murri dichiarava espressamente di aderire alle teorie “americaniste”, e aggiungeva:

“Qualunque possa essere la sorte delle colonie che stanno per divenire americane o meglio di coloro che le abitano, certo è che quelle terre saranno guadagnate alla produzione economica, allo sviluppo industriale, alla concorrenza e, in fine, alla vita moderna”.

Il 22 gennaio 1898 con la lettera Testem benevolentiae inviata al cardinale James Gibbons – uno degli esponenti di spicco dell’”americanismo” – Leone XIII condannava le dottrine espresse dai cattolici liberali d’oltre oceano e contestava la loro convinzione che la Chiesa cattolica per avvicinare “coloro che ne dissentivano” dovesse “acconciarsi alquanto più alla civiltà del secolo progredito, e, allentata l’antica severità, accondiscendere alle recenti teorie e alle esigenze dei popoli”. Le preoccupazioni del pontefice erano che alcune istanze di riforma religiosa che si erano affermate oltre oceano, il diffondersi di idee non ortodosse rispetto alla dottrina ufficiale, idee che avevano addirittura indotto a parlare di evoluzione dei dogmi e di immanentismo religioso, potessero diffondersi anche in Europa. In realtà, il pronunciamento di Leone XIII non conseguì grandi risultati, come dimostra l’affermarsi nel vecchio continente, e anche nel nostro paese, di riflessioni e dibattiti che avrebbero dato vita alla crisi modernista; contro tale fervore intellettuale si rese necessaria la scure di Pio X, che nel 1907 con l’enciclica Pascendi dominici gregis stigmatizzò chi intendeva mettere al passo la Chiesa e la sua dottrina con una società in rapida trasformazione, ma in realtà condannò il mondo cattolico a un torpore e a un asservimento che solo il riscatto del Concilio Vaticano II avrebbe potuto cancellare.