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La società e le strutture sociali

Mariuccia Salvati

Mariuccia Salvati (Università di Bologna)

Pubblichiamo in questa pagina il testo dell’intervento tenuto dalla prof.ssa Mariuccia Salvati all’Incontro SISSCO-AISNA: “Europa e Stati Uniti. Il difficile rapporto tra storie diverse e tra diversi paradigmi storiografici” (Bologna, 12 maggio 2000, Dipartimento di Politica, Istituzioni e Storia), ringraziando l’autrice per avercelo concesso.

(da non citare senza il consenso dell’autrice)

Diciamocelo francamente: il tema della società e delle strutture sociali proposto per questa sezione del seminario appare oggi, rispetto a dieci o vent’anni fa, decisamente démodé; l’Italia, poi, se presa come paese singolo nella più vasta Europa, non sembra particolarmente rappresentativa in questo campo dove i veri studiosi di labor history si contano sulle dita di una mano. Dunque si tratta in primo luogo di intenderci sull’argomento in oggetto: per esempio, la società. Ma come? Guardando al passato o al futuro?
Circa 25 anni fa A. Touraine scriveva in apertura del suo classico saggio su I nuovi conflitti sociali (in A. Melucci (a cura di), Movimenti di rivolta, Milano 1976): “Ogni studio che si occupi delle tendenze del presente deve scegliere tra due prospettive. O descrive la congiuntura attuale, sforzandosi di precisare la sua probabile evoluzione a breve termine, oppure parte dall’ipotesi che sotto i nostri occhi si sta formando un nuovo tipo di società, evidentemente ancora mescolato ad altri.”
Tenendo presente questo avvertimento, vale la pena di avviare la discussione prendendo sul serio il titolo del nostro seminario nel quale si ipotizza, nel confronto Europa – Stati Uniti, una stretta correlazione tra diversità dei paradigmi storiografici, cioè dei nostri strumenti di lavoro, e diversità delle storie. Se la diversità tra le storie (americana e europea) è un dato incontrovertibile, a me sembra che stabilire un rapporto esclusivo tra paradigmi storiografici e passato storico tenda a sottovalutare la relazione che i paradigmi storiografici hanno anche con l’idea di futuro. Quello su cui vorrei richiamare l’attenzione infatti è la rapidità con cui negli ultimi 10-20 anni sono cambiati i nostri criteri interpretativi come conseguenza del cambiamento radicale della nostra visione del futuro in Europa: una visione che si è venuta distaccando sempre più dalle “peculiarità” delle storie nazionali, quelle peculiarità che hanno guidato la ricerca contemporaneistica fino a pochi anni fa. Cioè a me sembra che la lamentata “lontananza” dell’americanistica dalla storia contemporanea europea (premessa da cui è partita l’idea dell’incontro) denoti in realtà un’epoca storica precisa (il ‘900) e che il recente delinearsi di un futuro fino a poco tempo fa non prevedibile aiuti a meglio periodizzare l’epoca storica che coincide con il ‘900.
Valga come esempio la pagina dei commenti di “Repubblica” del 7 maggio scorso tutta occupata da due articoli, uno di Scalfari e uno di Rodotà, apparentemente distanti per tematiche e obiettivi. Il primo si occupava infatti delle trasformazioni intervenute in Italia nel cinquantennio repubblicano, proponendo di distinguere tra una prima fase (circa 25 anni) caratterizzata da fenomeni come la fine dei contadini, il miracolo economico e la terza Italia, e una seconda fase (il secondo venticinquennio) caratterizzata invece dal declino della classe operaia e dall’affermarsi di una struttura sociale completamente nuova in cui ai valori imprenditoriali precedenti si sarebbe sostituita nel lavoro “un’enorme dose di soggettività individuale” (l’espressione è di De Rita) accompagnata dai connessi mutamenti di psicologia collettiva (propensione al consumo, rifiuto della politica, indifferenza verso la legalità, fine della solidarietà) in quella che ripetutamente Scalfari chiama non più la società ma la “folla solitaria”. L’articolo si concludeva con un ammonimento a non usare categorie politico-sociologiche di stampo antiquato (come moderati/sinistra) per una società che ne richiede di totalmente nuove: cioè a non farsi imbottigliare da anacronismi storico-sociologici nel momento in cui progettiamo un programma politico per il futuro.
E’ forse opportuno ricordare – per avvalorare tale periodizzazione – che, praticamente negli stessi anni del saggio citato, anche Touraine già parlava di “fine della società” (la società organizzata in classi), così come vent’anni più tardi avrebbe parlato di crisi/fine dello Stato nazione. E’ questo il tipo di società rispetto alla quale si è non a caso definita l'”eccezionalità” americana, fondata sul cittadino americano quale espressione compiuta dell’individualità democratica. E infatti, proprio di recente ancora Touraine constatava (Nelle società in crisi avanza il populismo, “Repubblica”, 19.4.00) l’avanzare del populismo in gran parte dei paesi europei, segno indubbio della crisi della democrazia rappresentativa, generata da una incapacità dei governi di influire sulla situazione sociale, di elaborare progetti per il futuro. Anche per Touraine la vittoria del centro/populismo nei paesi europei (anche sotto la forma apparente di sinistra) sarebbe il frutto della scomparsa della sinistra e della destra classiche: la sinistra, dominata dalle idee rivoluzionarie e dalla difesa del ruolo dello Stato in quanto attore centrale della società, è infatti rimasta indebolita dal crollo del modello sovietico, mentre nella destra le vecchie oligarchie e i nazionalisti sono stati ridimensionati dalla internazionalizzazione dell’economia; così, né i nuovi ricchi né i nuovi poveri si sentono rappresentati.
Giunti a questo punto, quali nuove categorie sembrano in grado di sostituire le vecchie?
Qualche risposta, o nuovi interrogativi, possono venire dall’accostamento che, come dicevo, casualmente “La Repubblica” proponeva sulla stessa pagina dei Commenti del 7 maggio. Accanto all’articolo di Scalfari, Rodotà ci aggiornava su un tema inserito nell’agenda della Unione Europea per il prossimo futuro, quello della Carta europea dei diritti: nel suo intervento Rodotà, dopo aver sottolineato l’importanza dell’obiettivo, in genere sottovalutato dal dibattito italiano – cioè la creazione di uno spazio comune di diritti (che tra l’altro dovrebbe aggiornare la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo del 1950 con l’inserimento dei diritti economico-sociali, e di quelli legati all’innovazione tecnologica) – metteva in guardia dai rischi connessi al peso del passato e a tre forme di conservatorismo: il conservatorismo delle nazioni, il conservatorismo giuridico, suo alleato (non a caso per entrambi la Carta europea appare come un obiettivo eccessivamente ambizioso in quanto non collegato all’esistenza di uno Stato europeo) e infine il conservatorismo sociale (che mira a riprodurre in questa sede la resistenza alla nuova “generazione dei diritti” che il costituzionalismo novecentesco ha invece integrato nelle sue “lunghe costituzioni”).
L’accostamento dei due articoli (Scalfari e Rodotà) invita a valutare la distanza tra Europa e Stati Uniti e tra le due storiografie a partire da due approcci diversi: mentre la periodizzazione del primo sottolinea la lontananza delle società europee dagli Stati Uniti nel corso del ‘900, la prospettiva del secondo enfatizza un futuro di possibili parallelismi. Il primo infatti delinea una vicenda, quella italiana, che è comparabile con altre vicende di storia nazionale dentro l’Europa del passato novecentesco; il secondo delimita un oggetto, l’Europa dei diritti, come un obiettivo da costruire e guarda alla storia dei paesi nazionali europei come a un bagaglio insieme da salvaguardare e da contenere (pensiamo alla vicenda del welfare), in una domanda di comparazione che si proietta direttamente fuori dall’Europa e oltre Atlantico. Che cosa ricavarne come stimoli per la discussione?
A me pare che la prima prospettiva storiografica, quella delle peculiarità delle società nazionali europee di tipo continentale (che è poi leggibile in parallelo con l'”eccezionalismo” americano) abbia dominato fino a qualche anno fa in connessione con la vitalità del paradigma dello Stato-nazione: di quel paradigma fanno parte nella storia europea il concetto weberiano di monopolio della violenza su un territorio delimitato, ma anche l’idea di una società dominata dall’economia e dunque la centralità dei conflitti situati nel campo del lavoro, che essendo concepiti come agenti dell’evoluzione storica chiedono, con la mediazione dei partiti politici, che questo ruolo sia svolto dallo Stato. La storia di questo paradigma – sostanzialmente caratterizzata nel corso del ‘900 dal ruolo economico dello Stato – ha varianti nazionali diverse ma trova la sua massima esemplarità nella vicenda tedesca: non a caso ancora nell’Inghilterra di inizio ‘900, la convinzione di trovarsi immersi in una lotta per una ridefinizione della gerarchia delle nazioni che stava spingendo il paese verso l’alleanza con gli Stati Uniti (e dunque verso un futuro “secolo americano” che, secondo il noto testo di Norman Angell del 1911, La grande illusione, sarebbe anche stato senza più guerre perché al servizio delle interdipendenze del mercato) si accompagnava tuttavia al dubbio che il Novecento potesse essere in realtà un secolo “tedesco”, grazie alla formidabile potenza della scienza e dell’organizzazione tedesca al servizio dei monopoli, dell’esercito e dello Stato, cioè al modello di compenetrazione tra imperialismo e territorialità (sulla contiguità tra i due modelli si vedano A. Lyttelton e L. Paggi in C. Pavone (a cura di), ‘900. I tempi della storia, Roma 1999).
E’ dunque nel confronto tra l’impianto teorico della scienza sociale tedesca e quello empirico della sociologia americana che vediamo massimamente riassunta la distanza tra “società europea” e “società americana”, poi destinata a riflettersi nella lontananza tra i diversi paradigmi storiografici. Le biografie degli scienziati sociali in fuga dal nazismo (su cui mi permetto di rinviare al mio Da Berlino a New York, recentemente riedito da B. Mondadori) sono ricche di insegnamenti al proposito, perché l’incontro tra i due paradigmi (empirismo e teoria, liberalismo e marxismo, centralità della società di massa o delle classi sociali) si pone con urgenza fin dal momento in cui gli europei provano a inserirsi nel mondo scientifico americano; anche se la loro corrispondenza privata suona in genere negli anni fra le due guerre come una conferma di quella stessa distanza culturale tra le due società, che, del resto, loro stessi avevano appreso a conoscere in patria sui testi di Weber e di Sombart (distanza che ritroviamo confermata anche nel ritratto dei tedeschi di N. Elias – I tedeschi, Bologna 1991 – così impregnato di aspetti psicologici e di costume).

Quanto alla seconda prospettiva, quella forward-looking – l’Europa dei diritti – a me sembra che essa prefiguri una possibilità di dialogo tra Europa e America che trova i suoi punti di riferimento non tanto nel superamento del marxismo e nell’accettazione del liberalismo (ciò che in linea di principio è già avvenuto da tempo, per la scomparsa dei principali protagonisti – la cosiddetta “classe generale”), quanto nella riscoperta di un comune punto di osservazione rappresentato dalla necessità di costruire una società a partire dagli individui che abitano un territorio, una società dotata di regole e quindi di principi etici.
Di qui, potremmo dire, una riscoperta dei diritti della differenza e un interesse che è andato crescendo negli anni ’90 per un dibattito apparentemente lontano come quello del cittadino “americano”, con o senza trattino (M. Walzer, Che cosa significa essere americani, Venezia 1992)). Se pensiamo in prospettiva storica a quelli che sono stati i criteri di comparazione prevalenti negli ultimi decenni, notiamo che, con il diminuire della pregnanza del concetto di classe, è venuta affermandosi la categoria di cittadinanza, categoria quest’ultima che, come si dibatteva nel recente convegno della Sissco di Padova (dicembre 1999), ha tutt’altra tradizione storica e origine filosofica rispetto alla prima, essendo appunto imperniata sull’individuo e sulla sua volontà di associarsi. A me sembra – per concludere molto schematicamente – che i movimenti che si vanno affermando in Italia e in Europa e che chiedono di essere riconosciuti nella Carta dei diritti abbiano una matrice di questo tipo (cioè la libertà da, per riprendere la classica partizione di Berlin), nel mentre la storia europea del ‘900 è stata fortemente ispirata da una proiezione sullo Stato della libertà di.
Certo non è così per tutta l’Europa. In qualche modo possiamo dire che su questa linea passa anche la divisione fra le “due” (o le “tre”) Europe, come osservava Remo Bodei (Libro della memoria e della speranza, Bologna 1993, p. 62) :
“Dopo la rottura delle dighe politiche nel 1989, siamo in presenza di due tempi storici differenti che sono confluiti senza per ora confondersi. Si potrebbe dire che l’Europa occidentale cerca la propria identità più nel presente o nel futuro che nel passato, mentre l’Europa centrale e orientale manifesta, almeno per il momento, maggior interesse a ritrovare la propria identità nella piaghe riaperte del suo passato.”

Può essere utile a questo punto lasciare alla discussione il compito di enucleare i possibili riflessi di questa prospettiva sulla storiografia: per esempio l’indagine sulle “culture”, che in maniera trasversale nei diversi paesi europei lascia intravedere nuove strade di aggregazione, passibili di tradursi in nuove norme e istituzioni sovra – e sub-nazionali: al centro dell’attenzione non sarebbero più gli strati o le classi sociali, bensì gli individui e le associazioni, individui che si spostano, che emigrano e immigrano, qualcosa di simile a quell’idea di peregrinatio che Bonazzi vede non a caso alle origini del mito americano e della sua traduzione costituzionale