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La teoria della rivoluzione tra ideologia e revisionismo

Pier Paolo Portinaro
La Collana degli Archivi di Stato
Rivoluzioni.
Una discussione di fine Novecento

a cura di D.L. Caglioti e E. Francia

1. Il concetto di rivoluzione è, come pochi altri, un concetto centrale della storiografia e del pensiero politico moderni. Nella stagione di quella che è stata chiamata «crisi della coscienza europea», in cui la disputa degli antichi e dei moderni si decide a vantaggio di questi ultimi e l’idea di progresso conquista la riflessione sulla storia, congiure, rivolte e rivoluzioni diventano un oggetto privilegiato della trattazione storica. Nell’arco poi di circa un secolo, in quella Sattelzeit teorizzata dai fondatori della Begriffsgeschichte, il concetto assurge a categoria generale dell’interpretazione storica, si disloca strategicamente, per dirla con Reinhart Koselleck, tra Erfahrungsraum ed Erwartungshorizont, diventa uno strumento dell’accelerazione del tempo storico e della globalizzazione del mutamento [1].
La storia della cosa notoriamente non coincide con la storia della parola, che a lungo conserva l’impronta della sua matrice astronomica, in base alla quale serve a designare il movimento orbitale degli astri. Soltanto dopo l’adozione del concetto da parte del lessico politico moderno esso è diventato una categoria metastorica ed è stato proiettato all’indietro su un numero prospetticamente variabile di «grandi trasformazioni». Le prime grandi rivoluzioni dell’Occidente cristiano, quella pontificia del 1075-1122 e quella luterana del 1517-1555, sono state chiamate «riforme». La rivoluzione inglese tra il 1640 e il 1688 è stata definita tale solo in relazione al suo esito, mentre alla coscienza dei contemporanei essa si è imposta soprattutto come la somma di tre «restaurazioni» [2]. Solo con le rivoluzioni americana e soprattutto francese il termine acquista l’accezione e la gamma semantica di movimento improvviso/rottura violenta/mutamento profondo che ancor oggi gli sono propri.
A monte delle grandi rivoluzioni politiche del XVIII secolo, gli sforzi di centralizzazione degli assetti istituzionali sono costellati da una storia di rivolte, ribellioni, jacqueries, per cui è lecito sostenere che buona parte dell’attività di governo dei grandi funzionari delle monarchie assolutistiche è assorbita dall’esigenza di impedire rivolte, reprimerle e cercare di evitare che si ripetano, ma al tempo stesso dalla loro strumentalizzazione strategica ai fini di congiure di palazzo [3]. A cominciare dalla fine del XVII secolo, alla letteratura sulle guerre civili, che aveva occupato ampio spazio nella pubblicistica storico-politica degli ultimi cento anni, ne subentra una sulle rivoluzioni – della repubblica romana, dell’impero, degli Stati moderni –, che arriva cronologicamente fino alla rivoluzione francese, risalendo dalle opere del padre Dorléans sulle «rivoluzioni d’Inghilterra» o di «Spagna» a quelle dell’abate de Vertot sulle «rivoluzioni di Svezia» o di «Portogallo», per arrivare ai più celebri Essai sur les Révolutions du Monde di Voltaire o Les ruines, ou méditation sur les révolutions des empires di Volney [4]. In questa letteratura, che in larga misura fatica ancora a prendere congedo da una concezione ciclica della storia, il termine sta a designare trasformazioni politiche rapide e violente.
Ma è la rivoluzione francese ad inaugurare un genere storiografico destinato ad innervarsi di generalizzazioni sociologiche e a fornire un laboratorio senza precedenti alla teoria sociologica del mutamento politico. Da Thierry a Guizot a Marx a Comte a Tocqueville a Taine si fa strada una molteplicità di modelli interpretativi che pongono in connessione trasformazioni sociali, istituzionali e culturali. Queste concezioni della storia fanno consistere la rivoluzione in un mutamento in profondità, duraturo e irreversibile, anche se originato da un movimento improvviso e violento [5]. Il concetto viene progressivamente determinandosi in virtù di quattro connotazioni principali, e cioè il carattere totalizzante del mutamento, che investe nella loro interdipendenza le diverse sfere della vita sociale, la sua rapidità, la sua violenza e infine la durata intergenerazionale dei suoi moventi oltre che dei suoi effetti [6].
Anche nella storiografia del Novecento la centralità del concetto è destinata a permanere, in relazione al proliferare delle rivoluzioni. I paradigmi interpretativi del secolo precedente vengono ridefiniti in base alle acquisizioni delle scienze sociali: è la stagione della sociologia delle rivoluzioni [7]. Rispetto alle teorie classiche della rivoluzione, non solo quella marxista ma anche quella liberale e quella positivistica, le teorie novecentesche attribuiscono un ruolo crescente al concetto di Stato e alle élites politiche ed intellettuali. Meriterebbe qui di essere presa in considerazione la stagione classica della sociologia storica: dai lavori di Reinhart Bendix e Stein Rokkan fino a quelli di Barrington Moore, Charles Tilly e Theda Skocpol prende corpo un indirizzo di ricerca che si sforza di abbandonare schemi di spiegazione monocausali e di connettere la struttura di classe con l’azione rivoluzionaria di élites a partire da un’analisi di interessi, identità, mentalità sempre particolari [8]. Bringing the State Back In è la formula con cui è stato felicemente riassunto l’intento della più recente sociologia storica di restituire, anche nella spiegazione del mutamento sociale, il dovuto peso ai soggetti statali e alla complessità delle loro articolazioni istituzionali [9].
La storiografia contemporanea ha ulteriormente dilatato il campo semantico del concetto di rivoluzione. Essa ha riconosciuto una rivoluzione all’origine del processo di edificazione delle prime organizzazioni burocratiche occidentali, quel movimento di riforma papale (gregoriana) che Harald Berman ha definito «rivoluzione pontificia» [10]. José Antonio Maravall parla, a conclusione del suo grande affresco sulle istituzioni e le mentalità politiche dell’epoca moderna, di «rivoluzione statale» [11]. Altri autori postulano una «rivoluzione nazionale» e ne sottolineano in particolare il ruolo per la nascita delle ultime generazioni di Stati europei [12]. E vi è chi ricostruisce la parabola della «rivoluzione militare», che del pari ha ridefinito l’assetto delle istituzioni politiche moderne [13]. In rapporto alla concentrazione di eventi nell’ultimo quarto del XVIII secolo e alla loro distribuzione geografica (dagli Stati Uniti attraverso Francia e Paesi Bassi fino alla Polonia) si è parlato infine di «rivoluzione occidentale» o «atlantica» [14]. Volendo tacere qui, perché il tema condurrebbe a varcare i confini di ogni ragionevole delimitazione, delle molteplici variazioni e specificazioni che ha conosciuto il tema della «rivoluzione industriale» [15].
2. Tra la «gloriosa rivoluzione» del 1688 e la rivoluzione francese del 1789 si compie il trapasso – sempre più dominato dalla fede illuministica in un mutamento politico di carattere pacifico – al moderno concetto di rivoluzione. L’approdo ad esso può essere individuato nell’opera di Condorcet, il cui celebre, ricorrentemente citato, articolo Sur les sens du mot Révolutionnaire del 1793, evidenzia il senso della svolta: il nucleo della definizione del rivolgimento in atto si è spostato dall’oggettività-ineluttabilità di un processo (ciclico), di cui gli uomini sono o vittime o passivi testimoni, alla soggettività di un fare che plasma il mondo sociale in conformità di un fine. L’attenzione non è più rivolta primariamente all’oggetto rivoluzione bensì al soggetto rivoluzionario, al demiurgo della storia. Questa svolta inaugura l’età del «titanismo» sociale, che con il romanticismo diventa altresì l’età delle rivoluzioni nazionali [16].
Dei tre caratteri della rivoluzione che più frequentemente vengono messi in evidenza dagli storici – la rottura violenta dell’ordine istituzionale, il movimento di massa e il programma ideologico di ricostruzione della società [17]–, è proprio quest’ultimo a sottolineare la modernità del concetto. Il significato di sovversione violenta è già contenuto nelle nozioni di stasis e di seditio, così come da esse è designato il contenuto sociale del mutamento, che coinvolge non solo le élites dominanti ma anche le moltitudini mobilitate al loro seguito; ciò che caratterizza le rivoluzioni moderne è invece lo stretto rapporto esistente tra l’organizzazione del movimento (élite di notabili, partito rivoluzionario) e l’ideologia che la sorregge (nella forma di una religione secolarizzata, che promette «libertà, eguaglianza e fraternità» nel tempo storico). Le discordie civili e i rivolgimenti appaiono sempre meno come accidenti all’interno di un divenire ciclico, per assumere sempre più il carattere di processi collettivamente pianificati e governati dalla volontà e dal sapere umani [18].
La genesi del concetto moderno di rivoluzione non è d’altro canto riducibile al diffondersi di concezioni artificialistiche della politica e di filosofie razionalistiche della storia. Essa risulta comprensibile piuttosto a partire da una specifica costellazione storico-istituzionale, nella quale all’interno della compagine dello stato assolutistico viene autonomizzandosi la sfera della società civile ed emancipandosi una classe sociale portatrice di nuovi modelli di condotta della vita. Al pari della dottrina giuridica della sovranità anche la teoria politica della rivoluzione costituisce il prodotto di un’epoca determinata, presupponendo quella contrapposizione di società civile e stato che viene delineandosi, nella coscienza delle minoranze politicamente attive, solo in età moderna. Secondo la logica di tale contrapposizione, il motore del progresso e dello sviluppo sociale risiede nella sfera economico-etico-civile dei rapporti interumani (la società civile appunto), mentre lo stato, in quanto prodotto della sedimentazione istituzionale di forze politiche che hanno ormai perso la loro originaria vitalità, costituisce invece un fattore di conservazione: di conseguenza per rivoluzione si deve intendere il processo di adeguamento, repentino e traumatico, dei valori e delle forme di organizzazione dello stato ai valori, agli interessi e ai bisogni della società civile [19].
Decisiva per lo sviluppo delle teorie della rivoluzione resta per questo la rivoluzione francese, che quell’articolazione oppositiva di società civile e stato tiene a battesimo ma di cui prefigura già, almeno con i suoi sviluppi più radicali, il superamento. Una silloge delle sue interpretazioni non può prescindere dall’includervi le riflessioni dei più autorevoli teorici della politica moderna. Clausewitz e Hegel, Marx e Tocqueville, Nietzsche e Schmitt, Arendt e Talmon sono soltanto alcuni fra i pensatori che in quella rivoluzione hanno individuato una chiave, se non proprio la chiave, per interpretare la logica aporetica della modernità. Se la democrazia liberale rappresenta l’esito del progetto politico moderno, il complesso svolgimento e le contraddizioni di quello specifico ma al tempo stesso paradigmatico percorso rivoluzionario ne mettono bene in luce i limiti e le intrinseche aporie [20].
Il nesso tra rivoluzione e libertà è costitutivo del resto del paradigma classico del mutamento rivoluzionario del XVIII e XIX secolo in tutto lo spazio geopolitico occidentale. Basti qui ad illustrarlo il richiamo a due testi esemplari. Nel citato discorso del 1793, Sur le sens du mot Révolutionnaire, Condorcet afferma che «la parola “rivoluzionario” non si applica che alle rivoluzioni che hanno la libertà come oggetto» [21] . In On Revolution, oltre un secolo e mezzo più tardi, Hannah Arendt vede nella rivoluzione americana il modello di una forma di agire collettivo finalizzato alla constitutio libertatis. E’ un concetto normativo di rivoluzione quello che tra questi autori compie la sua parabola. L’enfasi sull’idea di rivoluzione appartiene a quell’epoca di trasformazioni costituenti un ordine giuridico di libertà. Quale libertà? E’ la coniugazione di libertà degli antichi e libertà dei moderni che le rivoluzioni del XVIII secolo tentano di realizzare. Ma il XX secolo, che è ancora un secolo di rivoluzioni [22], porta con sé la lezione del disincanto: su qualunque scala e in qualsiasi contesto il processo rivoluzionario abbia luogo, non mette capo a quella sintesi; al contrario, esso innesta dinamiche contrastanti di anomia e tirannide, mobilitazione carismatica e burocratizzazione. La libertà è un dono la cui fruizione si consuma nello statu nascenti di un movimento rivoluzionario, cui presto subentra l’istituzionalizzazione degli apparati e la lotta per le prebende e il potere.
Il ruolo della progettazione utopica, della motivazione morale risulta, lungo tutta la stagione della modernità, decisivo per decifrare l’immaginario e le pratiche della rivoluzione. E’ l’intenzionalità del mutamento ad imprimere ad esso la sua specifica accelerazione: le generazioni rivoluzionarie hanno fretta di portare a compimento la trasformazione, per poterne godere i frutti. Ma necessità e contingenza, effetti perversi dell’azione collettiva e condensazione di circostanze sfavorevoli – si pensi al precoce sviluppo che la «teoria delle circostanze» conosce proprio all’interno della letteratura storiografica sulla rivoluzione francese, a partire da Adolphe Thiers e François Mignet [23]– finiscono per prendere la mano e per innescare processi ineluttabili che sfociano in autentiche catastrofi sociali.
Nell’arco della modernità al concetto normativo di rivoluzione si contrappone pertanto, più spesso si sovrappone, un concetto positivo, descrittivo, sociologico, di rivoluzione. Tra Condorcet e Arendt trovano la loro collocazione Comte e Tocqueville, Marx e Weber, quegli autori insomma che pensano e praticano la scienza sociale come scienza di realtà ed elaborano una teoria «realistica» della società moderna. Con le ideologie rivoluzionarie della modernità s’impone alla coscienza dei soggetti storici, e quindi passa nel lessico comune, da un lato l’equazione di potere e violenza (nel senso di strumenti di oppressione) e dall’altro un’accezione di violenza in termini di energia liberatrice di un nuovo e superiore ordine sociale dalle pastoie del vecchio regime. Così, per un pensatore rivoluzionario come Marx, la violenza è destinata a svolgere un ruolo importante, seppur secondario, nella storia: non la violenza ma le contraddizioni sociali sono per lui il motore delle trasformazioni e la causa profonda delle rivoluzioni. Lo stato è uno strumento di violenza, tuttavia il potere effettivo della classe dominante non si basa sulla violenza. Sarà il XX secolo a dare particolare risalto alla nozione, a partire dalle Riflessioni sulla violenza di Georges Sorel e da Per la critica della violenza di Walter Benjamin. In Sorel troviamo un’esaltazione della violenza, vista come mezzo della liberazione della classe lavoratrice dal dominio di un’oligarchia e contrapposta alla «forza» esercitata da quell’oligarchia. All’interno di un’analisi filosofica che ha il merito di illuminare il nesso tra diritto e violenza, anche in Benjamin questa si presenta secondo una valenza positiva: la classe operaia organizzata è per lui il solo soggetto giuridico cui spetti un diritto alla violenza che vada oltre il potere conservatore degli stati [24].
Anche il lessico della rivoluzione riproduce l’ambiguità costitutiva di tutto il lessico politico. Fin dai Nomoi di Platone si distinguono, contrappongono ma anche si sovrappongono due concezioni della politica, la prima delle quali intende il suo oggetto in termini realisticamente conflittualistici, come lotta per l’autoconservazione e l’autoaffermazione di gruppi e di identità collettive, la seconda invece in termini normativistici di integrazione e di organizzazione della convivenza degli individui. Questa dualità di significati la si ritrova ben rappresentata nell’immaginario politico delle rivoluzioni. Anzi, in questa ambivalenza è possibile individuare già una demarcazione categoriale tra rivoluzione e guerra civile. Alla base dell’agire politico dei soggetti rivoluzionari sta un’idea più ricca, articolata e complessa di politica, che tiene insieme quei due significati, giacché l’agire rivoluzionario è insieme agire strategico che si avvale del mezzo specifico della violenza per prevalere in un conflitto e agire costituente che, sulla base di un progetto, un’utopia, una visione morale, un programma normativo mira a ridefinire le regole della convivenza –di una convivenza pacifica tra liberi, eguali, solidali. La guerra civile è invece, appunto, guerra, uno scontro violento tra forze che tutto, anche la giurisdizione, subordinano a finalità strategiche e in cui la politica è intesa nell’accezione riduttiva di lotta per l’autoconservazione e l’autoaffermazione. Non è un caso, del resto, che il maggiore teorico novecentesco della guerra civile sia proprio l’autore che ha definito il criterio del politico sulla base della contrapposizione amico/nemico [25].
3. Nell’arco del XX secolo si registra indubbiamente un’ulteriore trasformazione nella teoria della rivoluzione, le cui ricadute in ambito storiografico meriterebbero di essere analizzate nel dettaglio (chi scrive non ha qui lo spazio, ma nemmeno la competenza per farlo). Si tratta del trapasso da una teoria della rivoluzione che postula il primato dell’economia ad una che sottolinea piuttosto la centralità del diritto. In anni recenti l’opera storiografica di Harold Berman ha fornito una documentazione paradigmatica di questa dislocazione tematica, ma non vi è dubbio che essa sia stata preparata, in relazione all’oggetto «rivoluzione», da una lunga stagione di revisioni storiografiche. Tutte le sei rivoluzioni che nella tradizione occidentale presentano secondo Berman i caratteri di una «trasformazione sociale globale» hanno creato «un sistema di diritto nuovo o, comunque, largamente modificato» e hanno avuto successo nella misura in cui hanno saputo «incorporare» i loro scopi in nuovo diritto [26].
Questo aspetto si connette con l’adozione di una prospettiva politocentrica nella ricostruzione dei processi rivoluzionari. L’analisi storiografica delle rivoluzioni è destinata a muoversi perennemente tra dinamiche centrifughe e dinamiche centripete: ma l’idea moderna di rivoluzione è centripeta, tematizza un evento che avviene al centro e che presuppone l’esistenza di un potere sovrano che ha portato a compimento con successo il processo di monopolizzazione degli strumenti di coercizione e di estrazione fiscale (Max Weber, Norbert Elias) ma che, per una pluralità di ragioni, è entrato in crisi di legittimità. Ciò è destinato a cambiare con l’allargarsi dell’orizzonte comparativo della ricerca nel corso del XX secolo. Come aveva già messo in luce Huntington, in un importante libro del 1968, le rivoluzioni del modello occidentale, urbane e centralizzate, il cui sviluppo procede dal centro alla periferia, si contrappongono alle rivoluzioni del modello orientale, rurali e periferiche, caratterizzate da una dinamica che vede i soggetti rivoluzionari muovere dalle periferie all’attacco di un centro relativamente organizzato e moderno, ma culturalmente estraneo alla società che dovrebbe dirigere [27].
Da una letteratura sociologica revisionistica del paradigma marxista, che pone comunque ancora al centro dell’analisi le relazioni tra classi sociali, ci si muove così in direzione di una progressiva riabilitazione delle variabili politiche. Al punto d’approdo di quest’indirizzo di ricerca possiamo collocare il volume di Charles Tilly su Le rivoluzioni europee 992-1992. La definizione che Tilly fornisce del concetto è a questo proposito emblematica: «La rivoluzione è un trasferimento forzoso del potere statale, nel corso del quale almeno due blocchi distinti di contendenti hanno pretese incompatibili di controllare lo Stato, e una parte considerevole della popolazione soggetta alla giurisdizione dello Stato appoggia le pretese di ciascun blocco» [28]. L’affermazione della centralità del politico significa per questa interpretazione almeno tre cose: a) che le rivoluzioni implicano tale trasferimento forzoso del potere statale, b) che le rivoluzioni sono condizionate da rapporti interstatali e in particolare da guerre, c) che i processi sociali influenzano le prospettive di rivoluzione attraverso la mediazione delle istituzioni e cioè modellando il rapporto tra struttura istituzionale e popolazione, determinando identità e strategie politiche degli attori principali all’interno della comunità statale e influendo sulla quantità e sulla pressione politica esercitata sulla coalizione al potere [29].
Robustamente ancorata a un modello politocentrico di tipo prettamente occidentale, questa definizione riflette però la fuoriuscita dal modello classico per quanto riguarda un’altra sua dimensione, vale a dire il ridimensionamento dell’elemento progettuale di una soggettività proiettata sull’utopia. Credo che, a questo proposito, Paolo Viola abbia ragione quando osserva che Tilly sottovaluta «l’elemento di discontinuità ideologica e morale introdotto dalla rivoluzione» [30]. Ma la ragione di questa sottovalutazione va sicuramente individuata nell’esaurirsi della capacità d’integrazione e di produzione di identità delle ideologie. Come è diventato anacronistico il concetto di potere costituente, così suona oggi inattuale il richiamo alla progettazione ideale e utopica di soggettività forti. A monte del revisionismo storiografico si colloca l’esperienza sociologica del disincanto.
Su un punto, comunque, è opportuno porre l’accento: questa transizione da una teoria normativa a una teoria positiva, storico-sociologica, della rivoluzione e, all’interno di questa, da un modello sociocentrico a un modello politocentrico avviene in un paesaggio intellettuale su cui gettano la loro lunga ombra due pensatori quali Max Weber e Carl Schmitt. E questo circoscrive lo spazio di utilizzazione del concetto di rivoluzione e lo ridefinisce. Non dobbiamo dimenticare, infatti, che Max Weber, pur non avendo scritto quella sezione di Wirtschaft und Gesellschaft che avrebbe dovuto essere dedicata alla sociologia della rivoluzione, afferma in modo perentorio che nel mondo amministrato dalla burocrazia non ci possono più essere rivoluzioni ma solo colpi di Stato [31]. Carl Schmitt, dal canto suo, convinto che la stagione storica dello Stato si sia ormai esaurita con questo secolo, sostiene la tesi che le rivoluzioni hanno lasciato il posto alle guerre civili [32]. Rivoluzione, sovranità e stato sono concetti moderni e correlati: il declino dell’uno porta con sé il declino degli altri.
4. Lo scenario contemporaneo pone alla teoria della rivoluzione sollecitazioni contrastanti. Il concetto classico includeva, come abbiamo ricordato, due connotazioni ineludibili, la profondità del cambiamento (strutturale) e la sua intrinseca violenza (congiunturale). Oggi ricorrono fenomenologie del mutamento che mancano o dell’una o dell’altra. Un teorico può pertanto essere facilmente indotto a estremizzare, individuando da un lato rivoluzione senza violenza e dall’altro violenza senza rivoluzione. Questa nuova realtà si riflette naturalmente in orientamenti teorici specificamente connotati: non è un caso che oggi godano di particolare fortuna nelle scienze sociali due opposti orientamenti, le concezioni comunicative del potere e della cittadinanza e le teorie sociologiche della violenza.
Sul primo versante, l’episodio più clamoroso è rappresentato dalle rivoluzioni del 1989, che producono la liquefazione di un sistema di potere senza ricorso alla violenza (e che possono solo molto impropriamente richiamare episodi moderni come la glorious revolution del 1688 o la «rivoluzione di velluto» dei Paesi Bassi alla fine del XVIII secolo). All’estremo opposto si registra il proliferare di guerre civili straordinariamente efferate, le cui motivazioni fondamentali sono di tipo etno- e biopolitico (dalla Somalia al Ruanda e al Burundi, dalla Bosnia al Kossovo, dalla Georgia alla Cecenia). Ma accanto a forme di conflittualità che si estrinsecano fra le rovine di una statualità mai giunta allo stadio del consolidamento, proliferano nel multietnico e multiculturale mondo contemporaneo «guerre per bande» locali, quelle che Enzensberger ha definito, in riferimento al tessuto metropolitano, «guerre civili molecolari» o che hanno spinto un sociologo poco incline agli slogan come Claus Offe a parlare di «stati di natura in miniatura» [33]: a proposito dei quali si sviluppa anche negli interstizi di società complesse e civilizzate una vera e propria «cultura del saccheggio» [34].
Se, come sostiene Tilly, in una situazione rivoluzionaria convergono tra fattori («1. comparsa di contendenti, o coalizioni di contendenti, che avanzano pretese esclusive e concorrenti al controllo dello stato, o di un suo segmento; 2. adesione a queste pretese di una parte significativa della cittadinanza; 3. incapacità o renitenza dei governanti a reprimere la coalizione alternativa e/o l’adesione alle sue pretese» [35]), l’aspetto significativo delle rivoluzioni europee dell’89 è che non è nato un contropotere, mentre si sono realizzate le altre condizioni – e non è nato perché in un regime totalitario non poteva nascere. Tali rivoluzioni, per una pluralità di ragioni, sembrano però troppo legate alla peculiarità dello scenario europeo e troppo condizionate dalla sua storia per poter essere assunte a modello ripetibile in contesti extraeuropei di trasformazione post-totalitaria. Tra gli estremi della riforma dall’alto e dell’anarchia di un mercato non regolato, del colpo di stato e della guerra civile, la rivoluzione nel senso classico sembra aver perso la sua praticabilità. Se è vero, del resto, come sostengono i teorici dei sistemi, che le società complesse non si lasciano più governare gerarchicamente a partire da un centro, consegue che anche il mutamento politico non può più essere indirizzato al e guidato dal centro.
Dall’altra parte, andrebbe dato conto dell’interesse che al tema della violenza sta dedicando da alcuni anni la ricerca storica e sociologica. Nella sua Critica della violenza Walter Benjamin poteva ancora sottolineare il ruolo fondativo della violenza nei confronti dell’ordinamento giuridico. Ora prevalgono, o vengono enfatizzate, le dinamiche centrifughe e de-costituenti, l’autoreferenzialità della violenza, l’esperienza dell’impotenza del singolo incapace di integrazione in soggetti collettivi, l’erosione delle soglie inibitorie costitutive del «processo di civilizzazione» (Elias): il nesso studiato diventa insomma «modernità e barbarie» [36]. Con questo diverso orientamento valutativo è la riflessione sul fenomeno del totalitarismo e sulle politiche del genocidio ad aver prodotto un ampia letteratura sulla violenza e ad aver sollecitato come antidoto una non meno ampia letteratura sull’azione non violenta. Non è un caso che i maggiori contributi alla definizione del concetto siano venuti da autori che, direttamente o indirettamente, hanno tematizzato le aberrazioni del potere nel nostro secolo, da Arendt a Canetti, da Foucault a Sofsky. Nel totalitarismo viene a fondersi, in quella che è stata definita violenza «totale», una pluralità di elementi: l’esaltazione della violenza degli aguzzini, l’indifferenza verso la sofferenza delle vittime e la tecnicizzazione dell’esecuzione che elimina i limiti della violenza [37]. Le ricerche sociologiche più recenti hanno poi sviluppato una vera e propria microfisica della violenza e, tematizzando la corporeità, la «nuda vita», la sofferenza fisica, colmato una lacuna della teoria che forse denota una rimozione [38].
5. Nell’ambito della teoria della rivoluzione il revisionismo storiografico non può essere ricondotto soltanto alla sostituzione del paradigma delle classi sociali con quello delle élites – sulla scia delle opere di Cobban, Taylor, Furet e Richet [39]– ma ha anche a che fare con lo slittamento dal paradigma della rivoluzione a quello della guerra civile. Su ciò s’impone qualche considerazione conclusiva. Molte sono naturalmente le ragioni di questa trasposizione concettuale. La prima ha ovviamente a che fare con il ruolo di paradigma che la rivoluzione bolscevica viene ad assumere nel XX secolo. La radicalizzazione della lotta di classe trasforma ineluttabilmente la rivoluzione in guerra civile. Per Lenin, come è noto, la rivoluzione è «guerra civile del proletariato contro la borghesia»; e da un’enfatizzazione di questa metamorfosi della rivoluzione in guerra civile prenderanno le mosse Carl Schmitt e la sua scuola. Centrale per essa è l’assunzione originariamente metafisica della morte dello stato, che col tempo si presenta supportata da fatti e tendenze e che ancora oggi ritorna con una certa insistenza non solo nel dibattito filosofico: l’altro dallo stato non è la rivoluzione ma la guerra civile [40].
In una realtà socialmente molto eterogenea e con scarso controllo del centro sulle periferie, nella quale i processi di nation-building e di state-building sono lungi dal potersi dire compiuti, rivoluzione e guerra civile convivono poi secondo modalità (e dimensioni quantitative) sconosciute a precedenti eventi rivoluzionari, rispetto ai quali episodi di guerra civile erano rimasti più limitati, marginali, periferici. Una rivoluzione può aver luogo in una società in cui i processi di nation-building e di state-building sono giunti a conclusione e si è costituito uno spazio di cittadinanza, un vincolo di comune appartenenza. Ma dove questo non è avvenuto – e va da sé che non si tratta di alternative nette, ma delle gradazioni di un continuum – la rivoluzione assume inevitabilmente i caratteri della guerra per il reciproco riconoscimento. A ragione si sottolinea da più parti che il problema della guerra civile concerne la «definizione della cittadinanza»: ma anche qui, laddove parti della società, stati, ordini si percepiscono come reciprocamente estranei è meno immediato, nell’immaginario sociale, il ricorso all’idea di guerra civile [41]. Questo, come ha ben mostrato il volume di Claudio Pavone, lo si può leggere anche nella resistenza italiana.
Un’ulteriore ragione sta nel fatto che la rivoluzione è ormai un concetto inflazionato, usurato e contaminato ideologicamente (rivoluzione «passiva», rivoluzione «legale», rivoluzione «conservatrice» sono soltanto alcune espressioni-ossimoro che hanno attraversato il lessico politico del XX secolo), di cui non è più evidente né il soggetto né la vocazione storica né la dinamica oggettiva. E’ la sindrome della post-histoire a rendere così preferibile un concetto (apparentemente) meno carico di valenze ideologiche e di polemiche storiografiche come quello di guerra civile, dilatandolo però oltre il limite dell’utilizzabilità [42]. Faccio notare che anche Hannah Arendt parla in On Revolution della seconda guerra mondiale come di «una specie di guerra civile scatenata su tutta la superficie della terra» [43]. A ciò si aggiunge un ulteriore paradosso. Il primo elemento che colpisce nel programma del revisionismo è la dichiarazione di guerra alle ideologie e a ogni loro incursione nella ricerca storica. Questo non significa però che il revisionismo sia immune da qualsiasi influenza ideologica. Significa piuttosto che è fortemente attratto dagli «ircocervi» ideologici che questo secolo ha prodotto con irresponsabile inventività: rivoluzione legale, rivoluzione conservatrice, nazionalsocialismo, nazionalbolscevismo sono concetti che hanno da sempre attratto come calamite il revisionismo storiografico, sempre alla ricerca di empiriche confutazioni della pretesa coerenza delle ideologie classiche.
Il passaggio dalla teoria della rivoluzione a quella della guerra civile non è però soltanto una conseguenza della sindrome schmittiana o post-schmittiana della post-histoire. Ha radici anche in un altro ambito, meno direttamente e univocamente connotato dal punto di vista ideologico. La teoria politica del Novecento ha tematizzato il nesso rivoluzione e totalitarismo con autori anche molto diversi tra loro, come Eric Voegelin, Jakob Talmon, Hannah Arendt, Shmuel Eisenstadt [44]. In modi diversi anche questi autori cercano di sfuggire alla presa delle ideologie e di sviluppare antidoti alle ideologie. Tutti cercano di elaborare una teoria storico-genetica del totalitarismo, in cui le rivoluzioni sono, sia pure in diversa misura, il prodotto di «religioni politiche» [45]. Come il filone della sociologia storica tende a ridimensionare il ruolo delle idee, ideologie e utopie nella configurazione dei processi rivoluzionari, qui c’è un insieme, per altro eterogeneo, di autori che è incline a considerarlo centrale, anzi ad esasperarlo. Rispetto ad autori come Voegelin e Talmon che stabiliscono una connessione diretta tra rivoluzione e totalitarismo e postulano una logica intrinsecamente totalitaria dei processi rivoluzionari, l’analisi di Hannah Arendt è notoriamente più differenziata e si muove in parziale controtendenza. Anche la teoria del totalitarismo di Arendt, integrata con altri modelli di ricostruzione storico-genetica che fanno leva sulle elaborazioni ideologiche, offre comunque ai revisionisti un pretesto che Nolte non si è lasciato sfuggire [46].
Il discorso sulle «religioni politiche» che attraversa molte diagnosi epocali a partire dagli anni trenta è un terreno di coltura per il revisionismo storiografico. E questo fondamentalmente per due ragioni: 1) consente di azzerare o di minimizzare le differenze tra i regimi «totalitari», 2) stabilisce una indiscutibile priorità del marxismo sulle altre religioni politiche del XX secolo. Come è noto, la tesi della priorità del Gulag su Auschwitz è cronologicamente incontrovertibile, ma poi problematica per chi voglia individuare una specifica derivazione storica. Più facile è invece argomentare questa derivazione e stabilire nessi causali sul piano delle ideologie. Lo studio dell’immaginario delle rivoluzioni e delle credenze rivoluzionarie [47] viene ad incontrarsi così con uno dei capisaldi del revisionismo storiografico relativo alla rivoluzione francese: la tesi, cioè, che la rivoluzione è il prodotto di una storia in larga misura immaginaria, il risultato di un’allucinazione collettiva della soggettività moderna e dunque un ingombrante ma ineludibile mito fondatore della modernità.

NOTE
1-Cfr. R. Koselleck, Futuro passato. Per una semantica dei tempi storici, Genova, Marietti 1986; K. Griewank, Il concetto di rivoluzione nell’età moderna. Origini e sviluppo, Firenze, La Nuova Italia, 1979 e la voce Revolution. Rebellion, Aufruhr, Bürgerkrieg, in Geschichtliche Grundbegriffe, V, Stuttgart, Klett-Cotta, 1984, pp. 689 e seguenti.
2- H. Berman, Diritto e rivoluzione. Le origini della tradizione giuridica occidentale, Bologna, Il Mulino, 1998, pp. 40 sgg.: restaurazione delle antiche libertà nel periodo repubblicano, della legittimità dinastica nel 1660, dell’antico parlamento nel 1688. «Il fatto distintivo delle grandi rivoluzioni della storia occidentale, a partire da quella pontificia, è rappresentato dal fatto che esse rivestono la loro visione radicalmente nuova con le spoglie di un passato remoto: dell’antica tradizione giuridica (come nel caso della Rivoluzione pontificia), o di un antico testo religioso, la Bibbia (come nella Riforma germanica), di un’antica civiltà, la Grecia classica (nel caso della Rivoluzione francese) o di una società primitiva senza classi (come nella Rivoluzione russa). In tutti questi grandi sommovimenti, l’idea di restaurazione (… ) era collegata a una concezione dinamica del futuro» (p. 127).
3- Cfr. A. Tenenti, Dalle rivolte alle rivoluzioni, Bologna, Il Mulino, 1997. Sul linguaggio politico antiassolutistico nell’età dell’assolutismo cfr. S. Mastellone, Sulla nascita di un linguaggio rivoluzionario europeo (1685-1715), in I linguaggi politici delle rivoluzioni in Europa XVII-XIX secolo, a cura di E. Pii, Firenze, Olschki, 1992, pp. 1-17.
4- Si segnalano: P.-J. Dorléans, Histoire des révolutions d’Angleterre depuis le commencement de la Monarchie (1692-94), R.A. de Vertot, Histoire des Révolutions de Suède (1696), Id., Histoire des Révolutions de la République romaine (1719), Id., Histoire des Révolutions de Portugal (1722), P.-J. Dorléans, Histoire des Révolutions d’Espagne (1734), F.M. Arouet, detto Voltaire, Essai sur les Révolutions du Monde et sur l’Histoire de l’esprit humain depuis le temps de Charlemagne jusqu’à nos jours (1740), F. J. Duport-Dutertre, Histoire des conjurations, conspirations et révolutions célèbres, tant anciennes que modernes (1754-57), S.N.H. Linguet, Histoire des Révolutions de l’Empire romain (1776), C.F. de Chasseboeuf de Volnay, Les ruines, ou méditations sur les révolutions des empires (1792). Cfr. K.-H. Bender, Revolutionen. Die Entstehung des politischen Revolutionsbegriffes in Frankreich zwischen Mittelalter und Aufklärung, München, Fink, 1977.
5- Sulla coppia movimento/mutamento per la decifrazione del processo rivoluzionario si veda in particolare N. Bobbio, La rivoluzione tra movimento e mutamento, in Teoria generale della politica, a cura di M. Bovero, Torino, Einaudi, 1999, pp. 564 e seguenti.
6- H. Berman, Diritto e rivoluzione… cit., pp. 107 e seguenti.
7- Feconda, per quanto riguarda la prima metà del secolo, soprattutto in Germania – con F. Tönnies, Zur Soziologie der politischen und wirtschaftlichen Umwälzungen. Der Gang der Revolution (1919), T. Geiger, Die Masse und ihre Aktion. Ein Beitrag zur Soziologie der Revolution (1926), C. Brinkmann, Soziologische Theorie der Revolution (1948) –, per la seconda in area anglosassone, sulla scia dei lavori di P. Sorokin, The Sociology of Revolution, (1925) e di C. Brinton, The Anatomy of Revolution (1938).
8- Cfr. almeno B. Moore jr., Le origini sociali della dittatura e della democrazia, Torino, Edizioni di Comunità, 1998 e T. Skocpol, Stati e rivoluzioni sociali, Bologna, Il Mulino, 1981.
9- Bringing the State Back In, a cura di P.B. Evans – D. Rueschemeyer – T. Skocpol, Cambridge, Cambridge University Press, 1985.
10 H. J. Berman, Diritto e rivoluzione … cit., pp. 107 e seguenti.
11- J. A. Maravall, Stato moderno e mentalità sociale, Bologna, Il Mulino, 1991.
12- S. Rokkan, Costruzione della nazione, formazione delle fratture e consolidamento della politica di massa, in Cittadini, elezioni, partiti, Bologna, Il Mulino, 1982, pp. 131-230.
13- G. Parker, The Military Revolution: Military Innovation and the Rise of the West, 1500-1800, Cambridge, Cambridge University Press, 1988.
14- J. Godechot, L’epoca delle rivoluzioni, Torino, Utet, 1969, p. 9, che con tutta evidenza riprende da Comte il concetto di rivoluzione occidentale. Ma sul carattere «occidentale» e «transnazionale» delle grandi rivoluzioni nazionali, dalla Riforma protestante alla rivoluzione puritana e alle rivoluzioni americana e francese cfr. H. Berman, Diritto e rivoluzione … cit., p.49.
15- Opportunamente S. Scamuzzi, Rivoluzione, in Il mondo contemporaneo, 9.2. Politica e società, Firenze, La Nuova Italia, 1979, p. 762, distingue tra definizione «metaforica», «aspecifica», «specifica» di rivoluzione. Nel primo senso si parla generalmente di rivoluzione neolitica, agraria, tecnologica, industriale, tecnologica e via discorrendo.
16- Cfr. I. Berlin, Il legno storto dell’umanità. Capitoli della storia delle idee, Milano, Adelphi, 1994, pp. 289 e seguenti.
17- K. Griewank, Il concetto di rivoluzione…. cit., p. 5.
18- Cfr. K. Lenk, Teorie della rivoluzione, Roma-Bari, Laterza, 1976.
19- Cfr. J.A. Goldstone – M.L. Salvadori, Rivoluzione, in Enciclopedia delle scienze sociali, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1997, VII, pp. 473-87; L’Europa moderna e l’idea di rivoluzione, a cura di C. Mongardini, Roma, Bulzoni, 1990.
20- Per una recente rivisitazione in chiave filosofica del problema V. Romitelli, Sulle origini e la fine della Rivoluzione, Bologna, Clueb, 1996.
21- Condorcet (J. A.-N. Caritat, m.is de), Sur le sens du mot Révolutionnaire, in Oeuvres de Condorcet, XII, p. 615. E «un esprit révolutionaire est un esprit propre à produire, à diriger une révolution faite en faveur de la liberté». Cfr. M.G. Bottaro Palumbo, «Sur le sens du mot révolutionaire»: usi semantici e programma politico nel vocabolario rivoluzionario di Condorcet, in I linguaggi politici delle rivoluzioni… cit., pp. 249-70.
22- H. Arendt, Sulla rivoluzione, Milano, Edizioni di Comunità, 1983, p. 10: «Anche se riuscissimo a cambiare la fisionomia di questo secolo al punto che non fosse più un secolo di guerre, resterà senza alcun dubbio un secolo di rivoluzioni».
23- Per un quadro complessivo delle interpretazioni si veda L’albero della rivoluzione. Le interpretazioni della rivoluzione francese, a cura di B. Bongiovanni – L. Guerci, Torino, Einaudi, 1989.
24- W. Benjamin, Per la critica della violenza, in Angelus Novus. Saggi e frammenti, Torino, Einaudi, 1962, pp. 5-28.
25- Cfr. C. Schmitt, Le categorie del ‘politico’, Bologna, Il Mulino, 1972. Ma anche Id., Glossarium. Aufzeichnungen der Jahre 1947-1951, Berlin, Duncker & Humblot, 1991.
26- Così H. Berman, Diritto e rivoluzione … cit., p. 44, illustra la sua tesi in riferimento alle sei rivoluzioni: «Ogni rivoluzione rappresenta il fallimento del vecchio sistema giuridico che è stato da essa sostituito o modificato radicalmente. Nel 1917 venne emanato uno dei primi decreti del governo bolscevico per dichiarare l’abolizione dell’interosistema giuridico prerivoluzionario (…). Anche la Rivoluzione francese ha rifiutato, all’inizio, il sistema legislativo, amministrativo e giudiziario dell’ancien régime. In America, una volta conquistata l’indipendenza, i democratici combatterono contro la recezione del diritto inglese da parte dei tribunali federali e statali. In Inghilterra, il Lungo Parlamento del 1640-41 abolì la corte della Star Chamber, quella della High Commission e le altre prerogative courts regie e questa legislazione fu rimessa in vigore dal parlamento di Carlo II nel 1660. Insieme alla supremazia del parlamento, una common law largamente rivisitata divenne la costituzione non scritta dell’Inghilterra. Lutero bruciò i libri del diritto canonico. Il Papa Gregorio VII denunziò le leggi imperiali e regie dalle quali la Chiesa era stata governata, leggi che permettevano l’investitura di vescovi e preti da parte delle autorità secolari, la vendita e l’acquisto delle cariche ecclesiastiche, il matrimonio degli ecclesiastici».
27- Cfr. S. P. Huntington, Ordinamento politico e mutamento sociale, Milano, Angeli, 1975, K. Kumar, Le rivoluzioni del ventesimo secolo in prospettiva storica, in Sociologia delle rivoluzioni, a cura di L. Pellicani, Napoli, Guida, 1976, pp. 45 sgg. e S.N. Eisenstadt, Revolution and the Transformation of Societies: A Comparative Study of Civilisations , New York, Free Press, 1978.
28- Ch. Tilly, Rivoluzioni europee 1492-1992, Roma-Bari, Laterza, 1993, p. 17.
29- Ibid., p. 14.
30- P. Viola, Rivoluzione e guerra civile, in Guerre fratricide. Le guerre civili in età contemporanea, a cura di G. Ranzato, Torino, Bollati Boringhieri, 1994, p. 8.
31- Per M. Weber, Economia e società, Milano, Edizioni di Comunità, 1974, II, p. 291, l’apparato burocratico di potere «rende sempre più impossibile, sia da un punto di vista puramente tecnico che mediante la sua struttura interna completamente razionalizzata, una ‘rivoluzione’ intesa nel senso di una creazione violenta di formazioni di potere assolutamente nuove; ed esso – come la Francia mostra in modo classico – ha sostituito alle ‘rivoluzioni’ i ‘colpi di Stato’, e infatti tutte le trasformazioni si sono avute in questa forma».
32- A Carl Schmitt e alla sua scuola, in particolare, si deve la fortuna del concetto di «guerra civile mondiale» nel dibattito contemporaneo: oltre al più noto Koselleck occorre qui richiamare H. Kesting, Geschichtsphilosophie und Weltbürgerkrieg. Deutungen der Geschichte von der Französischen Revolution bis zum Ost-West-Konflikts, Heidelberg, Winter, 1959 e R. Schnur, Revolution und Weltbürgerkrieg. Studien zur Ouverture nach 1789, Berlin, Duncker & Humblot, 1983 (trad. it. parziale, Rivoluzione e guerra civile, Milano, Giuffrè, 1986). Rispetto a questa letteratura la sintesi che E. Nolte ha proposto nel volumetto Gli anni della violenza. Un secolo di guerra civile ideologica e mondiale, Milano, Rizzoli, 1995 ha soltanto il sapore di una compilazione epigonale. Ma si veda naturalmente, come fondamentale banco di prova del revisionismo storiografico di Nolte, il discusso volume Nazionalsocialismo e bolscevismo. La guerra civile europea, Firenze, Sansoni, 1989.
33- Cfr. H.M. Enzensberger, Prospettive sulla guerra civile, Torino, Einaudi, 1994 e C. Offe, Moderne ‘Barbarei’: Der Naturzustand im Kleinformat?, in Modernität und Barbarei. Soziologische Zeitdiagnose am Ende des 20. Jahrhunderts, a cura di M. Miller – H.-G. Soeffner, Frankfurt a. M., Suhrkamp 1996, pp. 258 e seguenti.
34- G. Ranzato, Introduzione a Guerre fratricide … cit., p. XXII.
35- Ibid., pp. 19-20.
36- Si veda il volume, risultato di un convegno organizzato ad Amburgo dall’Institut für Sozialforschung nel 1994, Modernität und Barbarei…cit.; il fondamentale lavoro di W. Sofsky, Die Ordnung des Terrors: Das Konzentrationslager, Frankfurt a. M., Fischer, 1993 (trad. it. L’ordine del terrore: il campo di concentramento, Roma-Bari, Laterza, 1995) e Id., Saggio sulla violenza, Torino, Einaudi, 1998.
37- Cfr. H. Popitz, Fenomenologia del potere, Bologna, Il Mulino, 1990.
38- Per una panoramica di questo filone di ricerca cfr. il volume a cura di T. v. Trotha, Soziologie der Gewalt, Opladen, Westdeutscher Verlag , 1997.
39- Per una sintesi efficace si veda la voce di B. Bongiovanni, François Furet, in L’albero della rivoluzione … cit., pp. 210-215.
40- Cfr. Guerre fratricide ….cit., pp. XV seguenti.
41- Cfr. ancora P. Viola, Rivoluzione e guerra civile ….cit., p. 19.
42- Cfr. L. Niethammer, Posthistoire. Ist die Geschichte zu Ende?, Reinbek bei Hamburg, Rowohlt, 1989.
43- H. Arendt, Sulla rivoluzione … cit., p. 10.
44- Rispetto ad una letteratura molto nota mi limito qui a richiamare i lavori da noi meno noti di J. Talmon, e cioè Political Messianism. The Romantic Phase, London, Secker-Warburg, 1960 e The Myth of the Nation and the Vision of Revolution. The Origins of Ideological Polarization in the Twentieth Century, London, Secker-Warburg, 1967, e il più recente S.N. Eisenstadt, Fondamentalismo e modernità, Bari-Roma, Laterza, 1994.
45- Cfr. S. Forti, Totalitarismo, in Enciclopedia delle scienze sociali, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1998, VIII, pp. 636-49.
46- E. Nolte, Die historisch-genetische Version der Totalitarismustheorie: Ärgernis oder Einsicht?, in «Zeitschrift für Politik», 1996 (di cui esiste una trad. it. in AA. VV., Revisionismo e revisionismi, Genova, Graphos, 1996, pp. 23-37). Cfr. anche Id., Geschichtsdenken im 20. Jahrhundert. Von Max Weber bis Hans Jonas, Berlin-Frankfurt a. M, Propyläen, 1991, pp. 428 e seguenti.
47- Cfr. J. Billington, Con il fuoco nella mente: le origini della fede rivoluzionaria, Bologna, Il Mulino, 1986.