Cerca

Le rivoluzioni francesi e la mobilitazione nazionale

Paolo Viola
La Collana degli Archivi di Stato
Rivoluzioni.
Una discussione di fine Novecento

a cura di D.L. Caglioti e E. Francia

1. Per capire la rivoluzione nell’età contemporanea, si parte inevitabilmente dall’esperienza francese. Prima del 1789 la parola «rivoluzione» era già usata per i fenomeni politico-sociali, ma in maniera ancora incerta, e solo da qualche decennio. Il suo significato non si era quindi consolidato. Era corrente un uso al plurale: «le rivoluzioni», che designavano le fasi di prevalere del mutamento sulla stabilità, o piuttosto presentavano la storia dei diversi paesi dal punto di vista della trasformazione costituzionale per salti anziché per accumulo istituzionale progressivo.
Solo con la rivoluzione francese si perde definitivamente il valore ereditato dalla metafora astronomica, di ciclico ritorno ad una libertà perduta, e si consolida invece quello antitetico: di rivolgimento radicale, che sovverte dalla base gli equilibri politici, costituzionali, sociali, culturali, per indirizzarli ad un fine ideale completamente nuovo; un rivolgimento che qualcuno – un gruppo dirigente politico e culturale – prepara, o almeno s’incarica di portare a termine. Il plurale delle rivoluzioni che sempre ricominciano sembrava così lasciare il posto ad un singolare fondatore di un percorso totalmente nuovo [1].
Ma un altro plurale, delle diverse componenti del fenomeno rivoluzionario, tornava a presentarsi. L’episodio esemplare dell’irruzione della progettualità razionale nella politica, uno dei momenti da allora più utilizzati a fini pubblici, considerato l’evento fondatore dei valori da imitare, o da recuperare, o da rigettare; paradigma del significato universale della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, della distinzione fra sinistra e destra, poneva un termine alle rivoluzioni che sempre ritornano, ma apriva uno spazio alla pluralità delle diverse sue anime. Il continuo uso politico ha portato, infatti, la rivoluzione francese ad essere pensata in varie maniere, secondo i momenti: come unica, e difesa o rigettata in blocco, o viceversa suddivisa in due o più rivoluzioni diverse, per salvarne una parte, senza farsi carico dell’eredità di altre parti. Nelle pagine che seguono mi sforzerò di discutere questa dialettica tra unicità e pluralità della rivoluzione francese, il suo essere una sola rivoluzione, o due, o tre; inoltre più o meno inscindibili, o invece distinguibili, e riutilizzabili come modello in tutto o in parte. Ritengo che da questa dialettica derivi una parte della longevità della rivoluzione francese stessa, che solo due secoli dopo il suo scoppio poteva, da Furet, essere dichiarata terminata [2], e non è detto che poi lo sia. Distinguerò due grandi stagioni: l’Ottocento liberale e il Novecento marxista, in entrambe le quali la rivoluzione francese è stata pensata come articolata nei fenomeni rivoluzionari diversi dell’Ottantanove e del Novantatré. Uno solo di questi due fenomeni – ma non il medesimo!- è stato di volta in volta ritenuto quello veramente valido come punto di riferimento: la rivoluzione dell’Ottantanove dai liberali ottocenteschi, e quella giacobina dai comunisti del ventesimo secolo. Fra i due diversi momenti di sdoppiamento della rivoluzione francese, indicherò una fase di riunificazione in chiave nazionalista di tutto l’evento rivoluzionario. Infine proporrò un’altra distinzione, più tematica che periodica, la quale mi sembra ricca d’implicazioni relative al Ventesimo secolo: tra rivoluzione della libertà, dell’uguaglianza, della fraternità.
2. Nell’Ottocento il pensiero liberale ha diviso una rivoluzione buona, della società civile, da un’altra cattiva, della folle progettualità politica. Nel Novecento il pensiero marxista ha di nuovo pensato due rivoluzioni (o addirittura tre, se si include la prerivoluzione aristocratica): una borghese matura e un’altra che anticipa la rivoluzione proletaria; la prima buona e utile per far nascere un capitalismo sano, la seconda ancora migliore, pur nell’anacronismo, perché capace di prefigurare il comunismo [3]. Fra queste due diverse scomposizioni, nell’ultimo quarto del diciannovesimo secolo e nel primo del ventesimo, ci si è ricollegati ad un elemento importante del giacobinismo, relativamente sottovalutato da entrambe le ricostruzioni, liberale e marxista: il paradigma della difesa patriottica, della fraternità nazionale, capace di unificare la rivoluzione in un solo blocco. In Francia questa è l’epoca della Terza repubblica, quando si consolida definitivamente la triade libertà, uguaglianza, fraternità. Propongo quindi la rivoluzione della fraternità come alternativa riunificatrice della rivoluzione francese in chiave patriottica, invece della scomposizione fra rivoluzione della libertà e dell’uguaglianza.
Anche fuori dell’Europa, nello steso periodo a cavallo tra i due secoli, cresce l’identificazione fra rivoluzione nazionale (che propongo di mettere in rapporto con la fraternità) e democratica (della libertà), cioè fra due modi rivoluzionari di rappresentare quanto emerge insieme da due quasi sinonimi, che indicano i processi spontanei di aggregazione: la nazione e la società civile. Oppure si afferma l’identità della rivoluzione nazionale con la rivendicazione egualitaria, eventualmente socialista, governata dalla politica. L’una o l’altra, o entrambe, delle due anime della rivoluzione francese, liberale, o della società civile, ed egualitaria, o dello stato, si sono così rivelate utilizzabili dalla rivoluzione nazionale. Con la ricomposizione in una chiave nazionalista, la rivoluzione francese ha riconsegnato al Novecento una sua vitalità, che avrebbe potuto altrimenti deperire. Se della rivoluzione francese fosse rimasta soltanto la lettura borghese-liberale-costituente dello sviluppo delle forze sociali, oppure solo quella giacobina-statalista della rigenerazione egualitaria in presenza di risorse scarse, la sua universalità avrebbe verosimilmente subito una limitazione. Invece, poiché le regole democratiche e lo sforzo politico dirigista sono stati inquadrati nella necessità della guerra patriottica, il messaggio di fraternità ha potuto investire le comunità nazionali oppresse e superare il traguardo del primo e forse del secondo secolo di longevità del suo messaggio.
Naturalmente la parola fraternità è abbastanza generica da prestarsi a molte interpretazioni. Chi sono i soggetti fra i quali si invoca la solidità del vincolo fraterno? La fraternità ha potuto intendersi come il rapporto solidaristico interno al mondo del lavoro, come in generale dal movimento operaio nascente, e del resto in linea con un’antica tradizione associativa di fratellanze e confraternite: un legame che unisce alcuni contro altri, all’interno della stessa comunità nazionale. Avrebbe anche potuto essere una versione laica del legame cristiano tra i figli dello stesso Dio, come i cattolici democratici lo intendevano, soprattutto intorno alla rivoluzione del Quarantotto. Invece, con la ventata rivoluzionaria nazionalista, la fraternità ha legato i popoli al di sopra dei conflitti di classe, ma al di fuori della fratellanza universale, privilegiando le appartenenze definite nazionali, che avevano il vantaggio di potersi identificare con progetti di costruzione statale.
Le rivoluzioni della prima metà del Ventesimo secolo sono state democratiche-nazionali, o socialiste più o meno attente al problema delle nazionalità. In ogni caso raramente hanno potuto ignorare il problema nazionale. Nella versione cinese la rivoluzione è stata ininterrotta e per tappe: nazionale, democratica e socialista, e nel Terzo mondo questa visione unitaria e per tappe della rivoluzione ha avuto un enorme successo. In questo modo la rivoluzione francese ha potuto conoscere una nuova vitalità implicita, piuttosto diversa dai contemporanei risultati della ricerca storica, legati alla lettura marxista della rivoluzione borghese. Nessuna delle rivoluzioni più importanti del Novecento, prima di quella islamica iraniana, ha potuto avere successo o in ogni modo influire durevolmente nel panorama culturale e politico, se non è stata democratica e nazionale insieme, o sociale e nazionale, o tutte e tre. E il problema più grave del primo dopoguerra italiano, e quindi dell’invenzione del fascismo, potrebbe essere stato quello di non aver potuto coordinare i tre movimenti rivoluzionari attivi e contemporanei, della libertà, dell’uguaglianza e della fraternità.
3. La rivoluzione dell’Ottantanove ha reso compatibili, anzi ha intimamente legato tra loro, la libertà e l’uguaglianza, che nell’antico regime erano quasi il contrario l’una dell’altra. La libertà era stata il diritto che ogni comunità aveva di difendere le proprie prerogative tradizionali; era sinonimo di privilegio: uno statuto particolare concesso e difeso a conclusione di una lunga storia contrattuale; era prerogativa aristocratica, di quella sanior pars, che si incaricava di proteggere la propria comunità. L’uguaglianza era stata invece il contrario, una prerogativa del dispotismo: l’annullamento delle storie individuali delle varie parti che componevano il paese, la fine dei privilegi, delle (al plurale) libertà. La grande invenzione teorica dell’Ottantanove era stata l’identificazione di libertà e di uguaglianza: «Gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti». Di fraternità non si parlava ancora.
All’inizio del 1793, prima dell’avvento del calendario repubblicano, i documenti politici cominciano ad essere datati «anno quarto della libertà, primo dell’uguaglianza». Si parla anche correntemente a quell’epoca di una seconda rivoluzione dell’uguaglianza (10 agosto 1792) dopo quella della libertà (14 luglio 1789). A quel momento la triade repubblicana non è ancora stata formulata. Lo sarà probabilmente negli ambienti del comune di Parigi fra il sindaco Pache e il Procuratore generale sindaco Chaumette nel corso del 1793. Riceverà una conferma decisiva dalla rivoluzione del Quarantotto, ma sarà stabilizzata definitivamente (o quasi, se si vuol tenere conto dell’intervallo di Vichy) solo dalla Terza repubblica. Nella primavera del 1793 si scrive invece «libertà, uguaglianza, unità indivisibilità della Repubblica», e spesso si aggiunge «o la morte».
Ritengo che questo sia un elemento interessante per interpretare il concetto di fraternità, che poi prevale nella triade repubblicana: non la fratellanza degli oppressi nella confrontazione sociale legata al mondo del lavoro, ma il rapporto tra fratelli che hanno fatto la rivoluzione, fra complici dello strappo insanabile, i quali non devono essere divisi, come invece i controrivoluzionari vorrebbero. Nel primo caso, della fratellanza tra gli oppressi, il termine sarebbe usato come esplicitazione e mero rafforzativo dell’uguaglianza. Invece il nuovo elemento della fraternità è introdotto dopo il trauma della condanna del Re. E’ allora che la rivoluzione piomba per così dire nel vuoto, che la strada per tornare indietro è preclusa. Nei giorni del processo del re, la sinistra giacobina e cordigliera ha chiesto che i deputati siano costretti a pronunciarsi per la morte del tiranno, per tagliarsi definitivamente la possibilità di riconciliarsi con i nemici della rivoluzione. Nella Francia di antico regime la volontà sovrana era unica, quella del re. Con la rivoluzione, al sovrano viene sostituita la nazione come motore immobile della politica [4]. Ma la volontà della nazione, proprio come quella del re, deve rimanere una sola, e tutti quelli che vogliono dividere il popolo, articolare le opinioni politiche del sovrano, provocano illegittime divisioni. Dopo il regicidio, a maggior ragione l’unità deve essere garantita: l’unità dei fratelli che insieme hanno assassinato il padre, come nel mito freudiano di Totem e Tabù [5].
L’angoscia per la perdita dell’unità non è conseguenza della guerra civile vandeana o federalista. La precede, e perfino potrebbe essere considerata una delle sue cause. La guerra civile è attesa, e i giacobini ritengono da tempo che i loro avversari la stiano preparando; così, quando scoppia, è interpretata come la logica conseguenza dell’azione dei controrivoluzionari. D’altra parte, dopo la vittoria nelle guerre civili, alla fine del 1793, si è parlato della vittoria della rivoluzione, non di una terza rivoluzione. Si è cominciato in quei mesi a usare il calendario rivoluzionario, datando «anno secondo». L’era rivoluzionaria era cominciata insomma dall’istituzione della repubblica, conseguenza della seconda rivoluzione, quella dell’uguaglianza. L’Ottantanove, la rivoluzione della libertà, era visto in un certo senso come un prologo della rivoluzione, e la rivoluzione vera e propria, quella dalla quale si cominciava a contare il tempo nuovo, era il Novantadue, cioè la rivoluzione dell’uguaglianza. Quanto alla fraternità, progressivamente la nuova dizione andava sostituendo la locuzione «unità e indivisibilità» precedentemente usata. Di fronte alla novità sconvolgente che la rivoluzione dell’uguaglianza rappresentava, si trattava ora di restare uniti, di sentirsi fratelli, di sopportare insieme le conseguenze della lacerazione, del regicidio, della guerra. Il regime giacobino maturo, poi il regime direttoriale che da questo punto di vista lo prosegue, infine il consolato e l’impero, hanno ripristinato una prima volta l’unità della rivoluzione, che all’inizio del ’93 appariva separata tra rivoluzione della libertà e rivoluzione dell’uguaglianza. La rivoluzione dell’uguaglianza – della libertà e dell’uguaglianza insieme – è stata interpretata della libertà e dell’uguaglianza cementate dalla fraternità. Tutta insieme la rivoluzione è stata terminata dal Termidoro, portata alla vittoria patriottica dalle armate del Direttorio, poi conclusa e alla fine negata da Napoleone.
4. Dalla fine del 1792 le armate repubblicane sono alla conquista dell’Europa, pur con qualche battuta d’arresto. Comincia allora il problema di che fare delle popolazioni in teoria liberate dalle armi francesi, ma che in realtà accolgono male la rivoluzione. Dopo qualche dibattito, si consolida l’idea che solo i paesi che hanno conquistato e difeso la propria libertà possono considerarsi «nazioni», mentre gli altri sono soltanto popolazioni selvagge, vittime del dispotismo e della superstizione, come già i vandeani. La repubblica francese non farà loro del male, se non sarà attaccata e contrastata nella sua opera rigeneratrice. Gli americani, i polacchi, gli olandesi, gli svizzeri, forse gli inglesi si sono costituiti in nazione, gli altri no. Costituiti, parola chiave: sono nazioni quei popoli la cui libertà è stata garantita da una costituzione, che si sono quindi messi in grado di difendersi dall’oppressione. I francesi più di chiunque altro popolo si sono rigenerati, costituiti in popolo libero, e difesi contro gli oppressori. Sono quindi la prima delle nazioni, la «Grande nazione». Una volta passati attraverso la rivoluzione, rigenerati e costituiti in nazioni libere, i popoli sottomessi saranno riconosciuti come «repubbliche sorelle», alle quali dunque si potrà estendere il vincolo della fraternità. Questa nuova dimensione internazionale della fraternità, fra popoli anziché fra cittadini, fornisce una nuova dimensione e un’ulteriore conferma del significato che i rivoluzionari francesi assegnavano al legame fraterno: non un vincolo fra sfruttati, ma fra concittadini capaci di difendere la propria libertà/uguaglianza. I francesi acquisivano una posizione che si potrebbe definire di fratelli maggiori, di preminenza nella fraternità, come di quelli che prima e meglio degli altri hanno saputo difendere la loro costituzione.
5. Per tutto il primo quindicennio dell’Ottocento l’ombra della rivoluzione giacobina, poi militare e imperiale, copre la rivoluzione liberale, fino ad assorbire la rivoluzione della libertà in quella di una pseudo-uguaglianza che coincide ormai con la preminenza politica dell’apparato che ha fatto, poi difeso e esportato la rivoluzione. La fraternità si appanna, perché la primogenitura francese in Europa e militare-imperiale in Francia ha reso la «grande nazione» troppo grande per essere ancora percepita in un quadro di fraternità. Tutto il processo storico ha prodotto per i bonapartisti la gloria, per i liberali l’usurpazione napoleonica. Molto opportunamente, nella conferenza del 1817, Benjamin Constant rivendica la differenza tra la libertà dei moderni, come sviluppo della società civile, dalla libertà degli antichi, come imposizione dell’uguaglianza nella partecipazione alla sovranità. La rivoluzione francese è stata per lui un ritorno anacronistico della libertà antica [6]. Un secolo e mezzo più tardi, Furet, dopo aver ammesso l’unità profonda della rivoluzione francese, che prima, quando parlava di dérapage, gli era sfuggita, rileva la centralità del giacobinismo come fenomeno capace di dare un significato complessivo alla rivoluzione, e del pensiero teorico del periodo del direttorio [7].
Un altro sforzo fondamentale per la riunificazione teorica della rivoluzione francese, è quello di Hegel. Non è più l’uguaglianza (o la libertà degli antichi) ad occupare la scena, ma la centralità dello stato [8]. A differenza della rivoluzione inglese, della società civile, quella francese rappresenta per Hegel il trionfo politico dello stato, di cui l’impero bonapartista costituisce il coronamento. Come la maggioranza dei suoi contemporanei, Hegel legge il bonapartismo come il risultato finale della rivoluzione giacobina, e come un punto d’arrivo dell’evoluzione iniziata con i tempi moderni. Più tardi Marx fornirà una lettura rovesciata dell’interpretazione hegeliana della rivoluzione francese concentrata sul giacobinismo e Napoleone. Quello che a Hegel era sembrato il frutto maturo di un’evoluzione secolare: il trionfo dello stato e della politica, a Marx appare il grande enigma dell’autonomia del politico all’interno della rivoluzione borghese, a sua volta frutto della maturazione spontanea di un nuovo rapporto di produzione [9]. Se la società civile, nella sua maturazione, ha prodotto la rivoluzione della libertà nell’Ottantanove; questa stessa rivoluzione ha dato luogo al trionfo della politica e dello stato nel Novantatré, un trionfo che nelle rivoluzioni britanniche di matrice whig non si era verificato, o era stato in ogni caso incompleto.
Una lettura in gran parte diversa è quella della generazione liberale. La rivoluzione francese si sdoppia in un movimento buono, quello della libertà nell’Ottantanove, con l’unanimità, o quasi, della società civile; e in un altro cattivo, della politica giacobina liberticida nel Novantatré. Nel secondo quarto del diciannovesimo secolo, il problema dei liberali è stato quello di rifare l’Ottantanove senza il Novantatré. L’esaltazione del vecchio La Fayette nel 1830 corrisponde ad un sogno impossibile: chiudere subito la rivoluzione prima che degeneri nella tirannia ugualitaria giacobina e poi nell’usurpazione napoleonica. Il Quarantotto segna invece il ritorno puntuale («in farsa» secondo Marx) dello stesso copione. La rivoluzione liberale della società civile dà luogo al ripetersi della tragedia giacobina e bonapartista, segnando ancora una volta la differenza profonda fra la rivoluzione francese e il precedente inglese. La generazione liberale dal parziale insuccesso del 1830 precipita al dramma del Quarantotto, alla vera e propria tragedia del ’71. La guerra civile più lacerante, la repressione urbana più sanguinosa dalla fine delle guerre di religione insanguina la capitale francese. Per molti aspetti il nazionalismo democratico francese sarà ferito a morte e lascerà l’uso dei simboli patriottici alla destra «versagliese».
6. In ogni caso già il romanticismo maturo di Michelet durante il Secondo impero aveva indicato la strada per uscire dal dualismo fra diverse rivoluzioni, unificate dallo spirito del popolo, a sua volta incarnato in Danton. Victor Hugo si era spinto più oltre inglobando addirittura la controrivoluzione dei vandeani in una rivolta popolare unica contro l’ingiustizia e l’oppressione: quasi una rivoluzione di segno contrario che avesse scelto la parte storicamente sbagliata, per condurre però una lotta giusta. Con l’aiuto della mutilazione della patria subita da parte prussiana, la fraternità nazionalista rialza la testa e fornisce una lettura unitaria della rivoluzione francese in chiave di difesa nazionale, che supera la divisione liberale fra rivoluzione buona dell’Ottantanove e cattiva nel Novantatré. Intorno allo scadere del primo centenario, la riunificazione in chiave nazionalista popolare è parzialmente compiuta. Il giudizio sul giacobinismo in questo modo si sposta: non è più sulla libertà degli antichi, anacronisticamente riproposta e brutalmente imposta, né sulla dittatura politica che schiaccia la libertà della società civile; ma diventa se abbia salvato la patria o se l’abbia tradita.
Nel 1891 alla Camera dei deputati viene sollevata la questione della tragedia Thermidor di Victorien Sardou, rappresentata in quei giorni alla Comédie Française, che a giudizio della sinistra infanga la rivoluzione, impegnata nell’estate del 1794 a difendere il paese dall’aggressione delle potenze coalizzate. Secondo il centro-destra, che per l’occasione difende l’eredità dantonista, invece è il regime robespierrista ad aver disonorato la rivoluzione, esponendola ad una guerra alimentata dalla disumanità del regime. In quel dibattito intervenne Clemenceau, con un’espressione poi divenuta celebre:

«Signori, che lo si voglia o no, che ci piaccia o che ci urti, la Rivoluzione francese è un unico blocco, da cui non si può sottrarre nulla, perché la verità storica non lo permette. Dopo cent’anni venite oggi a questa tribuna, per ripetere l’esercizio scolastico di stabilire sovranamente che cosa si può accettare della Rivoluzione francese e che cosa bisogna tirare via. E pensate che un voto della Camera possa cambiare qualche cosa? Credete che dipenda dalla Camera diminuire o aumentare il patrimonio della Rivoluzione francese? Volete eliminare il tribunale rivoluzionario? Eppure sapete in quali circostanze è stato creato. Lo sapete dov’erano gli antenati di questi signori di destra? Mi si dice: erano alla frontiera. Sì, ma dal lato sbagliato. Erano coi prussiani e gli austriaci e marciavano contro la Francia. Marciavano contro la patria, tenendosi per mano col nemico (…). E ora, se volete sapere perché a seguito di questo avvenimento senza importanza di un cattivo dramma rappresentato alla Comédie française, c’è stata tanta emozione a Parigi, e perché ora tanta emozione alla Camera, ve lo dirò io. Il fatto è che questa ammirevole rivoluzione che ci ha prodotti non è finita, ma dura ancora, e noi ne siamo ancora gli attori, e ci sono sempre gli stessi uomini alle prese con gli stessi nemici» [10].

Lo sforzo di mobilitazione nazionale dei francesi, impegnati a ricostruire la loro presenza di grande potenza in Europa dopo lo shock della guerra persa con i prussiani, era dunque visto come la prosecuzione del cammino intrapreso con la rivoluzione. La triade rivoluzionaria: libertà, uguaglianza e fraternità, che in quegli anni si stabilizzava, riprendeva il valore di un grande programma di disciplinamento e di legittimazione in vista della riscossa della patria. Una ventina d’anni più tardi scoppiava la Grande guerra, e Clemenceau diventava il leader della Francia mobilitata nella guerra nazionalista, per poi essere fra i massimi artefici delle condizioni di pace terribili per la Germania sconfitta, e quindi causa non tanto indiretta della vittoria nazista e della tragedia della Seconda guerra mondiale. La rivoluzione-blocco passava nell’armamentario della difesa nazionale, lasciava alla passata generazione liberale i contenuti democratici e censurava la questione dell’uguaglianza, per assumere la gestione monopolista dell’identità nazionale [11].
7. Nel 1905, a partire dalla vittoria giapponese contro i russi, prima riscossa extraeuropea contro una potenza colonizzatrice, Sun Yat-Sen cominciava ad elaborare i suoi tre principi del popolo: l’identità nazionale, i diritti, e la sopravvivenza, poi rielaborati nelle conferenze del 1924 [12]. Negli anni seguenti, il dibattito si arricchiva sulle colonne del giornale che preparava la rivoluzione nazionalista: il Min Bao. Più tardi, il crollo del Celeste impero, poi la Grande guerra e la rivoluzione russa arricchivano il pensiero di Sun di riflessioni sulle connessioni fra le diverse esperienze rivoluzionarie. Allo stesso tempo riportavano i suoi tre principi ad assimilarsi con tre vecchie conoscenze del pensiero politico occidentale: il nazionalismo, la democrazia, il socialismo. Nel testo del 1924, quando ancora il vecchio leader era alla testa del Kuomintang e manteneva vivo il rapporto con i comunisti, la riflessione si allargava alla triade ereditata dalla rivoluzione francese. Ma quella triade non andava bene: di libertà, intesa come rispetto delle potenzialità dell’individuo, ce n’era stata fin troppa in Cina. I cinesi erano «come la sabbia del mare»: ognuno sciolto da qualunque vincolo nei confronti degli altri. Si trattava al contrario di rafforzare i legami sociali, di trasformare quella sabbia in cemento. Anche di uguaglianza ce n’era stata troppa: era diventata appiattimento delle risorse individuali. Bisognava invece che emergessero i talenti, e che si restasse all’uguaglianza dell’accesso alla politica, cioè alla democrazia. La fraternità compare alla fine della trattazione del primo e più importante dei tre principi, il nazionalismo, quello che deve consentire la sopravvivenza del popolo cinese, minacciato secondo Sun addirittura di distruzione fisica dall’imperialismo occidentale e giapponese. Si lamenta la scomparsa dai templi della religiosità popolare di una delle due parole chiave della religione tradizionale cinese: chung, la lealtà. Rimane solo l’altra: hsiao, la pietà filiale. La fraternità è vista come una rielaborazione della tradizionale lealtà, iscritta nel culto degli antenati, e che ora non è dovuta più all’imperatore, il quale non c’è più, ma al popolo. La fraternità è l’equivalente del «vasto amore», l’«amore senza discriminazioni» col quale l’imperatore ricambia la lealtà del suo popolo [13]. Si potrebbe dire che ora il popolo deve a se stesso lealtà e amore, e che questa è per Sun Yat-Sen la trasposizione cinese della fraternità nazionale.
Più avanti, discutendo il secondo principio, quello della democrazia, il pensiero di Sun si complica, e la traduzione nell’esperienza cinese dei tre principi della triade rivoluzionaria francese dà luogo ad alcune oscillazioni che dimostrano la sostanziale unità dei tre principi del rivoluzionario cinese, nonché il loro valore complessivo come programma di mobilitazione. La democrazia riassume in sé il principio nazionale. E’ insieme libertà e uguaglianza, vita spirituale e materiale del popolo, che, secondo la tradizione confuciana, si trovano inscindibilmente legate. La democrazia è l’insieme di regole che permette al principio nazionale di svilupparsi in tutte le sue conseguenze; e in questo senso è l’equivalente della libertà della rivoluzione francese. Del resto il pensiero di Sun si fa oscillante. Il nazionalismo sembra la traduzione dell’uguaglianza, in quanto garantisce a tutti i cittadini pari diritti [14]. In realtà è l’unica forma di uguaglianza possibile, essendo esclusa l’uguaglianza naturale.
8. Lo scopo di queste considerazioni non è quello di stabilire l’una o l’altra delle eventuali affinità, fra la triade della rivoluzione francese e quella della rivoluzione nazionalista cinese. Ma di mettere l’accento sulla profonda unitarietà di entrambi i complessi simbolici, rispetto alla definizione e alla mobilitazione della comunità nazionale, caratterizzata da legami di fraternità o lealtà reciproca. Non si costruisce una mobilitazione rivoluzionaria, senza un programma che disciplina e legittima lo sforzo di fare appello a tutte le risorse materiali e politiche del paese. Questo programma ha in entrambe le rivoluzioni il ritmo ternario di uno slogan che raccoglie in sé la necessità di regole per l’accesso alla politica, di regole per l’accesso alle risorse e di coesione comunitaria nazionale.
NOTE
1- Sulla storia del termine «rivoluzione» cfr. K. Griewank, Il concetto di Rivoluzione nell’età moderna, Firenze, La Nuova Italia, 1979; R. Koselleck, Revolution, in Geschichtliche Grundbegriffe. Historisches Lexikon zur politisch-sozialen Sprache in Deutschland, Stuttgart, Klett, 1984; A. Rey, “Révolution”. Histoire d’un mot, Paris, Gallimard, 1989.
2- F. Furet, Critica della Rivoluzione francese, Roma-Bari, Laterza, 1980.
3- Tamara Kondratieva fornisce una buona sintesi del peso che l’esperienza giacobina assumeva per i bolscevichi: Bolcheviks et Jacobins, Paris, Payot, 1989.
4- Ho discusso già più volte questi problemi. Cfr. fra l’altro, P. Viola, Il trono vuoto, Torino, Einaudi, 1989.
5- Cfr. L. Hunt, The Family Romance of the French Revolution, Berkeley, University of California Press, 1992.
6- B. Constant, De la liberté des anciens comparée à celle des modernes, ripubblicato in De la liberté chez les modernes, Paris, Pluriel, 1980.
7- Aveva parlato di dérapage nel manuale scritto insieme a Richet nel 1965. Il giudizio è corretto in Critica della rivoluzione francese… citata.
8- Cfr. J. Ritter, Hegel e la rivoluzione francese, Napoli, Guida, 1970.
9- Cfr. F. Furet, Marx e la rivoluzione francese, Milano, Rizzoli, 1989.
10- Annales de la Chambre des Députés. Cinquième législature. Débats parlementaires. Sessione del 29 gennaio 1891, vol. I, pp. 177-197.
11- Cfr. S. Luzzatto, La “Marsigliese” stonata. La sinistra francese e il problema storico della guerra giusta (1848-1948), Bari, Dedalo, 1992.
12- Sun Yat-Sen, I tre principi del popolo, a cura di E. Collotti Pischel, Torino, Einaudi, 1976.
13- Ibid., pp. 94 sgg.
14- Ibid., p. 152.