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Lidia Santarelli

(Dottore di ricerca, Istituto Universitario Europeo)
Guerra esterna e guerra interna: conflittualità e appartenenze nella Grecia occupata dall’Asse

La Grecia occupata dalle potenze dell’Asse nel corso della Seconda guerra mondiale non costituisce solo un esempio di come, nella fenomenologia dei conflitti contemporanei, affiori il nesso costante tra guerra esterna e guerra interna o “civile”, ma anche di come questo nesso alimenti conflitti multipolari nei quali lo schema amico-nemico è oggetto di continue ridefinizioni nel corso stesso del conflitto. In questa prospettiva, il contributo alla discussione su “fedeltà altre e appartenenze conflittuali nel XX secolo”, oltre ad analizzare le principali scelte di campo che nella Grecia occupata furono condizionate da motivazioni etniche, religiose, politiche o sociali, richiama l’attenzione sul fatto che simili scelte non si configurarono come un sistema di valori dato, quanto piuttosto come un processo dinamico: le scelte di appartenenza, infatti, furono spesso mutevoli e ambivalenti e frequenti furono gli attraversamenti del fronte. Di qui, l’attenzione rivolta ad alcuni fondamentali problemi di metodo storico, relativi alla natura stessa della guerra come processo di crisi e trasformazione dei sentimenti di appartenenza.

Il primo di questi problemi riguarda l’impatto della guerra sulle appartenenze del tempo di pace, organizzate attorno alle strutture dello stato nazione, dell’etnia, dei confini linguistici e culturali, dell’interdipendenza tra città e campagna. Sotto questo profilo, il crollo dello stato e il collasso del mercato legale rappresentano due processi decisivi nella crisi (e disgregazione) dei sentimenti di appartenenza. Essi, infatti, coincidono con la disarticolazione delle principali istituzioni che nel periodo tra le due guerre avevano garantito, seppur tra mille contraddizioni, il processo di modernizzazione economica e l’integrazione nazionale di territori a composizione mista dal punto di vista etnico, linguistico, culturale e religioso. L’emergere di nuove scelte di campo, individuali o di gruppo, è parte della tendenza all’atomizzazione della società occupata, ma è anche in larga misura rivelatore dei limiti manifestati dai processi di costruzione politico-statuale del primo Novecento. Le scelte di campo del periodo bellico evocano profondi rivolgimenti politico-statuali. La Resistenza e il Collaborazionismo ne sono un esempio tipico, ma si potrebbero citare i progetti secessionisti delle minoranze etniche slavofone o albanesi mussulmane.

Il secondo problema riguarda la natura della guerra di occupazione e le strutture del conflitto nel contesto della guerra totale, nella quale non solo tende ad assottigliarsi la distinzione tra combattenti e civili, ma si erode la tradizionale barriera divisoria tra sfera pubblica e sfera privata. In questo senso, un elemento decisivo per comprendere la ridefinizione delle scelte di campo credo sia rappresentato dal processo di politicizzazione della vita quotidiana, a partire dalle strategie della sopravvivenza, dalla ridistribuzione del potere e delle risorse tra differenti gruppi sociali.

Il terzo problema fondamentale riguarda la politica, ossia la possibilità di valutare il peso specifico che la dimensione ideologica, i processi di costruzione del consenso, di legittimazione e delegittimazione dei poteri e dei sistemi di norme e regole (formali e informali) esercitano nella mobilitazione dei sentimenti di appartenenza. Si tratta, cioè, di valutare se e come la politica costituisca un principio ordinatore nelle scelte di campo, e fino che punto essa, più che negare la specificità di identità particolari di natura etnica, sociale, linguistiche o religiosa, si affermi piuttosto come identità egemone.