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Luciano Cafagna – 1926-2012

Luciano Cafagna è morto a Roma il 5 febbraio 2012.
Dopo tante discussioni e scambi di idee, quando uno sparuto gruppo di eslege aveva finalmente dato corpo, un corpo esile, un po’ incerto, al progetto Sissco, si trattò allora di nominarne il provvisorio presidente. Eravamo in una stanza dell’università di Bologna, e ci rivolgemmo a Luciano Cafagna, il più anziano, il più autorevole. Scettico, ma pur partecipe, dovette accettare.
Cafagna si negò sempre ogni entusiasmo che non fosse intellettualmente mediato, ogni effetto retorico, ogni frase ad effetto. Anche per la Sissco fu quindi un presidente privo di grandi progetti, disposto semmai a rappresentare con l’efficacia dell’understatement la determinazione antiideologica, antipartitica, che i primi fondatori manifestavano a volte in maniera rumorosa. Affidava il suo discorso all’arguzia calma dell’intelligenza, all’originalità stilistica, ad una visione distaccata delle cose, quasi compiaciuto di non fermarsi alla superficie visibile, di cogliere le trame nascoste della storia e della politica con l’acribìa dell’entomologo, col pragmatismo dell’uomo fattivo. In un’epoca, come quella in cui visse, stracolma di ideologie e di scorciatoie retoriche, la sua era posizione scomoda, mai allineata.
Era di Sorrento, ma aveva iniziato la sua carriera nella Milano operosa del dopoguerra. Comunista, si era dedicato allo studio dell’industrializzazione italiana, quando era un tema di moda fra gli storici. Ebbe due intuizioni fulminanti – sull’importanza della seta nello sviluppo economico italiano e sulle origini del dualismo italiano nell’estraneità del ‘piccolo paese’ (il triangolo industriale), in via di precoce industrializzazione, dal resto della penisola – ed in particolare dal Sud. Erano idee eterodosse per allora, enunciate rispettivamente in un famoso articolo negli Annali Feltrinelli (1958) e nell’introduzione ad una antologia Laterza sul Nord nella storia d’Italia. La datazione non è casuale. Due anni prima, nel 1956, aveva rotto con il partito e le sue ortodossie. Se l’accademia italiana e Cafagna fossero stati diversi, probabilmente, sarebbe stato destinato ad una brillante carriera di oscuro studioso di storia economica. Ma i professori di Storia Economica, per meschine vendette personali e incapacità di comprendere le vere capacità, gli negarono la libera docenza. Da parte sua, Cafagna era persona troppo curiosa della vita e della politica per dedicarsi a tempo pieno al faticoso e certosino lavoro di verifica quantitativa delle proprie intuizioni tipico della disciplina. Avrebbe ancora scritto contributi importanti (in particolare il suo capitolo della Fontana Economic History of Europe), e avrebbe anche animato un brillante seminario di Storia Economica presso la Scuola Normale nei primi anni Settanta. I suoi veri interessi erano cambiati. La rottura con il partito era stata completa, senza i ripensamenti, i distinguo, le mezze misure tipiche di una stagione più recente. Cafagna si buttò nell’impresa di costruire un’alternativa moderna all’arretratezza della DC ed alla chiusura culturale del PCI. Si trovò naturalmente tra coloro che animarono il Partito socialista, o meglio quella sua parte lucida, perspicace, intellettuale, quando si trattò di governare, di amministrare, di pianificare. Anche quella, una stagione intensa, ma breve, e sostanzialmente sconfitta. Come accade nella storia d’Italia nei brevi momenti in cui sembra che ai migliori sia dato di ben operare per il paese lontano dalla politica, Cafagna trovò allora il suo posto nell’élite dell’alta dirigenza politico-burocratica, prima capo di gabinetto di Giolitti in Europa, più tardi nell’Autorità per la concorrenza.
Tra l’uno e l’altro ufficio, prese finalmente il suo posto nell’accademia. Vinto un concorso universitario, di Storia Contemporanea da outsider, fu chiamato all’università di Pisa, dove ebbe pochi, distillati seguaci e discenti, non allievi. Non era tipo da proporre grandi progetti di ricerca, da creare scuole visibili, o cordate accademiche. Semmai si concedeva qualche colpo ad effetto, qualche dimostrazione di realismo, quasi assaporando il gusto del pragmatismo politico che spiazza gli ingenui. Non a caso, accompagnò poi la stagione politica che seguì, e che sancì la sostanziale sconfitta del suo socialismo riformista, con acuti, sempre acuti e appartati pamphlets dai titoli taglienti: La grande slavina. L’Italia verso la crisi della democrazia, del 1993, Nord e Sud. Non fate a pezzi l’unità d’Italia, del 1994, Una strana disfatta. La parabola dell’autonomismo socialista, del 1996. Nell’insieme, seicento pagine di storia italiana. Intanto studiava Toqueville, per cercare conferme delle sue intuizioni di sinistra moderna in un classico del liberalismo.
Trovò infine il suo eroe rispecchiandosi, ancora contro ogni ideologia, politica e storiografica, nella rievocazione di un Cavour “tessitore”, giocatore d’azzardo nella gran partita italiana. Anche Cavour come il Fellini di 8 e mezzo “non sapeva dove sarebbe andato a parare, ma sapeva che avrebbe fatto un film, quel film, e un gran film”. Sulle orme di Romeo – storico allora fuori moda -, ma adottando il linguaggio e le metafore crude dello sport, Cafagna descriveva in quell’aureo libretto, i “rounds” in cui Cavour giocava ora da attaccante ora da “goal keeper” secondo le necessità di una strategia politica personificata, rivalutando contro strutture e contesti la creatività della politica. Italianissimo, eppure “poco italiano” come egli dipingeva il suo Cavour, Cafagna sembrava così ripetere il suo gioco di identificazione-distanza e tesseva le lodi del “pragmatismo”, una parola che “è stata in tempi recenti demonizzata, ma, per chiunque sia stanco di illusioni, è bellissima”.
Giovanni Federico e Raffaele Romanelli