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Marco Buttino

Università di Torino

 Confini / Grenzen

Convegno di studi / Studientagung

Bolzano-Bozen, 23-25 settembre/ 23.-25. September 2004

I confini che cambiano: Stato, città, quartiere, casa nell’ Asia centrale post-sovietica
Introduzione

I confini tra Stati o tra gruppi di persone sono il frutto di una contrattazione. Quelli tra gli Stati sono fissati, hanno una certa stabilità e in genere non si modificano che attraverso la guerra; quelli tra i gruppi di persone possono apparire alquanto stabili, ma sono in genere sottoposti a una ridefinizione continua. La stabilità apparente nasce dal fatto che i confini sono anche convenzioni e, in quanto tali, hanno una certa forza di inerzia. Avviene inoltre che gruppi di persone inevitabilmente mutino nel loro modo di vita e di pensare, ma continuino a distinguersi dagli altri per propria scelta o per quella di altri. I processi di cambiamento delle affiliazioni scelte o attribuite è normalmente lento. Si ragiona in genere sulla costruzione di confini considerando cosa si intenda dividere costruendoli. Per indagare su come questi mutino è però interessante considerare non tanto dove passino, ma cosa li attraversi. I confini, stabili o meno, non sono mai barriere invalicabili: sono anzi punti di comunicazione attraverso cui passano ferrovie e autostrade, e attraverso cui si contaminano i modi di vita e le lingue. Nel caso di cui ci occuperemo, l’Asia centrale di oggi, si trova un’eredità pesante di confini costruiti nel recente passato, quando la regione era parte dell’Unione sovietica. Per certi versi la situazione è simile a quella esistente in molti paesi che hanno attraversato un periodo coloniale. I confini delle repubbliche centroasiatiche sono stati creati ai tempi dell’Urss, e anche le lingue e le culture locali sono state plasmate in epoca sovietica seguendo orientamenti che venivano da lontano, da Mosca. E’ proprio di tutti i regimi coloniali la costruzione di confini amministrativi e culturali, e la loro definizione sempre in divenire, riflette lo stato attuale del compromesso coloniale. L’obiettivo strategico del colonialismo è l’abolizione delle diversità culturali da raggiungere eliminando l’autonomia delle élites culturali autoctone e ricorrendo a politiche di assimilazione, i cui cardini sono l’occidentalizzazione o la modernizzazione. Il processo in questa direzione richiede però compromessi e esige, nel suo divenire, la presenza di ceti di mediazione in grado di essere interlocutori sia delle autorità coloniali, che della popolazione locale. Questi mediatori si pongono dunque su una linea di confine tra le società e assumono una posizione di grande potere perché sono indispensabili al mantenimento e al rafforzamento del regime coloniale. I ceti di mediazione sono vari e hanno ruoli diversi: dai funzionari locali inseriti nell’amministrazione coloniale, a quanto esiste ancora o si è ricreato delle élites politiche, culturali e religiose locali. Queste élites autoctone si assumono anche il ruolo importantissimo di “guardiani” del confine e tentano di controllare quanto vi passa attraverso, ossia di regolare l’influenza culturale esterna, coloniale. Il riformismo, il fondamentalismo e l’estremismo islamico, ad esempio, sono risposte diverse alla stessa questione: come rapportarsi all’influenza “occidentale”. Nel primo decennio del regime sovietico in Asia centrale prevalse la volontà affrettare al massimo i tempi del cambiamento. I rivoluzionari, guidati dal partito comunista, che aveva in Russia la sua direzione politica, condussero un attacco diretto e violentissimo alle élites autoctone: eliminazione fisica delle autorità religiose; eliminazione politica e poi fisica delle élites riformatrici (jadid) accusate di nazionalismo; repressione militare della resistenza armata (basmachestvo). L’offensiva continuò mirando alla distruzione delle culture locali, così i rivoluzionari abolirono le istituzioni islamiche e stabilirono che il rispetto di tradizioni, che essi consideravano reazionarie, fosse considerato reato (bytovye predstupleniya): vennero aboliti il velo delle donne, il kalym, la poligamia. Il nuovo regime era il prodotto di una cultura europea e voleva mutare dalle radici la società locale. La costruzione culturale sovietica seguì a questa prima fase di distruzione e consistette nella creazione di repubbliche sovietiche “nazionali” e nella formazione di culture nazionali sotto l’ombrello dell’Urss. L’influenza sovietica consisteva in politiche di russificazione e sovietizzazione, e portò alla creazione di ceti di mediazione nuovi in grado non soltanto di parlare correntemente russo e di partecipare alle istituzioni sovietiche (che erano identiche in tutto il territorio dell’Urss), ma anche di conoscere le lingue e i modi di vita locali e di esserne parte. Il regime sovietico aveva infatti capito che per governare l’Asia centrale era necessario un compromesso e questo richiedeva anzitutto di riconoscere che esistevano culture diverse e che si dovesse puntare non su una loro immediata abolizione, ma su una trasformazione graduale anche se profonda. Si riconobbe insomma l’esistenza di un confine, anzi di molti confini, che erano punti di contatto e quindi rendevano possibili politiche rivolte a trasformare le culture locali. I ceti di mediazione erano indispensabili in questa ottica, si trattava anzitutto di dirigenti politici che erano “sovietici” (se considerati dal punto di vista di Mosca) e, allo stesso tempo, nazionali (se considerati dal basso). Il confine tra “russi” (ossia la popolazione immigrata dalla Russia in seguito alle politiche di espansione zariste e poi sovietiche) e le popolazioni autoctone era dunque un confine in cambiamento. Finché l’Urss esistette, il punto di arrivo desiderato era la completa assimilazione, ossia l’affermazione del cittadino sovietico quale superamento della divisione tra i popoli dell’Urss. Si riconosceva però che i tempi sarebbero stati lunghi. Il tempo dell’Urss non fu sufficiente. Il crollo del regime sovietico ha posto l’Asia centrale in una situazione comparabile a quella in cui si sono trovati molti paesi dopo l’esperienza coloniale: creazione di nuovi gruppi dirigenti (in parte provenienti dagli stessi regimi coloniali), creazione di un discorso nazionale in funzione di legittimazione della direzione politica dello Stato ora indipendente, nazionalizzazione delle risorse, allontanamento totale o parziale dei colonizzatori (inclusi tecnici e specialisti). Nel caso dell’Asia centrale, come in quella di molti altri paesi post-coloniali, la nuova indipendenza politica ha portato con sé anche l’impoverimento dello Stato e quindi la crisi del welfare, la paralisi di molte attività produttive e commerciali, una polarizzazione accentuata della distribuzione della ricchezza con la nascita di aree di rapido impoverimento della popolazione. Per altri versi, la situazione dell’Asia centrale post-sovietica è comparabile a quella in cui si sono trovati vari paesi ex-coloniali più avanti, quando sono entrati in crisi i primi regimi indipendenti (penso a vari paesi dell’Africa sub-Sahariana). Questi regimi avevano attuato politiche di nazionalizzazione e statizzazione delle risorse, che ebbero come conseguenza una crescita vertiginosa delle spese dello Stato, mentre la ricchezza prodotta era sperperata nel quadro di rapporti di potere “corrotti”, ossia propri di Stati patrimoniali. Si considera in genere che la crisi di questi regimi post-coloniali consistesse nella loro incapacità ad attuare riforme che avrebbero dovuto portare al mercato e alla democrazia politica. Anche nel caso sovietico la “transizione” verso il mercato e la democrazia venne considerata come la via diretta che avrebbe portato fuori della crisi, ma in realtà si è assistito poi a processi diversi e contraddittori che non hanno portato né alla democrazia, né al mercato. La comparazione tra situazioni post-coloniali non è però obiettivo di questa relazione, mi accontento di questi cenni che ci saranno forse utili nella discussione. Tratterò soltanto dell’Asia centrale. Il crollo dell’Urss non ha modificato il tracciato dei confini delle repubbliche dell’Asia centrale. E’ mutato però il loro significato: confini amministrativi interni all’Urss sono diventati confini di Stati indipendenti e questo ha provocato che i flussi di persone e di merci che li attraversano e la loro direzione oggi siano diversi da quelli di prima. La fine dell’Urss ha provocato anche grandi trasformazioni all’interno delle repubbliche, nei confini tra diversi gruppi sociali e nel significato delle appartenenze a questi gruppi, e saranno queste al centro della mia attenzione. Vorrei capire se le appartenenze collettive costruite in epoca sovietica, e allora molto significative nella vita di ognuno, siano mutate e in quale modo, e se nuove forme di appartenenza e nuovi confini divisivi della popolazione si siano costruiti dopo l’Urss. Le domande, a cui cercheremo qualche risposta sono di questo tipo: sono cambiati nelle repubbliche i confini tra gruppi nazionali? e quelli tra la popolazione locale e quella immigrata? cosa significa oggi appartenere al gruppo dei russi o a quello, più ampio, dei russofoni? la distinzione tra musulmani e non-musulmani ha assunto nuovi significati? e la conoscenza della lingua ufficiale della repubblica costituisce oggi un nuovo discrimine? Lo schema di questa relazione seguirà l’ordine che viene spontaneo guardando una carta geografica dapprima nell’insieme e focalizzando poi l’attenzione su dei particolari: inizierò con alcune considerazioni riguardanti l’Asia centrale nel suo complesso e nel suo rapporto con il mondo; esaminerò poi una soltanto delle repubbliche dell’Asia centrale, l’Uzbekistan, e considererò la rilevanza delle appartenenze alle diverse regioni all’interno di questa repubblica; in seguito mi soffermerò su una sola città, Samarkand, e esaminerò i cambiamenti in corso tra la popolazione di alcuni quartieri; concluderò considerando la rilevanza dei recenti movimenti migratori della popolazione locale e il loro significato nel mutamento dei modi di vita in corso nel paese. La trattazione procederà dunque dal generale al particolare, l’attenzione è però rivolta soprattutto al particolare e si basa principalmente su interviste e altri materiali raccolti nel corso di vari soggiorni a Samarkand.

carta 1: gli Stati dell’Asia centrale ex-sovietica e i loro vicini

1. l’Asia centrale e il resto del mondo

Non mi interessa qui analizzare come il crollo dell’Urss abbia modificato la geopolitica della regione e come quindi sia mutata la collocazione delle 5 repubbliche centroasiatiche nel mondo. Alcune considerazioni generali sono però necessarie. A questo fine mi limito a rubare il risultato dell’ottimo lavoro di un geografo, Julien Thorez. Le due cartine che seguono ci permettono infatti di farci rapidamente un’idea del mutamento avvenuto nelle relazioni internazionali e dell’impatto che questo può avere avuto nella vita interna delle repubbliche.

carta 2: trasporti e comunicazioni in epoca sovietica

Ai tempi dell’Urss i confini tra i paesi dell’Asia centrale erano reciprocamente aperti come lo erano verso il resto dell’Urss perché di trattava di confini amministrativi, non di frontiere di Stato. Verso l’esterno, ossia verso i paesi confinanti (la Cina, l’Afghanistan e l’Iran) valevano invece le frontiere sovietiche, che dall’Asia centrale non erano direttamente valicabili. Tutti i movimenti di persone, i flussi di merci e i rapporti culturali con il resto del mondo passavano attraverso Mosca. Nei primi anni post-sovietici i confini tra le repubbliche cono stati messi in discussione. Soprattutto l’Uzbekistan, che è la repubblica che gioca il ruolo centrale nella regione, ha avanzato rivendicazioni territoriali verso i paesi vicini e si sono create tensioni che potevano avere esiti militari. Poi la situazione si è ricomposta e i confini non sono stati spostati. Oggi però sono diventate frontiere che separano dalla Russia, come dagli altri paesi, ma sono anche punto di contatto con paesi vicini che prima erano inaccessibili. La seconda cartina rubata a Thorez è illuminante:

carta 3: trasporti e comunicazioni dopo l’Urss

E’ un mondo di relazioni tra persone e di contatti culturali che è rapidamente cambiato.

2. all’interno di una repubblica, l’Uzbekistan: nazionalità, cittadinanza, famiglie e appartenenze regionali

Ai tempi sovietici la popolazione era ufficialmente divisa in “nazionalità”. Il termine è simile a quello di “etnia” e altrettanto ambiguo, ma nel contesto dell’Urss aveva assunto una valenza importante perché l’autorità amministrativa catalogava i cittadini in base alle “nazionalità” e a queste corrispondevano politiche diverse di promozione sociale. La nazionalità era rilevata nei censimenti, erano però i passaporti interni ad avere un peso nella vita di ognuno. Questi indicavano che il tal cittadino, di cittadinanza sovietica, era di nazionalità russo, o uzbeco, tajico, ecc.. Questa indicazione creava appartenenze rigide, etichette etniche indelebili (l’appartenenza era stabilita burocraticamente in base a quella dei genitori e non era modificabile, soltanto i figli di copie miste potevano scegliere tra quelle dei genitori). Tutta la popolazione era così divisa in nazionalità, ogni cittadino sovietico aveva la propria e in base a questa era oggetto delle politiche di ingegneria sociale. L’appartenenza era dunque obbligatoria e aveva un significato rilevante nella vita di ognuno. Il censimento del 1989, l’ultimo censimento sovietico, indicava che il 71% della popolazione dell’Uzbekistan era di nazionalità uzbeca e il l’8% russa (fermiamoci per il momento a questi due gruppi). Nello stesso anno a Tashkent, la capitale, gli uzbechi non erano che il 35%, mentre i russi erano il 42%. Nelle campagne la composizione nazionale era drasticamente diversa: gli uzbechi erano l’84% della popolazione, mentre i russi non arrivavano all’1%. La capitale, e in misura minore altre città, erano dunque il luogo della presenza russa. La lingua uzbeca e russa non erano soltanto le lingue dei due principali gruppi nazionali, ma costituivano anche i due poli principali di aggregazione linguistica dell’intera popolazione. Nel 1989 parlava russo un terzo degli abitanti della repubblica, se si escludono i bambini la percentuale ovviamente era più alta. Nell’intera repubblica vi erano dunque circa 5 milioni di non russi che parlavano russo, mentre parlava uzbeco soltanto un milione circa di non uzbechi. Molti dei gruppi etnici minori che vivevano in Uzbekistan erano notevolmente russificati: parlava russo più del 70% degli ucraini, degli ebrei europei, degli ebrei di Bukhara, degli armeni, dei tedeschi, dei coreani, dei tatari di Kazan e di Crimea, degli azeri e dei bashkiri. Mentre una stessa percentuale di persone che parlava uzbeco si trovava soltanto tra i tatari di Crimea e nella piccola minoranza persiana. Il russo quindi era la lingua di comunicazione di vari popoli minori e, tra questi, di quelli deportati in Uzbekistan ai tempi dello stalinismo. La capitale era il luogo in cui si concentrava l’importanza e la forza di attrazione del russo. Nel 1989 a Tashkent quasi metà degli abitanti parlava uzbeco (come lingua madre o come seconda lingua) si trattava degli uzbechi e di un numero relativamente ridotto, 60.000, persone appartenenti ad altri gruppi nazionali. Il russo era decisamente più diffuso: lo parlava più dell’80% degli abitanti, erano i 700.000 russi della città e ben 970.000 non russi. Il numero delle persone russofone nella città era in effetti molto alto, includeva praticamente tutta la popolazione esclusi i bambini non russi. L’attrazione di questa lingua rispetto all’uzbeco si rivelava anche nel fatto che mentre i russi tendevano a non conoscere l’uzbeco, gli uzbechi conoscevano il russo. A Samarkand, la seconda città per numero di abitanti, la situazione non era così sbilanciata a favore degli slavi e del russo: gli slavi non costituivano che il 18% della popolazione, la lingua dominante era anche qui il russo, ma il radicamento dell’uzbeco e del tajico era molto forte. Dobbiamo chiederci se la rilevanza delle appartenenze nazionali sia tale ancora oggi. Per cercare delle risposta non abbiamo altra via che intervistare le persone. La nazionalità è ancora registrata nei passaporti, ma ora è un fatto soltanto burocratico e irrilevante nella vita, oppure continua ad essere sentito come un attributo oggettivo di ognuno e ad essere fonte di discriminazioni? Oggi, quando si chiede ad una persona quale sia la sua nazionalità, indipendentemente dal contesto in cui avviene l’intervista, la risposta è precisa. L’intervistato dichiara di essere russo, o uzbeco, tajico, tataro, ecc. senza esitazione. Se poi si chiede di spiegare se questa appartenenza sia comune a tutta la sua famiglia, generalmente la risposta è negativa. Non è qui in discussione il passato lontano e i miti delle origini nazionali, ma il fatto, peraltro del tutto logico, che sono poche le famiglie che, nella memoria delle ultime generazioni, abbiano avuto comportamenti strettamente endogamici. Le famiglie sono più o meno miste. Gli intervistati non hanno dubbi neppure sull’appartenenza nazionale dei membri della propria famiglia, e le risposte indicano con sicurezza il quadro delle appartenenze familiari. Così chi si è dichiarato tataro, dopo la richiesta di spiegazioni, sosterrà di essere tataro al 100, o al 50 o al 25% e indicherà le altre appartenenze facendo riferimento a quelle dei genitori e dei nonni. E’ del tutto normale che le persone parlino di sé o degli altri ricorrendo a percentuali di questo tipo. La questione è che le persone fanno riferimento a due tipi di appartenenza: una è quella registrata nel passaporto e ha un grande significato nella collocazione sociale e nei diritti individuali di ognuno; l’altra è quella genealogica che fa però riferimento ad un famiglia in cui tutti i membri sono stati etichettati burocraticamente. L’appartenenza linguistica complica la questione dei confini. Vi sono infatti persone che non hanno come lingua madre quella del proprio gruppo nazionale: gli strati sociali alti di qualsiasi gruppo nazionale, ai tempi sovietici, erano spesso russificati (ad esempio, vi erano dirigenti politici di nazionalità uzbeca che parlavano soltanto russo). Vi sono famiglie miste che hanno il russo come lingua interna alla famiglia. Vi sono minoranze, spesso quelle deportate, che parlano la propria lingua nei confini ristretti del loro gruppo e hanno il russo come lingua di comunicazione all’esterno. Altri, come avviene nel caso dei tatari di Kazan, sono per cultura vicini ai russi e spesso parlano russo come prima lingua, allo stesso tempo condividono le tradizioni musulmani della popolazione autoctona. Il passaggio alla sovranità dell’Uzbekistan e la definizione di nuovi diritti di cittadinanza invece di rendere desuete queste appartenenze sovietiche le hanno cristallizzate e ne hanno modificato il significato. L’indipendenza ha premiato gli uzbechi, rendendoli a tutti gli effetti i padroni di casa nella loro repubblica, e ha posto gli altri in condizioni di inferiorità. Essere di nazionalità uzbeca e conoscere la lingua nazionale sono infatti le condizioni necessarie per essere cittadini di primo rango. Si direbbe che la conoscenza della lingua uzbeca costituisca oggi un discrimine analogo a quello che una volta era costituito dalla conoscenza del russo. Parlano uzbeco quasi tutti gli uzbechi (le persone appartenenti alla piccola élite uzbeca esclusivamente russofona dei tempi sovietici hanno ormai avuto il tempo per imparare l’uzbeco, oppure sono emigrati), la maggior parte dei tajichi e degli appartenenti altri gruppi minori presenti nel paese già prima della colonizzazione russa. Le persone che appartengono a famiglie miste e non conoscono l’uzbeco oggi si considerano come meticcie e si trovano in una posizione difficile: la loro condizione di non-appartenenza ha conseguenze negative nella definizione della loro posizione sociale. La loro sorte è vicina a quella degli slavi che non parlano uzbeco e sono passati dalla posizione sociale centrale avuta nei tempi sovietici a una marginale. Un’altra forma rilevante di appartenenza è quella territoriale. Le ragioni di questa rilevanza stanno nel fatto che ancor oggi, dopo riforme parziali e privatizzazioni apparenti, lo Stato continua ad esercitare un ruolo diretto nell’economica del paese e gli apparati amministrativi continuano a essere luogo di incontro tra le persone influenti a livello locale. Si tratta di uno Stato patrimoniale, dove i detentori di cariche pubbliche gestiscono un potere personale e si servono delle istituzioni per favorire i componenti delle loro reti personali di solidarietà e clientela. In un’economia dove l’agricoltura e lo sfruttamento delle risorse naturali sono la ricchezza principale, il controllo del territorio (e delle braccia da lavoro) costituisce un aspetto di prima rilevanza nei rapporti di potere. Gli stessi equilibri politici generali del paese si fondano sul compromesso tra i diversi gruppi di potere regionali. Le dimensioni ampie delle famiglie sono un attributo indispensabile di questo sistema. Una famiglia contadina uzbeca o tajica ha 3 o 4 figli. Se considerate alcune generazioni, ad esempio dai bisnonni ai nipoti, e tenete conto dei parenti di acquisto, potete calcolare quante decine di cugini abbia ogni nipote. La società locale è di fatto una società di cugini. Spesso gli amici e i vicini di casa sono anch’essi dei cugini. I clan politici che hanno radici nello Stato sono il punto verso cui gravita l’intreccio di favori e di reciprocità che unisce queste reti familiari ampie e in continua trasformazione. Se invece considerate una famiglia slava, per lo più urbana, con un tasso di riproduzione molto basso, ad esempio di un figlio per generazione, il calcolo del numero dei cugini darà risultati ben diversi. E’ ovvio che in uno Stato di questa natura e in cui si attuano politiche di sostegno l’affermazione del gruppo nazionale titolare, l’appartenenza ad una famiglia uzbeca o a una russa implica una posizione molto diversa. L’appartenenza a una famiglia russa costituisce una condizione di fatto, non modificabile, e comporta oggi una posizione debole nella società. La concezione e la struttura della famiglia, la dimensione e la natura delle reti sociali, i modi di vita da sempre distinguono la minoranza europea immigrata dalle popolazioni autoctone. Le politiche di assimilazione, a cui ho fatto riferimento prima, hanno certo avvicinato le distanze e creato ampi strati sociali intermedi, ma non hanno abolito le differenze. La russificazione linguistica e culturale era infatti un processo consistente e rilevante, ma tutt’altro che concluso. La sopravvivenza di tradizioni locali ha segnato la differenza: da una parte i russi e gli altri europei, che ne erano estranei, e dall’altra gli uzbechi e la gran maggioranza della popolazione autoctona. Quando l’Uzbekistan è diventato indipendente i secondi hanno ripreso a considerarsi apertamente musulmani e sottolineare quindi un’appartenenza religiosa che prima era invisa al regime. Il passaggio all’indipendenza e a vita normalmente musulmana ha contribuito a rendere più esplicito un confine che già esisteva e ha soprattutto segnato una differenza di civiltà quale fondamento del ribaltamento dei rapporti rispetto alla popolazione immigrata. Per approfondire l’indagare sulla forza d’inerzia dei confini creati ai tempi sovietici e sulla nascita di divisioni nuove, conviene ora esaminare più la vicino una città.

3. nei quartieri di Samarkand

Non disponiamo di dati per la popolazione attuale della città. Dobbiamo quindi fare riferimento agli ultimi censimenti sovietici.

Tab. 1 la popolazione urbana della regione di Samarkand (1989)

 

Migliaia

%

 

 

 

tot

693

100

 

 

 

Uzbechi

359

52

Tajichi

71

10

Iraniani

15

2

Ebrei di Bukhara

5

1

 

 

 

Tatari di Kazan

31

4

 

 

 

Slavi

123

18

Ebrei russi

8

1

 

 

 

Tatari di crimea

32

5

Coreani

8

1

Tedeschi

2

0

 

 

 

Altri

27

4

Nel 1989 a Samarkand gli slavi e gli altri abitanti che usavano il russo come lingua di comunicazione sociale al di là degli ambiti del loro gruppo nazionale erano 216.000 (slavi, ebrei russi, minoranze deportate, armeni, tatari di Kazan). Si trattava di circa un terzo della popolazione cittadina, erano russofoni che, fatta eccezione dei tatari di Kazan, generalmente non conoscevano, o conoscevano malissimo, l’uzbeco e il tajico. Saranno loro i protagonisti principali del flusso di emigrazione del periodo post-sovietico. Secondo il censimento gli uzbechi costituivano il gruppo maggioritario nella città. Il loro numero era in realtà minore di quanto risulta ufficialmente perchè includeva molte persone di lingua tajica alle quali era stata attribuita burocraticamente (per ragioni politiche) la nazionalità uzbeca e che non volevano, o non osavano, dichiararsi tajichi al censimento. Poi vi erano i tajichi non “uzbechizzati”, gli iraniani che parlavano per lo più uzbeco e gli ebrei orientali (o ebrei di Bukhara). Nel complesso questi diversi gruppi nazionali autoctoni contavano di 451.000 persone che parlavano uzbeco o tajico e che generalmente conoscevano il russo.

I vari gruppi nazionali vivono ovviamente a contatto, ma vi sono quartieri in cui un solo gruppo o due gruppi sono in netta prevalenza. Esaminiamo questa distribuzione della popolazione su una carta recente della città.

carta 4: Samarkand, la composizione nazionale della popolazione e la loro collocazione sul territorio

I russi e gli altri slavi vivevano soprattutto nella zona del centro dove si trovano le principali istituzioni cittadine, parte degli edifici risalgono ai tempi zaristi e ma vi sono state più volte ristrutturazioni e modernizzazioni fino ad oggi (si veda sulla cartina dove segnato con 1); vivevano anche in un quartiere residenziale vicino (2); erano presenti in una serie di caseggiati degli anni ’50 nella zona che va dal quartiere indicato come 4 al quartiere 7; nell’ultimo periodo sovietico si erano inoltre creati quartieri di grandi case moderne dell’ultimo periodo sovietico (9 e 10). La maggior parte di loro ha lasciato la città negli ultimi 10 anni. Gli scienziati che abitavano in un quartiere riservato agli accademici (13), ed erano in prevalenza russi e tatari, sono anch’essi partiti. Tra i popoli deportati ai tempi di Stalin, i tatari di Crimea vivevano in un quartiere verde e ben curato (3), ora sono partiti. I tatari di Kazan abitano in quartieri misti, come quello benestante abitato anche da uzbechi (11) o in altre zone della città. Una parte di loro ha abbandonato la città. Anche parte degli armeni, che vivono in loro caseggiati (19) e in quartieri misti, se ne sono andati. La minoranza tedesca se ne è invece andata al completo, come anche quella ebraica che viveva in un quartiere del centro della città vecchia (16). I coreani sono invece prevalentemente restati in città Le minoranze autoctone presenti prima della colonizzazione russa sono generalmente rimaste a Samarkand. Tra di loro vi sono gli iraniani, che parlano uzbeco, ma costituiscono una parte a sé della popolazione locale e vivono in loro makhalla [quartieri] (4, 5, 6, 7), che la gente chiama kishlak [villaggio] per il loro aspetto di villaggio. Vi è anche una piccola comunità araba (8). Il quartiere più povero e disastrato, quello al di là della ferrovia e denominato zaliniya (12), ha mantenuto la sua popolazione mista. L’allontanamento di interi gruppi della popolazione ha portato via culture dallo spazio cittadino e, allo stesso tempo, ha aperto spazi nuovi per gente che si spostava all’interno della città o che arrivava dai kishlak vicini. Nei quartieri della città vecchia (a destra della linea tratteggiata) uzbechi e tajichi dei makhalla 14 e 15 si sono allargati nelle case che prima erano degli ebrei, mentre la minoranza zigana continua a vivere in un makhalla piccolo e poverissimo (18). Parte degli uzbechi e dei tajichi dei quartieri vecchi è stata costretta a spostarsi per fare spazio alla costruzione di spianate e di edifici di rappresentanza, e sono stati inseriti nei quartieri nuovi costruiti per i russi negli ultimi anni sovietici, che sono Sattepo (9) e Sogdiyana (10). In questi stessi quartieri si sono trasferiti uzbechi e tajichi dei kishlak vicini alla città e qualche famiglia iraniana. Per considerare da più vicino la trasformazione in corso, vi propongo di prendere in esame il quartiere di Sattepo.

carta 5: Sattepo

La struttura urbana e gli edifici sono tipicamente russi, analoghi a quelli che si incontrano nelle periferie di Mosca o nei quartieri recenti di qualsiasi città sovietica (ne ho indicato approssimativamente la collocazione in nero sulla cartina). Le case sono state costruite negli anni ’80 ed erano destinate ai russi. Ad esempio questa:

foto 1: casa abitativa sovietica per russi

Nei dintorni di Samarkand vi sono borgate operaie (Bam e Super), che erano abitate quasi esclusivamente da russi. Le loro case erano costruite attorno alla fabbrica, ora questa è chiusa e gran parte di russi se ne sono andati. Ritorniamo però a Sattepo. Anche qui i russi sono ormai pochissimi. Gli alloggi sono abitati da famiglie uzbeche, tajiche o iraniane. Queste ultime provengono dai makhalla 7 e 8 che sono di fatto inclusi in Sattepo. Le loro però sono famiglie grandi che si direbbe dovrebbero adattarsi con grande fatica a vivere in un piccolo alloggio. Avvengono però due forme di adattamento rilevanti. La prima di queste consiste nel fatto che nell’alloggio generalmente si trasferisce una coppia giovane con i figli piccoli mentre il grosso della famiglia vive nel kishlak o nel makhalla vicino. In questo modo il centro della famiglia rimane la casa dei genitori e qui avvengono le cerimonie che segnano il ciclo di vita dei suoi membri. L’alloggio diventa uno spazio aggiuntivo, che può essere comodo perché provvisto di acqua corrente e di riscaldamento (non sempre). Una foto del cortile interno di una casa del makhalla dà l’idea della differenza rispetto alle nuove case sovietiche:

foto 2: una casa vecchia del makhalla

La seconda forma di adattamento consiste nell’aggiustare gli spazi alla cultura locale. Si veda ad esempio questa casa:

foto 3: adattamento di una casa di Sattepo

Qui sono stati uniti due alloggi del pian terreno, ed è stata recintata una parte di territorio davanti alla casa. In questo modo l’abitazione presenta un muro di cinta uniforme e senza finestre, un giardino interno dove cresce la vite e altri alberi da frutta e dove c’è un immancabile tapchan (il lettone che si vede nella foto precedente) dove ci si riposa, si prende il te e si mangia, poi vengono le camere. In qualche modo si è riprodotto l’habitat proprio del makhalla. Ovviamente gli abitanti degli altri piani non possono sognare una possibilità di riadattamento analoga. Negli ultimi anni si è dunque verificato un rimodellamento dello spazio urbano investito dai modi di vita dei nuovi abitanti. Questi hanno parzialmente adattato gli spazi che prima erano degli slavi, ma anche li hanno subiti perché si sono trovati a vivere nei panni dei russi che se ne sono andati. Segni di una popolazione diversa si trovano anche in altri quartieri dove sono state costruite nuove abitazioni. Si tratta soprattutto quartieri di emigrazione nel centro cittadino, dove sono comparse le case di nuovi ricchi uzbechi e tajichi. Non poche di questi edifici rivelano ricchezze accumulate in modo oscuro da poliziotti, ispettori delle tasse, o noti mafiosi. Il fare mostra della ricchezza costituisce un fatto nuovo, segno anche di un diverso modo di presentarsi del potere e di un diverso valore della ricchezza. Il makhalla dei tatari di Crimea (3), ad esempio, le case erano ad un solo piano. Molte ora sono state abbattute e sostituite da nuove case a due piani (sotto ne vedete una). Alcune di queste case hanno grandi sale, saune ecc..

foto 4: una casa ristrutturate del makhalla dei tatari di Crimea

4. una casa, una scuola

I dati sulla popolazione russofona, che avete visto prima, indicano la parte della popolazione la cui posizione sociale viene messa in discussione a partire dagli anni della crisi dell’Urss. Si può dire generalmente che tutti i russofoni si siano trovati in una situazione di crescente deprivazione relativa perché diminuivano le prospettive di carriera, poi le stesse possibilità di mantenere l’occupazione e lo status di prima, infine le possibilità di avere altri spazi se non quelli ai margini dei nuovi assetti sociali. E’ stato un cambiamento rapido che ha spinto ad andarsene dal paese praticamente tutti coloro che avevano qualche possibilità di trovare un inserimento altrove. L’emigrazioni dei russofoni ha mutato radicalmente le relazioni sociali e la cultura soprattutto delle città principali. Ciò risulta particolarmente evidente se mutiamo la scala delle nostre osservazioni verso il piccolo: consideriamo ancora Samarkand, ma prendiamo in esame una casa e una scuola. La casa che scegliamo è stata costruita negli anni ’60 in un quartiere a grande prevalenza russofono, nei pressi di un bazar e di un makhalla iraniano. E’ una casa simile a molte altre di quartieri analoghi, che potete rintracciare nella cartina di Samarkand. Le interviste che ho compiuto mirano a indagare sui cambiamenti avvenuti negli ultimi dieci anni tra gli abitanti della casa. Gli alloggi sono una quarantina, alcuni di una sola stanza, qualcuno ora non è occupato.

Famiglie

Rimaste

Totale

Partite

Subentrate

 

 

 

Delle quali

 

 

 

 

In Russia

In Crimea

In Israele

 

russe

10

13

13

 

 

1 tatara

 

 

 

 

 

 

7 uzbeche

 

 

 

 

 

 

1 mista

Ebree russe

 

2

 

 

2

2 tajiche

Tatare di Kazan

1

 

 

 

 

 

Tatare di Crimea

 

2

 

2

 

 

Armene

2

2

2**

 

 

1 armena

Coreane

 

1

1**

 

 

 

Uzbeche

2

 

 

 

 

 

iraniane

2***

 

 

 

 

1 uzbeca

 

 

 

 

 

 

 

totale

17

20

 

 

 

 

* due a Mosca

** una a Mosca

*** una restata a Samarkand ma trasferita in altra casa

Negli anni ’90, sui 37 alloggi su cui ho informazioni, 29 erano abitati da famiglie immigrate in Uzbekistan in periodo sovietico, di 4 famiglie non conosco quando siano arrivate (quelle armene) e altre 4 erano senza dubbio locali. Escludendo queste ultime, risulta che 20 famiglie su 33 sono hanno abbandonato l’Uzbekistan. La loro destinazione è stata in genere la “madrepatria”, ossia la Russia, la Crimea e Israele per i rispettivi gruppi nazionali. Le famiglie subentrate sono in genere autoctone, ossia uzbeche e tajiche.

Per capire le ragioni dei russofoni che non hanno lasciato il paese, è utile soffermarci sui nuclei russi rimasti. Sono 10 nuclei, ossia 10 alloggi, ma io ho informazioni su 9. Sono composti così: tre nuclei sono formati da una persona sola e anziana; uno è una coppia anziana; un altro è costituito da una coppia anziana con una figlia separata e una nipote; una alloggio appartiene ad una famiglia che non vi abita che saltuariamente; un alloggio è usato la una donna russa che è diventata amante di un tajico, mentre la sua famiglia si è trasferita in altra casa; vi è poi un alloggio dove vive una donna che in genere si veste in modo uzbeco, il marito è alcolizzato, figlio è stato in prigione; in un altro vive una famiglia in grave crisi con tre figlie non sposate, due delle quali fanno le prostitute.

E’ evidente che le persone del gruppo russo, che non sono emigrate, sono particolarmente deboli perché sono anziane, oppure perchè appartengono a famiglie in una situazione di particolare degrado sociale e dipendenza.

Prendiamo ora in esame le famiglie russofone della stessa casa che nel 1990 avevano figli di 10-15 anni. Tra loro la tendenza all’emigrazione è particolarmente alta: su 17 ragazzini russofoni, 15 (inclusi uno russo-tataro e uno ebreo russo), appartenenti a 8 famiglie, sono emigrati; una ragazza vive in parte qui e in parte via, e fa la prostituta; un ragazzo è restato. Quasi tutte le famiglie con figli della casa sono partite.

Scegliamo infine come secondo punto di osservazione, la scuola russa del quartiere. In città vi erano molte scuole come questa, dove l’insegnamento era esclusivamente in russo. In altre scuole vi erano classi in uzbeco e classi in russo. Consideriamo i cambiamenti avvenuti nella nostra scuola nel corso degli ultimi quindici anni.

Nella scuola non vi erano classi in uzbeco, mentre il altre scuole vi sono sia classi in russo, che in uzbeco. Nel 1987, che è il primo anno su cui ho informazioni, vi erano 5 sezioni e il numero complessivo degli studenti era circa 1200. Nel 1994 una sezione venne abolita e le classi furono ristrutturate perché il numero degli studenti si era molto ridotto. Negli anni successivi la tendenza alla diminuzione continuò, nel 1996 il numero degli studenti era dimezzato rispetto al 1987. Parte degli studenti avevano lasciato l’Uzbekistan con le loro famiglie, parte si erano trasferiti in un istituto professionale, dove si considerava che fosse meno difficile raggiungere il diploma. Nel ‘97 le sezioni si ridussero a 2, l’anno seguente a una soltanto. Gli studenti che si diplomavano erano ormai poche decine. L’emigrazione continua ancor oggi, anche se a ritmi minori: quasi la metà degli studenti che facevano la decima classe nel 1997 è emigrata negli anni successivi.

Oggi nella scuola vi è ancora qualche classe in russo, ma la maggior parte sono in uzbeco. Molti insegnanti russofoni hanno lasciato la scuola; altri sono rimasti, ma conoscono poco l’uzbeco e si spiegano male con gli studenti che sanno male il russo.

Il calo numerico dei russofoni e il peggioramento della loro posizione sociale sono accompagnati da una evidente crisi interna della loro composita comunità. Se consideriamo le famiglie russofone che abbiamo incontrato nella nostra piccola indagine, i segni della crisi risultano evidenti. Ho già detto che molti dei russi non emigrano perché la loro posizione sociale non è tale da permettere il trasferimento in Russia o altrove. Le altre famiglie della stessa casa, che ho preso in esame, hanno in comune il fatto si essere sostanzialmente irregolari. Ho informazioni utili sugli abitanti di 32 alloggi della casa sui 40 esistenti. Tra di loro vi sono 4 famiglie uzbeche e 4 russe che possiamo definire come regolari, ossia composte dai genitori, qualche figlio e eventualmente i nonni. Tutti gli altri nuclei sono composti da nonni con nipoti, donne separate con figli o donne sole: ossia parti di famiglie che si sono disgregate. Segno evidente della crisi è l’alcolismo che, nella casa, troviamo diffuso tra uomini russi e, in minor misura, tra quelli tatari. In genere si tratta di uomini che non sono stati in grado di adattarsi alla caduta di status sociale dopo il crollo dell’Urss, hanno perso il lavoro e vivono di espedienti se non sono in grado di andarsene dal paese.

5. l’emigrazione della popolazione locale

La ridefinizione della configurazione dei rapporti di potere a livello della repubblica come a livello locale, una distribuzione della ricchezza decisamente più ineguale di quella esistente ai tempi sovietici, la crisi di molte attività produttive e una relativa restrizione delle possibilità di occupazione hanno avuto l’effetto di provocare fenomeni di perdita di status e impoverimento anche nella società autoctona. Il cambiamento in corso si riflette in crisi all’interno delle famiglie. Con una certa analogia con la parte russofona della popolazione, si assiste anche qui ad una crisi che riguarda anzitutto i ruoli maschili. La rottura dei matrimoni, che è un segno rilevante del malessere, è diffusa anche nelle famiglie uzbeche e tajiche. Il fenomeno ha però dimensioni minori, forse anche perché nella società autoctona esistono vincoli sociali in grado di contenere la crisi. Agisce in questa direzione il timore di giudizio negativo da parte dei familiari, dei vicini e dei conoscenti. Il rispetto da parte degli altri e la buona reputazione sono attributi a cui nessuno può rinunciare in questa società dove l’onore vale più della ricchezza.

Così accade che coniugi, che pur si separano ben più di quanto non avveniva nel passato, siano timorosi dei giudizio degli altri. Lo sono soprattutto le donne che, anche quando il marito non lavora e beve, tendono a non separarsi per non subire il discredito che colpirebbe loro e per la loro famiglia, ben più che i mariti. Le famiglie operano così per ricomporre gli equilibri diventati precari e soltanto in casi estremi, come quello di violenze, concordano i termini della separazione.

I rapporti di aiuto reciproco e di credito che intercorrono tra vicini nel makhalla o nel kishlak costituiscono altri strumenti per ammortizzare gli effetti negativi del cambiamento. Questi però non sono in grado di reggere all’impatto pesante della crisi di oggi. Così si vedono altri fenomeni gravi, quali la disoccupazione altissima soprattutto nelle regioni agricole (in particolare in quella più intensamente popolata, il Fergana), una rapidissima crescita della prostituzione, l’emigrazione della popolazione locale.

Intendo soffermarmi sull’ultimo di questi fenomeni che costituisce un fatto nuovo ed è visibile sul territorio. In molti kishlak dei dintorni di Samarkand negli ultimi anni sono comparse case ristrutturate o ricostruite integralmente. Il contrasto con le altre abitazioni, in genere molto modeste, è evidente. Le case appena decorate o con lavori in corso in genere sono il segno che la famiglia che vi vive ha un parente all’estero.

Fino a qualche anno fa era impensabile un’emigrazione consistente di uzbechi o tajichi. Si diceva che non lasciavano il loro kishlak o il makhalla perché facevano tesoro dei rapporti interni alla famiglia e evitavano di allontanarsi dalle loro reti di conoscenze personali indispensabili per ogni strategia individuale. Nel giro di pochi anni, direi dalla metà degli anni ’90, è invece iniziato un flusso di emigrazione ed è cresciuto a valanga. Non vi sono dati attendibili su questa emigrazione e vi è una discrepanza totale tra i dati ufficiali molto bassi (che sono frutto sia della volontà del governo di minimizzare gli espatri, sia del fatto che molti rimangono all’estero illegalmente) e la visibilità del fenomeno. Molti degli emigranti partono con l’intenzione di restare alcuni anni soltanto e ritornare con il denaro necessario ad aprire qualche attività economica, poi il loro soggiorno all’estero si prolunga molto più del previsto. Lavorano spesso in Corea o in Russia, ma anche in Europa occidentale o in America.

Si direbbe che molte famiglie uzbeche e tajiche non soltanto hanno inglobato i quartieri russi e delle altre minoranze non autoctone, ma hanno anche allargato le loro reti fino a comprendere, nello stesso bilancio familiare, persone che vivono ormai a migliaia di chilometri di distanza.

Gli uzbechi hanno iniziato a divenire padroni della loro repubblica in pieno regime sovietico grazie alla loro forte crescita demografica, a politiche di azione affermativa rivolte a sostenere e coinvolgere il gruppo titolare della repubblica, e alle reti di protezione e favoritismo che gravitavano attorno ai loro boss politici. Poi l’Urss è entrata in crisi, sono venute meno le risorse concesse da Mosca alla repubblica e le politiche di sostegno alla mobilità sociale verso l’alto degli uzbechi si sono arenate. Dopo il crollo del regime, nuove risorse si sono rese disponibili, quelle liberate dai russofoni che se ne stavano andando. A Samarkand, dove a fianco degli uzbechi vi è una consistente comunità tajica, la “nazionalizzazione” ha seguito un duplice binario: gli uzbechi sono diventati dominanti negli apparati dello Stato, i tajichi si sono appropriati della maggior parte delle attività commerciali. I primi hanno il potere dello Stato dalla loro parte, possono essere poliziotti, ispettori delle tasse, burocrati di vario tipo, e hanno tutti gli strumenti, legali e non legali, per giovarsi della loro posizione e anche per esigere che parte della ricchezza del commercio arrivi nelle loro mani.

Cambia intanto la cultura nella città (e in tutto il paese). Nelle scuole le classi in russo sono quasi totalmente scomparse e prima erano quelle di maggior prestigio, gli studenti russofoni oramai sono ben pochi. Ora si studia quasi esclusivamente in uzbeco, come è naturale che sia, ma sono intere biblioteche a restare obsolete e una cultura, quella “coloniale” russa e sovietica, ad allontanarsi. La gente arriva in città dai kishlak vicini, sono contadini entrano nei nuovi spazi, li adattano. La città diventa più simile a un villaggio.

confini che cambiano (conclusioni)

Ho considerato soprattutto il peso attuale di confini costruiti ai tempi sovietici, ossia la forza di inerzia di un discrimine che potremmo definire coloniale, tra la popolazione immigrata in conseguenza di politiche imperiali zariste e poi sovietiche, e le popolazioni autoctone. I confini che dividono le repubbliche e i confini delle appartenenze nazionali, culturali e religiose sono in effetti rimasti apparentemente dove erano prima del crollo dell’Urss. E’ però cambiato il loro significato, ossia i rapporti esistenti tra quegli Stati e tra quei gruppi sociali e culturali. L’eredità del passato consiste soprattutto nel fatto che le appartenenze nazionali e la specificità di quella del mondo russo si sono costruite per decenni e sono entrate a far parte del modo di pensare di tutti. I soggetti, che si distinguono e creano confini, stanno evidentemente cambiando. Prendono forza nuove vicinanze, che faranno svanire distinzioni, mentre nuovi discrimini si stanno costruendo: gli slavi, ridimensionato il loro numero e il loro ruolo, costituiscono già una minoranza sostanzialmente diversa da quella che erano prima; i principali gruppi nazionali autoctoni troveranno, come già stanno facendo, un modo di convivere nel nuovo quadro dei rapporti di potere mentre diventerà più significativo il fatto di condividere la posizione di cittadini della repubblica; le appartenenze regionali continueranno ad essere rilevanti finché lo Stato avrà una natura patrimoniale e non democratica; la comunanza di fede, che segnava un discrimine verso i russi, diventa meno significativa dopo la loro partenza, mentre si fanno più importanti divisioni politiche nuove tra musulmani.

Per indagare più a fondo su questi temi bisognerebbe studiare come cambiano le forme di autorappresentazione. Questo servirebbe a capire non soltanto come mutano i confini, ma anche come cambia la loro natura, ossia quali contatti questi permettono e quali inibiscono. Bisognerebbe studiare le retoriche politiche, indagare sulle varie anime interne alla cultura islamica, capire come cambia la visione del mondo di una famiglia di kishlak che ora vive in mini-alloggi russi, interrogarsi sui modi di autorappresentarsi di chi è diventato molto ricco o delle famiglie di chi lavora all’estero, e così via. Io però mi fermo qui.