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Marco Meriggio

Università di Napoli Federico II

Confini / Grenzen

Convegno di studi / Studientagung

Bolzano-Bozen, 23-25 settembre/ 23.-25. September 2004

Sui confini nell’Italia preunitaria

Metà degli anni ’40 dell’800. Il governo del regno delle Due Sicilie – in applicazione del trattato concluso il 26 settembre 1840 – dispone la costruzione e la messa in posa di 332 “colonnette lapidee” in travertino, o pietra viva di calcare, o tufo arenario ( a seconda della più agevole reperibilità in loco dell’uno o dell’altro materiale ) lungo la linea delle sua frontiera di terra, quella con lo Stato pontificio. Dovranno sostituire i paletti di legno sin lì in uso, che – si intuisce – sono facili vittime delle intemperie o del transito degli animali, o, ancora, preda di mani umane in cerca di qualcosa con cui accendere il fuoco.

Quella che – per altro solo in capo a qualche anno, e con molte traversie – viene prendendo forma non è, evidentemente, una muraglia cinese, né c’è modo di intercettare lungo la linea virtuale che quelle colonnette disegnano chi sia caparbiamente determinato a varcarla. I posti di controllo dei passaporti, collocati lungo le strade postali, sono pochi, mentre la frontiera è lunga e spesso impervia ; infiniti i valichi più o meno comodi che secoli di abitudine hanno sedimentato. Servono, dunque, in realtà, quelle colonnette, essenzialmente come monito dell’esistenza di un confine di stato, che divide giuridicamente i “regnicoli” dai sudditi del papa. Per varcarlo legalmente è necessario un passaporto per l’estero, del costo di 52 grana,chele intendenze provinciali possono rilasciare solo previa autorizzazione del Ministero di polizia, e questo, naturalmente, può concederla o meno, discrezionalmente. Nei passaporti per l’estero “ oltre de’ connotati personali, verrà indicato l’oggetto della partenza e il tempo dell’assenza”. Bisognerà mostrarli ai posti di frontiera, e farli vidimare, pena il trovarsi in stato di illegalità.

Ma quello con lo Stato pontificio non fu il solo né il principale dei confini che i sudditi borbonici si trovarono a fronteggiare nei decenni preunitari.

C’era ovviamente, un altro grande confine di stato, quello segnato dal disegno costiero. E qui naturalmente a nessuno venne in mente di piazzare delle colonnette. A esercitare la funzione di controllo sui naviganti in partenza avrebbero dovuto essere gli uffici di capitaneria di porto e di deputazione sanitaria. Ma la polizia, nel 1842, notava che “ alcuni capitani di bastimenti, fingendo dirigersi ne’ porti della Sicilia o in altri de’ Reali domini, vanno invece a Malta, col quale mezzo alcuni regi sudditi, cui non potrebbe concedersi regolarmente di recarsi allo straniero, si sono condotti in quell’isola” muniti di documenti non validi per l’espatrio. Non c’era altro da fare che minacciare pene severe ai capitani, oltre che ai viaggiatori clandestini, probabili cospiratori politici.

Ma il fatto è che i passaportinon servivano solo per abbandonare il regno. Servivano, invece, anche e soprattutto per muoversi al suo interno.

Un regolamento del ’21, emanato appena dopo la revoca della Costituzione, e mantenuto in vigenza fino al 1836, prescriveva che ogni maschio di età superiore ai 15 anni si munisse di una carta di sicurezza, rilasciata dal sindaco e timbrata dal regio giudice, valida per un anno, in compagnia della quale era tenuto a muoversi ogni volta che volesse spostarsi, all’interno della propria provincia, al di là del raggio verosimilmente coincidente con la propria “notorietà pubblica”: il circondario, sottounità amministrativa della provincia. E se poi ci si voleva muovere da una provincia all’altra era necessario un passaporto ( chiamato dal 1836, anno di abolizione della carta di sicurezza, carta di passaggio ), emesso in linea di principio dall’intendente provinciale e solo in casidi urgenza e “quando trattasi di persone notoriamente immuni da ogni eccezione” dal sindaco, con l’eventuale timbro del giudice di circondario. I passaporti per l’interno avevano una validità nel tempo fissata inizialmente in due mesi e poi gradualmente estesa fino a sei mesi dagli anni ’30 in avanti ( ma subito di nuova ridotta ad appena un mese dopo la rivoluzione del ’48). Salvo casi particolari, li si pagava, in ragione di un tariffario variabile, ispirato ad una visione corporato-cetuale, più che individualistica, della società: 33 carlini i “nobili nazionali e titolati” ; 23 carlini“ i negozianti”; 13 carlini i “proprietari”; 52 grana tutti gli altri, tranne gli esentati, cioè sin dall’inizio “ i bracciali, i pastori e generalmente tutti coloro che sono notoriamente poveri “ e in seguito “quelle persone che, sia per possidenza, sia per commercio abbian bisogno notoriamente di una continua comunicazione nei comuni delle provincie limitrofe”. E con la semplice carta di passaggio, e sempre a titolo gratuito, furono autorizzati a recarsi all’estero i “bracciali, e pastori di Terra di Lavoro e degli Abruzzi”, quanti, insomma, si procacciavano per una parte dell’anno il pane nello Stato pontificio.

Le pene previste per chi veniva sorpreso al di fuori del proprio ambito “notorio” senza i documenti in regola erano sia pecuniarie sia detentive ( da 1 a 3 giorni di carcere, da 1 a 6 ducati di multa ), ma i pochi indizi che ho rinvenuto intorno alla loro irrogazione mi lasciano pensare ad una modalità punitiva relativamente dolce.

Gran parte dei poveretti sorpresi lontani da casa, dopo aver varcato il confine del circondario e quello della provincia, senza i documenti giusti in tasca, se la cavarono probabilmente con qualche notte di galera, in attesa che la polizia eseguisse gli accertamenti del caso e che questi dessero esito positivo, cioè non evidenziassero una condizione di “vagabondo”, che portava invece dritto in qualche casa di lavoro forzato o in qualche caserma, come coscritto “coatto”; mentre, verosimilmente, per le persone manifestamente “civili” la sanzione si limitò a una multa, incassata direttamente dalle autorità di polizia, che un carteggio del 1840 ci presenta intente a scongiurare un minacciato sconfinamento della magistratura in questo loro esclusivo campo di attività.

Per altro,sicuramente moltissimi, malgrado la minaccia delle sanzioni, continuarono a muoversi all’interno del territorio del regno senza le carte necessarie. Molti però presero l’abitudine di munirsene, come attestano i registri di distribuzione della carte di passaggio forniti dalle Intendenze al Ministero di polizia, così come le pressanti richieste di nuove carte in bianco inviate dai comuni alle intendenze.

I sudditi borbonici vennero così interiorizzando l’esistenza di una definizione amministrativa statale dello spazio, che sovrapponeva il proprio reticolato di carte, di funzionari, di linee di confine al territorio, obbligandoli a frequenti contatti ravvicinati con le istituzioni ( il sindaco, il giudice, l’intendente, il ministro di polizia ). Pastori e braccianti continuarono a spostarsi a seconda delle stagioni e delle opportunità, come facevano da secoli, ora migrando da una zona all’altra del regno, ora portandosi nello Stato pontificio, ma dovettero imparare a farlo a meta e a tempo definito, provvisti di una carta misteriosa il cui contenuto in genere non sapevano leggere, che occorreva far timbrare ad ogni piè sospinto, e che li metteva talvolta alla mercè della bassa manovalanza incaricata dei controlli, le cui abitudini vessatorie il ministro di Polizia era il primo a riconoscere e a stigmatizzare, dichiarandosi però, al tempo stesso, pressoché impotente a reprimere e a arginare.

Quella qui rapidamente evocata non fu, nell’Ottocento preunitario, una vicenda occorsa nel solo Mezzogiorno continentale. Nel 1838 il sistema delle carte di passaggio venne esteso anche alla Sicilia, che sin lì l’aveva ignorato. Ma qualcosa di molto simile – come è emerso da una recente ricerca di Andrea Geselle, la sola, a mia conoscenza, dedicata allo studio estensivo del problema dei confini amministrativiin uno stato dell’Italia preunitaria ( cfr. Geselle in Heindl-Saurer )– ebbe luogo anche nel Lombardo-Veneto, e specialmente nella porzione di questo regno situata a oriente del Mincio ; nelle province venete, i cui abitanti, per spostarsi da una delegazione ( provincia) all’altra, ebbero bisogno durante i decenni della restaurazione di un documento dalle caratteristiche assai prossime a quelle della napoletana carta di passaggio. Curiosamente, per i lombardi, i quali, pure, facevano parte dello stesso regno, i vincoli alla libertà di movimento furono, invece,nella stessa epoca, unicamente di tipo regionale ; ma anche per loro quella del Mincio era una frontiera ; per varcarla ci voleva un passaporto.

Per gli uni e per gli altri, per i veneti e per i lombardi, recarsi all’estero divenne comunqueun’impresa da affrontare con modalità sostanzialmente analoghe a quelle in vigore nel regno delle Due Sicilie, sebbene non fosse infrequente il caso di emigranti stagionali dalle aree di montagna che continuavano a muoversi come avevano sempre fatto, attraversando valichi incustoditi, e che si facevano dunque magari sorprendere in Stiria od in Carinzia muniti semplicemente di un informale certificato di riconoscimentorilasciato loro dal parroco del paese. Talvolta trasgredivano la legge scientemente, per evitare le complicazioni e i costi della procedura burocratica, talvolta invece semplicemente la ignoravano. Nella loro mente non esistevanoconfini di distretto,di provincia,di stato; il loro confine era l’energia residua nelle gambe e il conseguimento della meta, un’opportunità di lavoro transitorio.

Ma a introdurre per i primi la definizione amministrativa dello spazio, e a disegnare un reticolato di linee di confine interneal territorio statale non erano stati i governi della restaurazione, bensì quelli napoleonici del primo quindicennio dell’Ottocento, tanto a Milano quanto a Napoli ( seppure con modalità diverse ). Napoleone aveva portato in Italia un antico costume che la rivoluzione aveva provvisoriamente abolito ( cfr., in proposito, gli studi di Noiriel e di Torpey ), ma che la più “amministrata” delle monarchie europee di antico regime – quella francese – conosceva già dal Settecento. A rendere più efficace il sistema di controllo – ad avvicinare, dunque, la realtà alla norma teorica – c’era ora la titolarità esclusiva del governo del territorio da parte dello stato , l’irradiazione estensiva della macchina amministrativa, e, soprattutto, l’invenzione dell’anagrafe( cfr. lo studio di Faron sull’anagrafe di Milano ), basilare strumento di identificazione analitica della popolazione.

Il controllo del movimento e i sistemi di confinazione interna ad esso corrispondenti rispondevano a motivazioni soprattutto fiscali e militari ( si pensiall’introduzione, in quell’epoca, della coscrizione obbligatoria ) e , non a caso, riguardavano essenzialmente la popolazione di sesso maschile. Nel regno delle Due Sicilie, come abbiamo detto, le donne non erano tenute a procurarsi carte di ricognizione e, se viaggiavano accompagnate, figuravano direttamente sul passaporto o sulla carta di passaggio dell’uomo al loro fianco.

Ma accanto a differenziazioni legate al genere ve ne erano anche altre, spesso non esplicitamente codificate, ispirate da un diverso ordine di considerazioni.Un trattatello sulla polizia in Sicilia, scritto nel 1841 da un giudice isolano, raccomandava ai funzionari di polizia locali di “ eccettuare quei soggetti ne’ quali il funzionario resterà persuaso, che si appartengono ad un rango distinto” dalla procedura difermo normalmente da applicarsi agli stranieri in giro con il passaporto non in regola, o affatto sforniti di questo. I religiosi, a loro volta , tendevano a muoversi senza documenti e a lungo questa loro abitudine venne tollerata. La loro cittadinanza, del resto, era ecclesiastica, prima ancora che statale, e il loro passaporto era costituito dall’abito. Ma, come si sa, l’abito non fa il monaco, ed il camuffamento in veste clericale fu pratica ben conosciuta da chi intendeva, per un motivo o per l’altro, sottrarsi ai controlli.

Agli spostamenti relativamente liberi, da provincia a provincia e da stato a stato, di pastori e braccianti della Terra di Lavoro e degli Abruzzi, abbiamo già accennato. Ma, come risulta dalla ricerca di Andrea Geselle, anche lungo il corso del Po, sulle cui sponde, da Mantova alla foce, si affacciavano ben 4 stati diversi ( Lombardo-Veneto, Ducato di Parma e Piacenza, ducato di Modena e Reggio, Stato pontificio ) , le autorità confinarie finirono per abituarsi a sopportare l’esistenza di una vasta zona franca – quasi uno Stato-comunitàautonomo, formato da frammenti dei quattro Stati sopra ricordati-, dal momento che non c’era verso di piegare le popolazioni locali all’adeguamento delle loro tradizionali pratiche di movimento alle prescrizioni statali. Chi viveva lungo il fiume, o nella sua prossimità, non si sentiva, in realtà, suddito di alcuno degli Stati di cui l’acqua segnava il confine ( l’anagrafe, del resto, specie in periferia procedeva a stento e ci vollero decenni prima che la si completasse ) e le reti parentali, amicali, solidaristichedella gente di fiume fecero del corso del Po una unità spaziale retta da una logica sostanzialmente a-istituzionale.

Ne sapeva qualcosa, nella finzione letteraria, anche il Fabrizio Del Dongo della Certosa di Parma stendhaliana ( capitoli XI e XII ), che in un famoso episodio del romanzo riesce, con varie complicità locali, a sfuggire all’arresto aggirando ripetutamente la sorveglianza confinaria, ora con documenti falsi ora con l’aiuto di qualche battelliere, e si sposta a ritmo forsennato tra il ducato di Parma e Piacenza, il Lombardo-Veneto, lo Stato pontificio.

Ma forse il confine più importante che Fabrizio incontra lungo la propria strada è quello cittadino. L’eroe della Certosa dovrà ricorrere a tutta la propria fantasia per entrare ( pur sempre con un documento falso) in modo formalmente legale a Bologna, dove sa che le possibilità di incappare in un controllo sono molto maggiori.

Spostiamoci di nuovo nel regno delle Due Sicilie, perché le disavventure di Fabrizio furono, all’epoca, comuni a molti, e non soltanto nelle Legazioni pontificie.

Per trattenersi a Napoli,stranieri e provinciali del regno avevano bisogno, oltre che della carta di passaggio da mostrare alle porte della città, di un permesso di soggiorno, rilasciato dalla Prefettura a pagamento e discrezionalmente, della durata di due mesi. A partire dagli anni ’30 scomparvero le barriere all’ingresso della capitale e vennero spostate ai confini della provincia, lungo le strade carrozzabili, per facilitare la circolazione e il commercio. Molti, ovviamente, avrebbero potuto a questo punto eludere i controlli e entrare in città attraverso vie secondarie o semplicemente per i campi.

Ma il fatto è che, scaricato almeno in parte dalle spalle della polizia, l’onere di garantire il rispetto della legge passava ora alla popolazione cittadina intera. Ogni privato, ogni congregazione religiosa, ogni titolare di bettola o d’albergo che avesse dato ospitalità a un extra-cittadino era infatti tenuto ad accertarne preventivamente la regolarità della documentazione e a “manifestare a’Commessari de’ quartieri di Napoli (..) le persone che vogliono pernottare” entrole 24 ore. Lo stesso avrebbero dovuto fare, in ogni altra località del regno, quanti a loro volta avessero alloggiato un extra-territoriale, dandone in questo caso comunicazione alle autorità di polizia più prossime. Le contravvenzioni a questa disposizione erano tutt’altro che lievi : otto giorni di arresto o 25 ducati di multa, “ e col doppio della prigionia o della multa quando trattasi di locandieri o affittacase, o capi delle corporazioni religiose”. Per Napoli, inoltre, era previsto un raddoppio delle sanzioni-base.

Ciò che si voleva conseguire ,affermavano le autorità di polizia, era di salvaguardare la tranquillità del regno e per questo, nel 1836, ritenendo di essere “dopo tante cure giunti ad ottenerla”, si decise di rendere l’intero sistema meno rigido di quanto non fosse stato disegnato dalla legge del 1821. Venne così portata da due a quattro mesi ( più tardi a sei) la validità delle carte di passaggio ordinarie ( quelle, cioè, non riservate a pastori, braccianti o nullatenenti, che già valevano per un anno) e contestualmente vennero abbassate le tariffe per ottenerle. L’ultima fiammata rivoluzionaria – quella del ’20-’21, che molti storici hanno interpretato, non a caso, come un vero e proprio assalto delle province alla capitale – era ormai lontana e non se ne intravedevano altre all’orizzonte . E il nuovo re, dai primi anni trenta, aveva inaugurato la pratica di compiere frequenti viaggi fuori dalla capitale, per ascoltare con le proprie orecchie le lamentele dei suoi sudditi. Gliene erano arrivate di infinite proprio a proposito del regolamento del 1821, che “era troppo inceppante il traffico de’ sudditi” e ritardava le comunicazioni ed il commercio. Per questo aveva dato disposizione al Ministero di polizia di elaborare il regolamento “alleviante” del 1836.

Il fatto è che con le complicazioni burocratiche si finiva, in realtà, per tormentare soprattutto i “bene intenzionati”e per rendere meno produttiva l’economia del paese. Con le carte false, facili come esse erano da riprodurre, e con tutti i limiti di identificazione derivanti dall’assenza di fotografie sui documenti, chi voleva viaggiare illegalmente lo faceva senza troppe difficoltà ( cfr., ancora, il caso del Fabrizio Del Dongo stendhaliano). Questa constatazione valeva tanto per le due Sicilie quanto per il Lombardo-Veneto.

L’erario si arricchiva un poco con gli introiti incassati attraverso l’emissione dei documenti e bolli annessi, ma la strozzatura così imposta ai traffici di fatto impoveriva la sua base impositiva. La confinazione interna era nemica dei tempi nuovi , anche sotto il profilo del valore del tempo che da essa scaturiva . Si pensi al caso dei montanari veneti e friulani , obbligati a effettuare estenuanti detours fino a Venezia per procacciarsi un passaporto per i Länder austriaci situati sul versante opposto delle Alpi, e compiere poi con questo un viaggio a ritroso per raggiungere un confine, che le generazioni precedenti avevano varcato tutt’al più con la sola fede di battesimo in tasca, imboccando immediatamente la via più breve dal paese alla loro meta.

Mentre nel regno delle Due Sicilie dopo il ’48 i regolamenti tornarono a farsi rigidi e restrittivi, nel Lombardo-Veneto vennero resi più flessibili. Il deus ex machina che cambiò le carte in tavola fu la ferrovia. Anch’essa – argomentavano i funzionari del ministero del commercio – costituiva un ramo del pubblico erario,e da essa ci si aspettavano grandi benefici per l’economia. Ebbero la meglio, alla fine, sui funzionari preposti al controllo dell’ordine pubblico.Per questo, quando i primi tratti della linea da Milano a Venezia cominciarono a funzionare, ai lombardi fu consentito di muoversi liberamente verso il Veneto, mentre i veneti si videro schiusa la libera circolazione entro la propria regione e fino alla provincia lombarda di Mantova.

Test diverifica dell’efficienza disciplinare dello stato amministrativo moderno, il controllo analitico del movimento, il gioco reiterato dei confini, finiva per tradursi inesorabilmente in un ceppo per l’economiadi mercato. Malgrado le istituzioni politiche restassero, fino all’unificazione nazionale, assolutistiche e autoritarie, il movimento economico e sociale spingeva ormai nella direzione opposta, verso il liberismo che sarebbe stato caratteristico dei decenni tra l’Unità e la grande guerra.

Riferimenti bibliografici :

G. Noiriel, Etat, nation et immigration. Vers une histoire du pouvoir , Paris 2001
J. Torpey, The invention of the passport . Surveillance, citizenship and the State , Cambridge 2000
A.Geselle, Bewegung und ihre Kontrolle in Lombardo-Venetien , in W.Heindl-E.Saurer ( a c. di), Grenze und Staat. Passwesen, Staatsbürgerschaft, Heimatrecht und Fremdengesetzgebung in der österreichischen Monarchie 1750-1867 , Wien 2000, pp. 347-515
O. Faron, La ville des destins croisés. Recherches sur la societé milanaise du XIXesiècle, Roma 1997
M.Meriggi, La cittadinanza di carta , in “Storica”, 16 ( 2000), pp.107-120
Henry Beyle ( Stendhal), La Chartreuse de Parme