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Memoria e crisi della società del ricordo

Antonella Tarpino

Antonella Tarpino

L’argomento del mio intervento pertiene al tema della memoria ma è bruscamente, forse provocatoriamente, tagliato sulle caratteristiche della sua crisi; chiama in causa il Novecento ma si sofferma sulle distorsioni delle esperienze più recenti.
Incrocia una disciplina sovraesposta come la storia (e anche la sociologia) ma percorre binari in parte paralleli. Ha a che fare con temi più generali quali la crisi delle categorie di tempo e di spazio, come quelle di comunità e legame identitario, mantendo insieme un ambito specifico di riflessione.
Al centro della riflessione è la trasformazione delle forme della memoria pubblica in bilico tra progressivo disincantamento e ipertrofia del ricordo; tra caduta della memoria e ritualizzazione crescente del passato. Tra raffreddamento della memoria istituzionale e surriscaldamento del Luogo memore.

Scaletta

1. Il tumulto memoriale: la crisi delle forme del ricordo pubblico

2. Dalla polarità tra memoria e oblio (Yerushalmi, Augé, Todorov, Weinrich) all’ossimoro tra memoria debole e ipermemoria (Pierre Norà, Charles Mayer, Georges Bensoussan).

3. Il cuore di tenebra della memoria del ‘900: Auschwitz e il ricordo muto. Dalla figura del Sopravvissuto a quella del Testimone all’Apostolo.

4 “Memoria culturale” e “memoria comunicativa”: Il divario crescente tra storia e memoria. Una storia sociale del ricordo?

5. Memoria dell’intimo : verso la memoria come rassicurazione.
– Narrazione e spettacolarizzazione del ricordo
– Il Luogo dolente e la comunità immaginaria: i surrogati dell’identità
– L’antico dimora: genealogia del ricordo (cinema alla letteratura antropologia culturale).

6. Memoria e amnesia: politiche del ricordo

Di questo fenomeno sussultorio che attraversa la memoria testimoniano -seguendo successive mutazioni- già gli studi pionieristici di Yerushalmi, lo storico della cultura ebraica, autore oltre che del famosissimo Zakhor sulla memoria ebraica di non meno acute riflessioni sull’oblio: prendere in considerazione il ricordare non ci esime infatti per Yerushalmi dal dimenticare. Il dimenticare é costitutivo se non in senso stretto della memoria (che comunque presuppone delle selezioni interne) di ciò che lo studioso definisce la reminiscenza, o l’anamnesi, cioé il “ricordo di ciò che si é dimenticato” su cui si fonda gran parte della conoscenza. Su un altro versante anche l’antropologo culturale Marc Augé, attento gli ossimori della contemporaneità, in primo luogo spaziali, ribadisce la consustanzialità tra memoria e oblio votati a una contiguità non dissimile da quella che intercorre tra la vita e la morte. Inteso allora non come perdita ma come elemento fisiologico, ciò che si dimentica é, per Augé, un materiale interno, passato attraverso un sedimentato processo di elaborazione. L’oblio é dunque, sulle orme di Ricoeur, anzitutto una figura del tempo: una forza viva della memoria senza la quale il ricordo stesso é impensabile. Né la memoria é di per sé un valore sempre e comunque positivo come azzarda provocatoriamente Todorov nel suo recente La memoria del male, quando diviene arma arbitraria per il preente (Esempio Pal)
Questa fertile antinomia fra memoria e oblio ha segnato un ricco filone di ricerca di carattere storico-letterario-psicanalitico: penso in particolare al bellissimo libro di Harald Weinrich, Lete arte e critica dell’oblio, che ricostruisce attraverso una carrellata di figure letterarie e artistiche il valore vitale dell’oblio definito da Goethe “sublime dono di Dio” da valutare, usare, intensificare: e ciò almeno fino alla cesura di Auschwitz che pure in altre termini, più drammatici si ripropone il dilemma se l’oblio non militi anche un po’ dalla parte della vita?
Eppure mi sembra che nei tempi più recenti a questa polarità in dialogo memoria-oblio sia subentrata, nelle distorsioni sempre più accelerate della temporalità, un più radicale ossimoro tra una memoria quella tardomoderna avvertita come “debole” intermittente, svuotata dei suoi contenuti identitari, disegnata piuttosto sulle superfici effimere di una comunicazione elusiva e per definizione mutante, e, al contempo, una memoria espansa alla sua massima potenza, pervasiva e debordante “una virtù ipertrofica” (l’espressione già ricordata all’inizio é dello storico Charles Mayer) oppressa da una tendenza cannibalica a musealizzare, a perpetuare una pratica commemorativa narcisisticamente compiaciuta e autoindulgente: una tendenza, insomma morbosa e inautentica alla canonizazione liturgica della memoria. A questo destino non pare sottrasi nenche la memoria dovuta della shoah sempre più preda di una sorta di perversa industria della memoria, come sembrerebbero provare i numerosi musei americani dell’Olocausto improntati in taluni casi a una spettacolarizzazione edificante della sofferenza. Così da considerare con preoccupazione, come fa Mayer, questo “eccesso di memoria” ripiegato patologicmente su se stessa, il segno della caduta di un progetto di futuro, un ritirarsi, rassegnato e spento, dall’agire politico.
A questa sorta di “liturgia laica”, per tramite della quale il sentimento della nostra precarietà si traduce in una garanzia di identità fa riferimento anche la riflessione di Geroges Bensoussan, tra i più importanti storici della shoah in Francia nel suo recentissimo L’eredità di Auschwitz? Sul buon uso della memoria. La logorrea nel ricordare non esclude per lo studioso -a conferma della nuova polarità nelle forme della memoria, tra caduta e ipertrofia- l’amnesia e il ricordo di per sé non ci tutela dall’esperienza di Auschwitz. La mistica della memoria, che indulge a forme di spettacolarizzazione, nasconde il volto tutto umano del crimine di Auschwitz: anche qui la memoria si può ergere pericolosamente contro la storia. Tanto più, come alcuni sono tentati di fare, quando si presenta l’Olocausto come un tributo inesorabile alle componenti arcaiche della nostra storia, e non sulle orme del Bauman di Modernità ed Olocausto come il prodotto più violento della nostra, tutta storica, modernità: nelle sue dimensioni burocratiche e tecnocratiche, in qual composto di razionalità, programmazione, organizzazione sistematica del crimine come processo di produzione. Nell’isolare lo sterminio dalla sua storia, tutta umana, di tecnica al servizio della pianificazione, la memoria dei campi come pura testimonianza di una barbaria irrazionale risulta una forma di oblio colpevole. La sola pietà, la compassione per le vittime avulsa dalla riflessione sulle condizioni che hanno consentito lo sterminio -questo é il monito di Bensoussan- non ci preserva dal rischio che il delirio del genocidio non si possa ripetere. E’ in questa forma di relativismo -che accomuna tutte le vittime della storia nel culto di una memoria “del consenso” – che si annida il pericolo più grave: più grave, ancora, conclude estremizzando Bensoussan, delle aggressioni e delle mistificazioni del negazionismo.

2. La memoria della cesura: la Shoah come emblema

Consideriamo più da vicino quel Luogo cruciale della memoria novecentesca che é Auschwitz, tale da aver significato una cesura epocale nelle forme del ricordare: fino ad azzerare il contenuto etico di termini fino ad allora dotati di una dignità letteraria e filosofica come oblio nelle parole di Weinrich, o al contrario fino a rivalutare il peso poetico di verbi etimologicamente antichi come scordarsi (da cor, sede propria della memoria): cioé perdere dal cuore. La memoria si profila dunque come dovere umano reso assoluto e imperativo, così come si é configurata dopo gli orrori dello sterminio, ma, insieme, la memoria come dovere muto, senza parola, incapace di ricongiungersi alla sua sede naturale (il cuore del verbo scordarsi) dopo il trauma di ciò che si é visto. La vista, che nel vivo di un’esperienza così incomprensibile, ha ucciso la parola e ha generato quella memoria glaciale, di chi ha assistito a una cosa abnorme, sproporzionata alla propria stessa capacità di percezione, e ha perduto così la possibilità di comunicarla, di trovare i termini per farsi capire.
Anche qui, forse proprio qui nel cuore della memoria tragica del ‘9OO, prende forma quel paradosso di sovrabbondanza e caduta, di eccesso (di esperienza non esperibile, non elaborabile) e insieme di impotenza (di perdita di senso da trasmettere e comunicare) proprio del nostro complesso ricordare. Condizione muta, perdita della parola, incapacità di dar un nome allo sterminio: questa tenace opacità anche terminologica di quell’esperienze si riflette negli studi recenti di autori attenti alle problematiche della Shoah; come il libro I nomi dello sterminio di Anna Vera Calimani incentrato proprio sull’impossibilità della rappresentazione di quell’esperienza, sulla sua indicibilità e dunque sulla approssimazione delle molte formule linguistiche impiegate spesso impropriamente per designare l’evento: Olocausto, genocidio, Soluzione finale, Auschwitz. Di queste solo l’espressione Shoah -secondo l’autrice- proprio per la sua essenza di parola semanticamente incerta,estranea per di più al ceppo indoeuropeo, può forse dar congruentemente nome all’indicibile: parola, in forma di enigma, a ciò che é senza parole.
E del resto é ancora una figura legata alla polarità del vedere e del parlare (quasi appunto fossero esperienze antinomiche) e cioé la figura del testimone a porsi al centro della memoria stessa, accidentata e tortuosa, della Shoah. Non a caso, emblematicamente, L’era del testimone é il titolo di un libro importante della studiosa Annette Wieviorka (autrice anche di Deportazione e genocidio. Tra la memoria e l’oblio). E’ il testimone il personaggio chiave del paradigma originario della nostra memoria. L’assenza di Dio, o quanto meno il suo silenzio sarebbero compensati dalla nascita della eterna memoria del testimone: “Auschwitz é altrettanto importante del monte Sinai” nelle parole di Elie Wiesel, il testimone é un nuovo Mosé. Dotato di una natura ultraterrena il testimone ha visto da vicino la morte sua e degli altri ma é tornato dal regno delle tenebre e ce la può raccontare: solo attraverso la deposizione del testimone gli eventi acquisiscono realtà, come avviene per la prima volta con il processo ad Eichmann nel maggio 1960. Con il processo Eichmann il testimone -afferma l’autrice- si fa portatore di storia inaugurando la figura di uomo-memoria capace di attestare la realtà del passato e la sua pesante incombenza nel presente. Con quel processo la condizione di sopravvissuto vissuta dai reduci dei campi negli anni del dopoguerra si muta in quella di testimone acquisendo per questa via, per la prima volta, un’identità sociale. Sopravvissuto, testimone: la figura del testimone sembra destinata* ad entrare progressivamente in crisi: con la spettacolarizzazione della Shoah (il discusso serial Olocausto prima poi soprattutto il film Schindler’s List di Spielberg nel 1994) alla finalità fino ad allora cruciale della testimonianza subentra quella della trasmissione. Il progetto di Spielberg si fonda consapevolmente sulla volontà di mostrare, non tanto sopravvissuti/testimoni provenienti da un altro pianeta, quanto, in conformità col modello culturale americano, “gente comune che é sopravvissuta al naufragio della guerra”.
Con l’introduzione della telecamera e la narrativizzazione della Shoah (un filone di studi sui suoi caratteri si é consolidato in America con il nome di Post-Holocaust) la figura del testimone cede il posto a quella fortemente socializzata del testimone del testimone e cioé dell’Apostolo, che si fa portatore di una verità acquisita. Il personaggio di svolta di questa tipologia di memoria non più il testimone diretto ma colui che, attraverso un atto di volontà, si autoinveste erede di una verità potente da trasmettere. Ma la tendenza a comunicare la brutalità di quell’esperienza in forma narrativa risponde anche a un altro bisogno ben sintetizzato dallo scrittore israelino Aaron Apelfeld, un sopravvissuto al genocidio: “La letteratura dice: guardiamo questa particolare persona. Diamole un nome, un luogo, offriamole una tazza di caffé….La forza della letteratura risiede nella capacità di creare intimità. Quel genere di intimità che ci tocca personalmente”.
E’ un punto molto importante questo perché al “patto testimoniale” che ha segnato il paradigma della memoria novecentesca sta subentrando un nuovo patto: cio che la Wieviorka definisce il “patto di compassione” attraverso il quale, con la complicità dei media, si compirebbe oggi la trasmissione di quella memoria. E’ una categoria questa della compassione, che si alimenta di quella nozione più generale di intimità cui si ispirano i migliori studi di sociologi come Anthony Giddens o Richard Sennet, cruciale per comprendere le metamorfosi della memoria politico-statuale al volgere del nuovo millennio. Se la figura del testimone aveva attraversato per intero la stagione della memoria primonovecentesca, segnata per intenderci dalla centralità dell’esperienza della guerra ( e che ha dato corso a una storiografia specifica, la storia orale) ora essa é sovrastata da uno doppio sguardo che, attraverso la rinarrazione dei media o la riconfezione di un museo, ne amplifica l’esperienza, così da poterla esibire: così, da penetrare, mediante il patto di compassione, la sfera nervosa della nostra ondivaga intimità.
Spetta al linguaggio della narrazione avvicinare l’oggetto di memoria che sempre più, in una società per sua natura immemore, veste i panni stranieri dell’Altro. Entro il cerchio magico del racconto ciò che si innesca é, non a caso un meccanismo per cui -come afferma un sociologo della cultura Paolo Jedlowski- ai personaggi narrati prestiamo più facilmente qualcosa di noi e questo ritorna sotto la forma di identificazione.

4. La memoria come rassicurazione

La narrativizzazione della memoria non si effettua, tuttavia, esclusivamente nelle forme tradizionali della fiction letteraria o mediatica. Il racconto ipertrofico della memoria contemporanea,si compie oggi sempre più attraverso la ritualizzazione (spesso mediatica) dei luoghi: attraverso l’evocazione geografica di un evento in un luogo prendono forma, nell’espressione di Jan Assmann, uno dei più importanti teorici del significato sociale della memoria, nuclei di cristallizzazione dello spazio e del tempo attorno ai quali si addensa la memoria. Vere e proprie figure collettive del ricordo o quadri mnestici, per usare una terminologia che risale ad Halbswachs, fortemente compenetrate di un’ideologia del luogo: come se l’entità spaziale, il suo perimetro palapabile, inducesse automaticamente immagini, fosse portatore di per sé, lo ricordavo all’inizio, di una autonoma capacità di ricordare.
Luoghi o unità di spazio di misura variabile tanto più investiti di memoria quanto “popolati” in absentia: : il paese o la valle e la sua storia iscritta tra le pietre per la comunità, la casa tradizionale sede nel tempo di infinite generazioni per la famiglia. E, ad estensione, quell’intero mondo materiale che gravita attorno all’io radicato fatto di utensili, mobili, ambienti, cose da cui promani un’immagine di permanenza e di stabilità.
E’ il dato insomma in senso lato della territorialità di cui secondo Majer la nostra memoria ( o ipermemoria) si compone e di cui – qui ancora un affondo che ci fa riflettere – essa stessa non sarebbe altro che il surrogato.
Certo anche nelle riflesioni di Pierre Norà, l’interprete e inventore dei pluricitati Luoghi della memoria, la geografia memorabile non riesce a sottrarsi alla potenza deviante dell’ossimoro per cui l’ipertrofia del luogo ricordato non esclude la sua caduta ai margini dello spazio politico attivo, o l’unanimismo memoriale si compie in assenza di ogni dimensione comunitaria.
Al pari del cinema o del video televisivo anche il il luogo si delinea, allora, come fondale di una memoria che definirei “rassicurativa”: capace di parlarci perché idoneo a comunicarci qualcosa di noi, in grado di forzare le barriere ostili del tempo incomprensibile del passato, perché pervaso di materia intima, domestica, familiare: le forme consuete del paesaggio, i ruderi oggetto di racconti nell’infanzia. Il luogo é portatore di memoria irriflessa tanto più quando con le sue tracce materiali parla il linguaggio del dolore. E’ Luogo dolente per definizione, zona simbolica di una frattura insanabile (ancora il non dicibile della memoria del novecento) che con le sue stesse rovine innesca una tragica narrazione materiale: capace di colpire nel profondo l’immagine di una vita intima e sociale messa a repentaglio, evocativa di un dramma tanto più se di quel dramma parlano le parole della nostra stessa storia, la sostanza più propria che é alle radici della nostra stessa esistenza. E il caso del villaggio-martire di Oradur-sur-Glane, nella Francia centro -occidentale (ma potrei citare anche Boves o S.Anna di Stazzena in Italia) : a Oradur il 10 giugno 1944 i nazisti massacrarono 642 donne, uomini, bambini (solo 6 scamparono alla morte) ammassando i più nella chiesa del paese e dando fuoco all’edificio. Da allora il paese é stato oggetto di restauri continui: targhe sugli edifici ricordano un mondo rurale scomparso e nel 1992 si é tentato in ogni modo di riportare all’aspetto originario anche l’automobile del medico del paese rimasta sulla piazza.
() Ma, in forma più cerebrale e estetizzante, anche un luogo non dolente, come l’antica dimora di famiglia é sfera privilegiata di una memoria meno evidente più recondita e intimizzata. Autori come Gaston Bachelard in un libro di recente ristampato in Italia, La poetica dello spazio o come Marc Augé nel suo curioso Ville e tenute, etnologia della casa in campagna, si interrogano sul significato sempre più potente di quella “visione interiore” del tempo generazionale che scaturisce al contatto con la antica casa.
Ancora il culto dell’antica dimora, questa volta di sapore vittoriano, é sempre più insistentemente celebrato nei numerosi film di registi come Ivory o Coppola tratti dai romanzi di Henry James o della Warthon ispirati a un sorta di genealogia dell’intimità, con i loro affettusi corredi di panciute teiere o di vaporosi tendaggi che schiudono alla vita l’ordine ormai inconsueto di un giardino d’un tempo.()
Ovunque, intorno a noi, la memoria si fa sempre più, ci piaccia o meno, memoria dell’intimo, di un passato riconoscibile per di più attraverso le sue tracce materiali e domestiche, il racconto frammentato e interiorizzato di temporalità emotive inscritte dentro di noi : quasi a cercare nei ricordi corporei, materiali del tempo rassicurazioni sulla nostra incerta esistenza.
E’ una memoria di sé, così la definirei un po’ provocatoriamente, quella che si alimenta dei mondi vitali del passato: indifferente sempre più agli scenari algidi della retorica politica e anche della storia, ma non per questo refrattaria, anzi direi incontinente, ai suoi racconti interiori, domestici, familiari, alle piccole epopee dei luoghi o alle trine nei cassetti della bisnonna. O, per usare la terminologia di Jan Hassman, si può osservare uno squilibrio crescente tra una memoria cosiddetta culturale, in quanto prestazione o rito di tipo cerimoniale che si alimenta di un ricordo fondante – attinente al piano del sacro- e di una memoria cosiddetta comunicativa riferita a un tempo profano, biografico o generazionale, attinente piuttosto al piano del quotidiano.

5. Memoria, storia. Fine della comunità?

Certo é che nei moti scomposti della temporalità contemporanea, il divario tra Storia e memoria sembra quanto mai allargarsi: dopo i fasti della storia orale, imperniati anch’essi intorno alla centralità della figura del testimone, e le feconde indagini a largo raggio sui Luoghi della memoria (penso ovviamente a opere monumentali come quella curata da Mario Isnenghi), e nonostante si siano avviate, anche di recente importanti ricerche comparate specie in area tedesca, sulle diverse memorie nazionali delle due guerre, i rapporti tra memoria e storia sembrano scontare, al di là dei singoli campi di ricerca più o meno innovativi, un’impasse di fondo. Registrando la prima, la memoria, una irriducibile fuga nella narrativizzazione e intimizzazione del ricordo (così da occultarne e recidere ogni significato pubblico, civile, universale) e prestandosi la seconda, la storia, a trasformarsi essa stessa in una sorta di mnemotecnica (nel tentativo di piegare la memoria a puro oggetto di ricerca). Correndo spesso il rischio, al di fuori dell’ambito puramente metodologico come é il caso del celebre Storia e memoria di Le Goff o del recente Sur l’histoire di Pomian, di lasciarsi sfuggire la materia instabile della memoria).
Concludo allora ritornando proprio al punto di partenza a quella contrapposizione tacita fra storia e memoria che si rivela quanto mai oggi pericolosa: nel venir meno di quella funzione che ancora Jan Assmann definisce controrappresentativa della memoria (capace cioé di evocare la materia antagonista del passato, non la sola sfera del rispecchiamento) la collettività fuoriesce dalla dimensione bitemporale più propria della vita storica, del succedersi dialettico delle società nel corso del tempo.
Solo riconoscendo al proprio interno la cesura temporale, che opera in forma sempre più accelerata, solo incorporando dentro di sé la discontinuità propria della storia (e non l’identificazione giocata sul piano mistificante del patto-compassionevole) la memoria può recuperare il valore di contrasto, l’ antagonismo proprio del passato, il suo essere sempre e comunque non-contemporaneo (mai cioé pacificato e domestico) capace di ridisegnare in forma critica i contorni autoritari e totalizzanti del nostro presente.
E’ indubbio che questa memoria presuppone, nell’impatto aspro fra temporalità in conflitto, un di più di conoscenza storica, come ricorda Mariuccia Salvati nel suo libro discusso qui proprio qualche settimana fa. Ma insieme la riflessione sulla memoria, non può non fare i conti, anche qui, ci piaccia o no, con un elemento che trascende gli ambiti della dialettica con la storia e investe la sfera surriscaldata delle dinamiche comunitarie. Ha a che fare con quelle trasformazioni violente e contraddittorie dell’immagine del vivere comunitario di cui parla Bauman nel suo ultimo libroVoglia di comunità:: indotta e richiamata proprio da quella dimensione di vita che Bauman definisce Bolla globale, la domanda di memoria, nei suoi tratti vistosamente identitari, finisce per costituire un inevitabile surrogato della comunità. Una comunità paradossale, in larga misura impossibile, perché evocata attraverso identità sì ma flessibili, costruita su presupposti violentamente contraddittori, fondata già in partenza su non-appartenenze. Una comunità immaginaria ma non per questo disattivata (Bauman parla di comunità estetica più che etica) difficile da ricordare, e rispetto alla quale la memoria esercita una funzione di supplenza.
A questo punto si aprono diverse domande, tra loro contraddittorie, e di non facile soluzione:

– E’ possibile una memoria senza comunità?

– Ma, insieme, quale memoria producono le comunità (penso all’haiderismo e alle memorie etnico ecologiche dell’Heimat mitteleuropeo di Haider )

– E, ancora, dove va a finire, costretto fra l’intimità artificiale e la meoria dei territori, l’universalismo, o meglio la memoria dei valori universali?

Chiudo con una riflessione sull’attualità, e sulla vittoria dell’ideologia berlusconiana e del Polo. Non é la loro vittoria un segno emblematico e della sconfitta radicale anche della nostra memoria?. E quale forma saremmo in grado di contrapporre, posto che lo si voglia, nell’Italia del post 13 maggio?
Io ripartirei intanto da un grado zero: dalla memoria del dimenticato di cui parlavo all’inizio, o del rimosso, dal ricordo di significati e valori attenuati e smussati anche perché troppo spesso oggetto di mercanteggiamento. Riconsidererei, al di là della superficie interna dell’intimizzazione del ricordare, sotto la pressione aggressiva di un fuori inedito e minaccioso, quella che Assman chiama l’amnesia strutturale quella pericolosa alleanza fra potere e oblio che oppone resistenza al coagularsi del ricordo in storia, del radicarsi della memoria nel vivo dei processi, confinandola nell’ambito sterile e anestetico dell’arresto temporale e della desemiotizzazione della storia.