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Premi Sissco 2019

Vincitori: Guido Melis per "La macchina imperfetta", Raoul Pupo per "Fiume città di passione", Claudia Bernardi per "Una storia di confine", Ignazio Veca per "Il mito di Pio IX"

Premio Sissco

Premio Sissco Senior

 

Guido Melis, La macchina imperfetta. Immagini e realtà dello stato fascista, Il Mulino, 2018

Frutto di una ricerca che ha impegnato l’autore per oltre un quarto di secolo, il volume di Guido Melis ricostruisce a tutto tondo quel fenomeno che può ben definirsi “lo stato fascista”. Profondo conoscitore degli archivi pubblici e privati che contengono una ricca documentazione sul periodo indagato, l’autore si è posto il problema di capire se realmente e in che termini si possa parlare di stato totalitario per quanto riguarda l’intervento che il regime fascista operò sulla sfera pubblica intesa nel senso più ampio del termine. Avendo alle spalle molte ricerche specifiche sulla storia della pubblica amministrazione e degli apparati statali, Melis è stato in grado di rispondere in grande stile a questo quesito. Il quadro che emerge dalle sue ricerche, costantemente confrontate e verificate con tutto quanto la ricerca storiografica ha prodotto sul tema, è che le ambiguità spesso rilevate in quel “doppio stato” atipico che si instaurò all’ombra della dittatura mussoliniana presentano delle peculiarità di grande interesse.

Il volume affronta tutte le articolazioni della sfera pubblica italiana, da quelle politiche con la specificità del PNF, alle strutture tradizionali della gestione dello stato (ministeri, esercito, magistratura, organismi costituzionali) a quelle creazioni nuove che il fascismo promosse come le corporazioni o gli enti di intervento economico. Emerge così il quadro di un sistema che unisce una dimensione per così dire immaginifica con una realtà che non può fare a meno di scontare tutti i problemi di continuità che qualsiasi sistema istituzionale pone. Qui sta indubbiamente uno dei non pochi meriti di questo volume: forte delle sue competenze di autorevole storico delle istituzioni, Melis infatti non abbraccia la polemica sulla “continuità” o meno del regime rispetto alla fase precedente, ma illustra come un sistema giuridico di tipo moderno come era, pur con i suoi limiti, quello dell’Italia liberale, non poteva venire tranquillamente cancellato.

Soprattutto però il nostro autore ci consegna un risultato interpretativo molto importante che va al di là dello stesso oggetto specifico di questo volume. Quella “macchina imperfetta” che fu costruita durante e sotto il fascismo era in parte rilevante frutto di quello che potremmo definire un grande compromesso: in cambio di una adesione ideologica al mito e alle opportunità della cosiddetta rivoluzione fascista, un sistema di classi dirigenti che si erano formate e avevano attraversato la prima fase del Novecento ebbe modo di rimodellare articolazioni dello stato a misura dei propri interessi, i quali furono in alcuni casi innovativi e prospettici verso il futuro, in altri furbescamente conservatori. Ecco dunque quello che abbiamo chiamato il doppio stato all’italiana: una sfera ideologica, anche abbastanza rozza in tante parti, in cui si tentava di avviare esperimenti di nuove forme politiche (il PNF e le corporazioni soprattutto), ed una sfera per così dire amministrativa dove pur con una adesione sostanzialmente di facciata agli idola tribus del periodo si mescolavano le pulsioni progettuali della ex giovane burocrazia di inizio Novecento (a suo tempo studiata da Melis nel suo bel volume quasi di esordio sul “socialismo burocratico”) con le capacità camaleontiche di elite capaci di farsi il nido nella riorganizzazione della sfera pubblica frenata in tutti i sensi.

L’opera di Melis costituisce un punto di arrivo delle ricerche sul sistema fascista, ma, grazie alle metodologie raffinate che l’autore ha impiegato nelle sue analisi, è da considerarsi anche un importante contributo per uno sviluppo maturo di tutte le ricerche sulle trasformazioni dei regimi politici.

Raoul Pupo, Fiume città di passione, Laterza, 2018

Il volume di Raoul Pupo, Fiume città di passione, è un’analisi accurata e riuscita che decanta una lunga stagione di ricerche, confluite in massima parte in una solida e nutrita produzione storiografica, frutto di una consistente ricognizione di documenti compulsati in numerosi archivi nazionali e stranieri.

L’impianto del volume predilige il tempo lungo, alla ricerca di quella profondità storica che, sola, aiuta a comprendere la connotazione peculiare di Fiume; città adriatica, con Trieste porto di importanza strategica per i traffici commerciali, nell’Ottocento si ritrova al centro delle conflittualità interne alla difficile tenuta dell’Impero asburgico, costretta a fare i conti con i nazionalismi che divampano nell’area e con fattori divisivi che, dall’interno, minano la compattezza dei territori amministrati dalla corona austro-ungarica. La radice primaria delle analisi di Pupo, dunque, affonda molto efficacemente nel concetto di “corpo separato”, un paradigma interpretativo che consente di comprendere le ragioni che le hanno assicurato nel tempo, nonostante fosse perennemente contesa, significativi margini di autonomia. Nel mezzo delle vicende narrate si collocano poi gli italiani e l’irredentismo esploso all’indomani della Grande guerra. Il mito della “vittoria mutilata”, scaturito dagli assetti wilsoniani, e l’iniziativa tutt’altro che simbolica di Gabriele D’Annunzio si pongono a fondamento della grave crisi diplomatica del biennio ‘19-‘20 e della reggenza istituita nella città nei quattordici mesi di protagonismo dannunziano. Si trattò di un’operazione non solo militare ma che, come ben documenta l’autore, si nutrì anche degli apporti delle avanguardie culturali (con il futurismo in testa) che, nel caso dell’Italia, avrebbero generato un carsico legame tra il linguaggio del fiumanesimo e quello del serpeggiante squadrismo fascista.

La forza mostrata dal Governo italiano nel porre fine, nel “Natale di sangue del 1920”, alla Reggenza del Carnaro, avrebbe poi ribaltato nuovamente le cose, facendo transitoriamente di Fiume uno Stato libero e poi, a partire dal 1924, «estremo lembo della patria», dove il fascismo di confine si sarebbe manifestato con rigore progressivamente crescente, attesa l’incapacità della classe dirigente locale di orientare e/o condizionare le scelte del centro decisionale romano.

Gli anni Trenta, invece, puntarono alla progressiva soppressione delle «minoranze» rimaste «dalla parte sbagliata», innescando i processi di denazionalizzazione e sradicamento di etnie diverse dalla italiana, massimamente costituite da slavi ed ebrei. Ma è agli anni della guerra che l’autore dedica particolare attenzione, ricostruendo la rottura degli equilibri del fronte orientale, dove innanzitutto i tedeschi, e a seguire gli italiani, occuparono spazi sempre più ampi di dominio: Fiume fu allora «retrovia immediata» dei Balcani, e «la sua provincia allargata» divenne «prima linea». Molto opportunamente la trattazione passa in rassegna le lotte cruente contro le forze partigiane antifasciste a guida comunista e la storia delle deportazioni coatte, mentre l’armistizio segna l’inizio dello sbandamento delle forze armate, primo atto della repentina fine della sovranità italiana su Fiume.

A quella che è definita «la resa dei conti» Pupo dedica la parte finale del volume, descrivendo la complessa stagione di violenze subite dagli italiani fiumani attraverso infoibamenti, sparizioni, esodi, espropriazioni, sul cui sfondo si mosse il progetto “autonomista” delle forze comuniste dell’est europeo che, sotto la guida di Tito e non senza strappi, capitalizzando i meriti della lotta partigiana, puntarono a una maggiore indipendenza da Mosca.

L’opera di Pupo restituisce il profilo di una storia di confine che, nel corso del Novecento, è stata paradigmatica delle profonde fratture che, tra conflitti mondiali e totalitarismi, trovarono a Fiume un luogo di coagulo. Il doppio codice interpretativo impiegato, che si muove tra le persistenze dell’urbs e la mobilità della civitas, rende viepiù eloquente il caso fiumano, in un tempo della storia in cui tolleranza, pluralismo e multiculturalismo, tratti identitari della città, interpellano ancora l’inquieto tempo presente.

Premio Sissco Opera Prima

Claudia Bernardi, Una storia di confine. Frontiere e lavoratori migranti tra Messico e Stati Uniti (1836-1964), Carocci, 2018

Con il volume Una storia di confine. Frontiere e lavoratori migranti tra Messico e Stati Uniti (1836-1964), Roma, Carocci, 2018, Claudia Bernardi fornisce una sintesi su una questione di grande interesse storiografico, che ha suscitato molti studi sia negli Stati Uniti che in Messico, ma su cui in Italia mancava un contributo complessivo.

La vicenda del lavoro migrante, secondo gli orientamenti storiografici più aggiornati, è affrontata come una vicenda sociale ed economica specifica, che però contribuisce alla definizione e alla progressiva trasformazione della frontiera tra due paesi, che non è mai una semplice linea sulla carta geografica, ma assume via via caratteri culturali, evidenziando uno spazio flessibile di confronto e di influenze reciproche. Le scelte politiche governative e amministrative locali sono tracciate con una certa sicurezza, collegandole allo studio di orizzonti più ampi, sui quali il volume ricorre ampiamente alle categorie della storia culturale. Attenzione è dedicata anche alle dinamiche coloniali e postcoloniali, come alla razzializzazione delle esperienze collettive e delle connesse rappresentazioni stereotipate. Una specifica sensibilità di taglio storico-sociale porta anche a studiare le difficoltà e i limitati successi delle forme organizzative sindacali in tutta l’area.

La ricerca è ben organizzata, fondata su diversi archivi, a cominciare dall’Archivo general de la nacion di Tijuana, oltre a cospicui fondi di testimonianze collegati a progetti strutturati di storia orale. La documentazione degli enti che costruirono e supervisionarono i maggiori progetti di gestione e controllo dei flussi migratori è attentamente considerata, come le maggiori raccolte di dati e statistiche sul fenomeno.

Interessante, nella prospettiva di una giovane studiosa, è l’idea di tracciare un quadro generale di lungo periodo, che risale alle vicende costitutive dell’identità statunitense e di quella messicana, intrecciate con le storie ancora precedenti delle comunità indigene interessate dalla costituzione di entità statali nel corso dell’Ottocento. Processi collegati anche alla conflittualità che portò all’espansione territoriale statunitense e alla progressiva definizione – con un lunghissimo percorso che si prolungò ben oltre i trattati di metà secolo – di una linea di confine quanto mai travagliata e complessa da fissare. Naturalmente si attraversa poi il decisivo spartiacque dell’epoca rivoluzionaria messicana, che si intrecciò con le vicende di gruppi e comunità locali, modificando spesso le opportunità e le filiere degli spostamenti dei lavoratori. La storia entra nel vivo con le vicende degli anni Trenta e soprattutto con quel Programa bracero durato più di vent’anni – tra la seconda guerra mondiale e gli anni sessanta –, che si è affiancato agli spostamenti spontanei e individuali di persone e lavoratori, tentando di offrire un quadro di governo del fenomeno con un’intesa tra i due Stati e un controllo delle dinamiche complessive di selezione, spostamento e allocazione dei lavoratori nelle imprese al nord della linea di frontiera. In tale ottica, il volume lascia aperta la prospettiva interessante di tracciare rotture e continuità tra questo percorso e i successivi programmi sperimentali legati alla vicenda delle maquiladoras, giungendo fino a tempi più recenti.

C’è in qualche modo un tema di fondo che segna la ricerca, dato dalla creazione progressiva di un mercato del lavoro funzionale alle esigenze dei grandi coltivatori nordamericani (ma anche di imprese minerarie o ferroviarie), che non vogliono solo sfruttare manodopera a basso costo, ma intendono sempre – lungo le filiere dei lavoratori clandestini come all’interno dei processi regolamentati del Programa bracero – costituire un ampio bacino di utenza definito dalla flessibilità e disponibilità alle proprie esigenze. Su questa esigenza si stagliano – valorizzate dal volume – alcune storie di eventi e persone che arricchiscono il profilo complessivo narrato.

Ignazio Veca, Il mito di Pio IX. Storia di un papa liberale e nazionale, Viella, 2018

Il libro di Ignazio Veca non intende solo illustrare un momento della storia politica, culturale e religiosa del secolo XIX che non è stato ancora esplorato in maniera approfondita, come evidenzia il rilievo tutto sommato secondario che il mito di un papa liberale, riformatore e nazionale assume nell’ancora insuperata biografia complessiva dedicata da Giacomo Martina alla figura di Pio IX. Il volume intende anche utilizzare l’indagine su una vicenda cronologicamente circoscritta al fine di poter compiere una serie di affondi analitici in grado di fornire adeguato supporto critico ad una nuova chiave di lettura delle dinamiche complessive della società ottocentesca. A questo scopo Veca conduce, con grande padronanza degli strumenti del lavoro storiografico, una indagine assai ampia.  Mette infatti in opera una vasta gamma di fonti: da quelle iconografiche circolanti nelle stampe e nei giornali illustrati a quelle letterarie e musicali; dalle relazioni dei diplomatici agli atti amministrativi spesso seguiti nel loro processo redazionale; dagli innumerevoli “gadgets” immessi sul mercato dalla moda “piononista” agli interventi degli intellettuali sulle riviste politico-culturali. Lo spazio considerato va al di là di quello italiano, per affrontare l’argomento anche nell’area francofona – dal momento che la situazione politica interna rende ovviamente l’esagono attentissimo alle vicende della penisola –  con un meritorio intento comparativo e con sensibilità allo scambio transnazionale. La ricostruzione allarga gli ambiti usuali della storia culturale della politica e della religione per soffermarsi anche sui nuovi canali di comunicazione che vengono attivati nell’incipiente società di massa.  Un primo risultato conoscitivo di questo approccio consiste nella migliore intelligenza di un consistente numero di personaggi ed accadimenti, che, già considerati dagli studi, sono ora precisati alla luce di nuova documentazione o di una più attenta analisi della documentazione già nota, ma letta alla luce delle recenti acquisizioni della storiografia e delle scienze sociali. Il più rilevante apporto del libro allo sviluppo degli studi si trova però nel chiarimento del processo di elaborazione di due grandi categorie della modernità: libertà e nazione. Mostra che la loro concreta attuazione è passata, più che dalla contrapposizione tra mondo moderno e chiesa cattolica, attraverso contaminazioni tra culture diverse, di cui la singolare stagione del generale ’”investimento emotivo” sul mito di Pio IX appare un emblema straordinariamente rivelatore.